Molti ci chiedono se l’espressione prendere un rischio, la cui diffusione oggi sembra sia in aumento soprattutto nel parlato, possa essere considerata corretta e se si tratti di un anglismo.
Un rischio si corre o si prende?
La domanda verte su una di quelle che tecnicamente si chiamano “collocazioni”: si tratta cioè di sequenze di parole che non costituiscono vere e proprie polirematiche, perché ogni parola mantiene il proprio significato autonomo, ma che ricorrono talmente spesso insieme da costituire quasi delle locuzioni fisse: così un’ipotesi normalmente si avanza (o tutt’al più si fa), un concorso si bandisce, i compiti a casa si assegnano, ecc.
Comunemente in italiano per esprimere l’essere in una situazione o condizione di pericolo o difficoltà si usa l’espressione correre un rischio, con il verbo correre usato transitivamente, in senso figurato.
L’uso di questa locuzione appare radicato già in italiano antico, perché la presenza di correre un rischio (o simili: rischio, il rischio, rischi, ecc.) è ben documentata nei testi scritti dal Trecento, e continua sino a oggi senza soluzione di continuità. Se ne riportano alcuni esempi, dal Trecento agli anni Duemila: “i detti merchatanti non volgliono correre quello rischio” (Lettere senesi, 1321); “e corso il rischio per lui e paghato la senseria” (Documenti fiorentini, 1348‑1350); “e correre rischio d'essere cacciati di loro stato”; “Ma grande rischio corsero i mercatanti fiorentini” (Marchionne, Cronaca fiorentina, 1378‑1385); “ch'i' ho corso un gran rischio” (A.F. Grazzini, detto il Lasca, La Gelosia, 1550); “perché i dazi corre rischio che una volta messi restino per sempre” (F. Galiani, Della moneta, 1751); “e corre il rischio che gli mettano il curatore” (F.D. Guerrazzi, L’assedio di Roma, 1863‑1865); “e al nostro ronzino corriamo rischio ogni giorno di far dare una biada per l'altra” (G.I. Ascoli, Proemio all’Archivio glottologico italiano, 1872); “affermava che i suoi denari non correvano rischio di sorta”, “e una volta , anzi, a Vienna, aveva corso rischio di dormire al posto di guardia” (F. De Roberto, I Viceré, 1894); “Vi sono emozioni primigenie che non si possono smarrire senza correre il grave rischio di uscire da ogni via di classicismo” (G. De Chirico, Classicismo pittorico, La Ronda, 1920); “Ma ora non potevo correre il rischio di essere trattenuto in qualche lugubre padiglione” (E. Flaiano, Tempo di uccidere, 1947); “Pure ci avevano lasciato correre il rischio di commettere una sciocchezza” (E. Vittorini, Le donne di Messina, 1949); “e poi essendo insieme a Bube non correva rischio di sfigurare” (C. Cassola, La ragazza di Bube, 1960); “correva rischio di essere accusato come eretico” (U. Eco, Il nome della rosa, 1981); “si corre il rischio di mettergli in bocca un'eloquente e stilizzata enfasi” (C. Magris, Microcosmi, 1997); “non corriamo forse tutti lo stesso rischio?” (D. Rea, La dismissione, 2002).
Ci sono però anche altri verbi che possono introdurre (anche servendosi di reggenze preposizionali) la parola rischio per indicare la possibilità di una circostanza negativa, tra i quali: affrontare, assumere incorrere, esporre (transitivo, così come porre, mettere: esporre qlcu. al rischio di qlco.), stare, restare. Tuttavia, la perifrasi più usata e meglio documentata in letteratura è, e rimane, correre un rischio.
Recentemente si sta diffondendo anche l’espressione prendere un rischio. Senza alcun dubbio questo avviene per l’influsso dell’inglese to take risks 'rischiare'. Infatti nella storia dell’italiano questa perifrasi sembra essere assente; in rarissimi esempi trecenteschi rischio co-occorre con prendere, ma è preceduto dalla preposizione a: “Maestro Lando prende a rischio insieme a maestro Agostino di Giovanni” (Documenti senesi, 1306‑1375); “per non avere a rendere lo presto che à preso a rischio e ventura della sua nave” (Pegolotti, Pratica, XIV sec.). L’espressione prendere un rischio (o dei rischi o simili) appare documentata soltanto a partire dalla fine del secolo scorso in testi giornalistici o di divulgazione scientifica. Ecco alcuni esempi, dal 1999 al 2013: “Cernomyrdin, e con lui Boris Eltsin, prendevano dei rischi” (Sandro Viola, La fenice russa è risorta nei Balcani, "La Repubblica", 1999); “fare la guerra senza prendersi i propri rischi, vuol dire aggravare il fossato fra il mondo dei ricchi e quello dei poveri” (Adriano Sofri, Mai più la guerra. Mai più Auschwitz, "La Repubblica", 1999); “Ok, oggi mi prendo tutti i rischi con le gentili internaute sintonizzate” (G. Caliceti, Pubblico/Privato 0.1 Diario on line dello scrittore inattivo, Sironi Editore, Milano, 2002); “nominando Testa, senza avergli chiesto il permesso di fare il suo nome, mi prendo un rischio” (M. Albertini, Tutti gli scritti, Il Mulino, Bologna, 2006); “soggetti nei confronti dei quali prendere un rischio di credito” (R. Locatelli [a cura di], Rischi, patrimoni e organizzazione nei confidi, Franco Angeli, Milano, 2012); “noi nasciamo per prendere il rischio” e “il nostro lavoro non è prendere rischi, ma prendere rischi consapevoli” (A. Quadrio Curzio [a cura di], Banche popolari e imprese innovative. Cooperare per crescere, Franco Angeli, Milano, 2013).
In conclusione, si può affermare che prendere un rischio sia espressione di introduzione piuttosto recente e che interessi prevalentemente la sfera del linguaggio giornalistico e della divulgazione scientifica, soprattutto di ambito economico. Indubbiamente per la sua diffusione è stato fondamentale l’influsso dell’inglese (a partire, probabilmente, da traduzioni “parola per parola” da testi in questa lingua). Sicuramente questa espressione non può essere considerata un errore, ma certo documenta come l’influsso dell’inglese non si limiti all’introduzione di anglismi non adattati, ma investa anche la fraseologia, determinando la nascita di nuove collocazioni che si affiancano e, in prospettiva, possono determinare l’accantonamento di quelle tradizionali.
Laura Eliseo
3 febbraio 2017
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