Alcuni lettori ci chiedono quale sia l’aggettivo derivato dall’oronimo Nebrodi: nebroideo, nebrodeo o nebrodense? E anche: “le montagne Nebrodi” anziché i monti Nebrodi, è legittimo?
Per rispondere alle numerose domande relative all’aggettivo etnico derivato da Nebrodi, occorrono alcune indicazioni generali sul referente. Oggi con Nebrodi si individuano una serie di massicci e monti isolati (il monte Soro ne è la cima più elevata con i suoi 1847 m.) nella parte settentrionale della Sicilia, che insieme ai Peloritani (a Est) e alle Madonie (a Ovest) compongono l’Appennino Siculo. Essi si affacciano sul mar Tirreno e sono delimitati a oriente dalle valli fluviali dell’Alcantara e del Simeto.
Un problema non indifferente, prima di quello onomastico, è dato proprio dalla referenza di ciò che è chiamato Nebrodi nelle fonti antiche. Qui ci limiteremo a dire che andando indietro nella ricerca documentaria, si registra in Strabone (VI/ 2,9) la voce Νευρόδη ὄρη; in Silio Italico (XIV, 236) e Gaio Giulio Solino (V, 12) Montes Nebrōdes, ma in nessun caso riusciamo a identificare a quale sezione appenninica si faccia riferimento. Se, però, ci avviciniamo cronologicamente e attingiamo alle informazioni della ricca corografia di Fazello (Tommaso Fazello, De rebus Siculis decades duae [1558, 1560, 1568], volgarizzato da Remigio Nannini, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, 1574), apprendiamo che per Nebrodide si intendeva un singolo monte, anticamente chiamato Cratone (unica fonte, quella di Tolomeo), che svetta come seconda cima dell’intera Sicilia, con una base assai larga, e che guarda ai centri di Polizzi, Isnello, Collesano e alla rocca di Buonvicino (tra Castelbuono e Cefalù) e ne è quasi circondato. La descrizione corrisponde inequivocabilmente alla porzione più occidentale del massiccio madonita e non all’attuale area geografica contrassegnata dall’oronimo Nebrodi. La referenziazione occidentale in realtà risulterebbe confermata da una fonte antica – la Naturalis historia di Plinio il Vecchio, in cui sistemi del Maroneus e dei Gemelli colles (3.88. 7-8) individuerebbero tre massicci oggi madoniti, ma appartenenti all’area in cui insisteva il Nebrodide – e una moderna, la Sicilia antiqua (1619) di Filippo Cluverio, che descrive il Maro mons affermando:
Questi monti Gemelli sono prolungati tra la fonte dell’Imera settentrionale e il monte Marone e ora sono detti volgarmente Monte Mele: gli antichi non lasciano traccia di questo nome. Inoltre, tutto questo, il giogo dei monti Gemelli e il monte Marone, con un altro nome Silio, Solino li chiamano Monti Nebrodes. (libro II, cap. 11, trad. nostra)
Che Nebrode (come monte)/Nebrodi (come catena) fosse il nome originario di quella che oggi è considerata area madonita lo confermano indirettamente alcune specie botaniche presenti in maniera endemica ed esclusiva sulle Madonie: tra queste, il leccio nebrodense (Abies nebrodensis) e lo spillone (o viola) dei Nebrodi. A un certo punto, però, deve avere prevalso la forma popolare Madonie e l’oronimo Nebrodi è scomparso dal massiccio centrale ed è slittato arealmente per intendere l’area montuosa orientale contigua. Di passaggio accenniamo a un problema accentuale – ossia se si debba pronunciare Nèbrodi o Nebròdi – che Piero Fiorelli (Mille e più toponimi italiani d’accentazione controversa, Accademia della Crusca, Firenze, 2023, p. 223) risolve a favore dell’accentazione sdrucciola.
Tale passaggio dalla puntualità all’arealità, che altro non è che una forma di estensione sineddotica, si manifesta ancora nei processi onomaturgici dialettali. Ancor più interessante il fatto che il nome Nebrodi, scalzato dalla sua area di prima attestazione, sia “scivolato” nell’area più orientale, in un riassestamento complessivo delle denominazioni, avvenuto a livello ufficiale, ma del tutto estraneo ai meccanismi di nominazione popolare e orale.
Veniamo, alfine, all’etnico di Nebrodi (monti Nebrodi, non montagne Nebrodi, come segnala Giovan Battista Pellegrini).
I nostri lettori si chiedono quale sia la forma corretta tra nebrodensi, nebroidei, nebrodei. Aggiungerei alla lista anche nebroidensi, altrettanto presente – sia pur in quota minoritaria – in rete. Occorre dire che gli aggettivi, rispetto ai sostantivi comuni e al lessico onomastico, sono dei derivati cronologicamente successivi. Ciò implica che essi prendano forma negli usi ufficiali prima che in quelli quotidiani. Da quanto si è esposto sopra, lo stesso oronimo Nebrodi non è mai risultato di impiego orale dialettale.
Ogni nostra valutazione, dunque, deve tenere conto del fatto che la costruzione derivazionale è prodotta in ambito non popolare. La stessa domanda che ci viene posta poteva nascere soltanto in epoca di italofonia e scolarizzazione diffuse. Se si attraversassero questi territori montuosi e si chiedesse come chiamano le montagne della zona ai contadini della zona, sentiremmo parlare di Rocchi dû Crastu (Rocche del Crasto) o di Muntagnë dë Loncë (Monti di Longi), senza riferimento a nessun iperonimo.
Alla base delle scelte suffissali che qui stiamo considerando, ci sono due opzioni morfologiche: -ensis (Rohlfs 1969 § 1122) e -aeus < - αῖος (Rohlfs 1969 § 1077). Sia il primo che il secondo suffisso producono forme auliche.
-ensis, da cui nebroidense, -i, nebrodènse, -i. È il suffisso più impiegato per individuare le specie botaniche relative al luogo quando si ricorra alla classificazione linneana (es.: Helichrysum nebrodense). Nella coppia risulta prevalente l’uso di nebrodense. La presenza della nasale presibilante è chiaro segno di forma non popolare: infatti, quando il suffisso si evolve con la regolare trafila volgare produce -ése (es.: messinese, catanese, ecc.).
-aeus < - αῖος, da cui nebroideo, -i, nebrodeo, -i. Nella coppia risulta prevalente l’uso di nebroideo (ess.: centro nebroideo, territorio nebroideo, comunità nebroidea, cultura nebroidea, nocciuola nebroidea, calcio nebroideo, ecc.). Non è raro, comunque, trovare anche l’altra variante (ess.: sindaci nebrodei, tramonti nebrodei, comuni nebrodei). Sembra che questa seconda forma aggettivale tenda a passare più spesso al rango di sostantivo (i Nebrodei, per intendere i cittadini, i calciatori, ecc.).
La differenza tra le ultime due varianti delle diverse serie deriva dalla base di partenza dell’oronimo: da Nebrodide, come nelle forme attestate dal greco e dal latino, da cui nebroidense e nebroideo; oppure da Nebrodi, da cui nebrodense e nebrodeo.
Che si tratti in ogni caso di suffissi colti è inferibile da ulteriori esempi siciliani. Il DETI (Teresa Cappello, Carlo Tagliavini, Dizionario degli etnici e dei toponimi italiani; oggi anche in versione digitale) indica per l’isola tirrenica di Lipari, l’etnico ufficiale Liparèo. In ambito popolare, sappiamo però che l’unica forma in uso è Liparòto (da -ώτης). Si fa ricorso a questo suffisso anche per Zanclèo (antico nome di Messina) o Iblèo (di Ibla, antico nome di Ragusa), entrambi di tradizione colta.
Come si è anticipato, nelle indagini condotte sul campo nessun testimone dialettale ricorre alla voce Nebrodi; a maggior ragione possiamo escludere, dunque, di trovare una forma dialettale derivata di qualunque tipo nominale e con qualunque suffisso.
Attingendo alla lessicografia, il GDLI, il GRADIT, il DELI, il DI Deonomasticon Italicum di Wolfgang Schweickard (Tubingen, M. Niemeyer, 1997-2006) non registrano nessuna delle quattro possibili varianti dell’etnico. Se, però, vogliamo verificare le occorrenze d’uso, che spesso fungono da cartina di tornasole degli orientamenti dei parlanti, la rete ci restituisce questo dato (ricerca del 14/11/2024):
Per concludere (e per gioco) si chieda all’assistente vocale digitale Alexa, quale coppia tra nebroideo/nebrodeo e nebroidense/nebrodense sia corretta: risponde “non so come aiutarti”. Siri, invece, alla domanda quale delle varianti sia la più corretta tra quelle qui analizzate risponde “in quale lingua?”. Speriamo di aver dato qualche utile informazione ai nostri lettori e anche all’I.A….
Marina Castiglione
17 febbraio 2025
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