Un lettore vorrebbe sapere se esiste la parola percettile, riferita ad attività del percepire.
La mia reazione istintiva è stata sospettosa e critica; poi, pensandoci su meglio (melius re perpensa, direbbero i giuristi), ho cambiato idea. Non solo l’aggettivo percèttile esiste (metto solo qui, per praticità, l’accento), ma forse sarebbe utile accoglierlo.
La perplessità iniziale è presto spiegata: percettile è una parola rarissima, non registrata in nessun dizionario e attestata sporadicamente anche in rete, dove inoltre si confonde spesso con percentile, termine tecnico, ma di gran lunga più noto e diffuso. Legata a percezione, come nota il lettore, è formata a partire dal latino perceptus, participio perfetto del verbo percĭpere. Lo sviluppo italiano del nesso consonantico -pt-, solo interno in latino (in greco anche iniziale), è ‑tt-: dal più semplice aptum > atto ‘adatto’ (e attitudine; ma anche ineptum > inetto) passando per reptilem > rettile fino al neologismo in incubazione attamento (o ex-attamento), forma scartata – ma evocata come possibile, e dunque documentata – dal filosofo della biologia Telmo Pievani come equivalente del neologismo inglese exaptation (cfr. Gould-Vrba 2008, p. 15n.); lo stesso esito si ha anche dal più raro nesso -bt- (subtilem > sottile).
Tuttavia i non molti aggettivi formati da participi passati irregolari con il suffisso ʹ-ile derivano quasi solo da forme latine con -ct-: contrattile, duttile, erettile, protrattile, retrattile sono quelli raccolti in Grossmann-Rainer 2004 (Davide Ricca, Aggettivi deverbali, pp. 419-443: p. 440), a cui si aggiungono ovviamente tattile, ma anche il citato rettile, ottenuto per conversione da un aggettivo che significava ‘strisciante’ usato nel latino ecclesiastico per riferirsi al serpente che tentò Adamo ed Eva. Dai verbi latini composti con capĕre si sono invece preferite, già in latino tardo, forme derivate dall’infinito piuttosto che dal participio perfetto: concepibile e inconcepibile, eccepibile e il più diffuso ineccepibile, percepibile, recepibile. Siccome ci muoviamo nell’ambito di parole colte, esistono naturalmente le eccezioni, come impercettibile, suscettibile e come anche percettibile, variante meno comune di percepibile.
C’è però un’altra distinzione più sottile, e stavolta non formale, tra percepibile (o percettibile) e percettile: percepibile è ciò che è o può essere percepito dall’esterno, percettile è ciò che ha la qualità di essere percepito, così come retrattile è ciò che si ritrae, che è capace di ritrarsi, e tattile si dice di ciò che riguarda il tatto o di organo sensibile al tatto. Ma ne parlerò tra poco.
Occorre prendere le mosse da percettibile, che deriva dal participio passato percetto ‘percepito’, una forma che il GDLI registra già alla fine del Seicento negli scritti giuridici di Giovan Battista De Luca, il quale definisce “frutti percetti” (corsivo mio) i vantaggi ricavati, per esempio, dalla vendita di un bene: nello stesso GDLI, oltre alla citazione del filosofo e politico Giuseppe Ferrari (1811-1876), “Gli oggetti del pensiero non esistono per noi se non percetti; eppure appena percetti si stabiliscono”, è interessante quella dell’uso sostantivato di percetto nell’opera di Gillo Dorfles. In quest’ultimo caso il significato sarebbe (riproduco il testo del GDLI):
Contenuto dell’intuizione empirica intesa non come atto intuitivo ma come il fatto stesso di avere intuito (e si può considerare come oggetto della percezione, senza però alcun riferimento alla cosa fisica, facente parte del mondo esterno, da cui proviene lo stimolo).
Nel saggio Ultime tendenze nell’arte d’oggi dall’informale al concettuale (Milano, Feltrinelli, 1973), citato dal GDLI, Dorfles scrive:
Fino a che punto il normale percetto è da considerare determinato o meno da fatti mnestici, esperienziali, dovuti (o meno) a fatti transazionali fra la nostra sensorialità ‘bruta’ e la nostra sensorialità concettualmente sviluppata? (p. 61)
L’uso di Dorfles è rilevante, oltre che per la personalità culturale del noto critico d’arte e filosofo, per almeno altri due motivi:
1) Dorfles compare di nuovo nel Supplemento 2004 al GDLI come coniatore di percettologia “Psicol. Studio dei processi percettivi”, con citazioni dal “Corriere della sera” (1986), di percettologico (1988), e di percettologo (1986); si noti che nello stesso Supplemento è registrato anche percettuale: “agg. Filos. Che è proprio, che è relativo, al percetto; che ha natura di percetto”, senza esempi;
2) l’uso che Dorfles fa di percetto è senz’altro vicino a un ambito in cui il nostro percettile è stato usato nel corso del Novecento.
Per arrivare a percettile occorre comunque muovere da percettibile. Una volta tanto questi latinismi tardi, e i loro derivati più o meno compatibili con le regole morfologiche del latino, non arrivano in italiano attraverso la Manica o l’Atlantico, ma dalla più vicina Francia: sebbene il GDLI non sia stato concepito per registrare la cronologia delle parole, se ne ricava che percettibile è almeno cinquecentesco (nel traduttore di Aristotele Alessandro Piccolomini e nello storico Paolo Sarpi) e poi galileiano, ma (qui la fonte è il Trésor de la langue française informatisé) è preceduto di quasi due secoli dal francese perceptible (1372); percettibilità, registrato con qualche fastidio dal Tommaseo nel 1861, è preceduto da perceptibilité (1760); l’aggettivo percettivo è già nelle opere di Tommaso Campanella (1568-1639), e il sostantivo percettiva ‘capacità di percepire’ in un testo del senese Iacopo Angelo Nelli (1673-1767), ma entrambi sono preceduti dal francese perceptif (1370), mentre l’inglese sembra arrivare più tardi (perceptive sarebbe attestato solo dal 1656); infine percettività, usato dal poeta e romanziere scapigliato Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), si appoggia al francese perceptivité, come probabilmente anche l’inglese perceptivity (non è sempre facile risalire alla lingua moderna da cui si sono diffusi questi internazionalismi del lessico specialistico).
Come si arriva, dunque, a percettile?
Il percorso è contorto, ma è possibile indicarne alcune tappe: la più antica, che agisce – direi – da innesco per la nascita della parola, è probabilmente nell’opera del biologo estone, ma di famiglia e di lingua tedesca, Jakob Johann von Uexküll. Le teorie di Uexküll sull’ambiente (Umwelt) hanno influenzato molti autori, tra i quali Heidegger in Germania, Deleuze, Merleau-Ponty e Lacan in Francia, Giorgio Agamben in Italia, e sono state assunte a fondamento della biosemiotica (cfr. Uexküll 2010, 2015 e Barbera 2018, cui rinvio per approfondimenti anche bibliografici); il suo Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen, ripubblicato più volte con diversi aggiornamenti, è stato tradotto in italiano da Paola Manfredi nel 1936, in inglese nel 1957 e in francese nel 1965.
Nella teoria della percezione e della significazione di Uexküll, che rimonta alla filosofia di Kant arricchita dalla riflessione di filosofi, biologi e zoologi tedeschi dell’Ottocento, ogni entità possiede dei Merkmale, cioè qualità intrinseche di significazione, ai quali corrispondono dei Merkzeichen, cioè i segni elaborati a partire dagli impulsi inviati dagli organi sensoriali, differenti a seconda delle specificità degli apparati recettori di ogni essere vivente; i due termini furono resi rispettivamente con marche percettive e segni percettivi nella prima traduzione italiana, caractères perceptifs e caractères o signaux perceptifs in quella francese (traggo questi dati dalla Prefazione di Marco Mazzeo alla più recente traduzione italiana del saggio di Uexküll).
Nel 1980 i filosofi Gilles Deleuze e Félix Guattari rendono Merkmale, o forse meglio i caractères perceptifs usati nelle precedenti traduzioni francesi, con outils perceptils (‘strumenti percettili’), e fa così la sua comparsa l’aggettivo che è probabilmente all’origine del nostro percettile.
Più o meno negli anni in cui i libri di Uexküll venivano tradotti in inglese e in francese, nell’ambito delle ricerche statunitensi di psicologia della percezione si sviluppa la cosiddetta ecologia della percezione, fondata da James Jerome Gibson insieme alla moglie Eleanor Jack: nel 1966 Gibson descrive i sensi degli esseri umani (ma anche degli altri organismi viventi) come perceptual systems (‘sistemi percettivi’), preferendo perceptual a perceptive così come il traduttore inglese dell’opera di Uexküll aveva usato perceptual cues (‘spunti, stimoli alla percezione’) per tradurre Merkmale e perceptual signs per tradurre Merkzeichen. Sul piano semantico, perceptive ammette il tratto +umano (come sensitive ‘sensibile, emotivo, suscettibile ecc.’), e dunque si può dire a perceptive person per ‘una persona ricettiva, intelligente’; perceptual è invece più adatto a indicare sia la capacità dei sensi di percepire, sia la qualità del percetto di essere percepito, e dunque attira meglio l’attenzione sull’interazione tra chi percepisce e chi “si fa” percepire.
Tra la fine del secolo scorso e l’ultimo ventennio le teorie semiotiche ed ecologiche di Uexküll e quelle psicologiche di Gibson si sono incrociate nel produrre una galassia di applicazioni che ha coinvolto anche nell’analisi dei prodotti artistici, compresi il cinema e altri generi audiovisuali. In questi vari ambiti, diversi ma connessi tra loro, la famiglia delle parole legate alla percezione si è allargata ad accogliere il percetto, la percettologia, i percettologi e infine anche il percettile, sostantivo, come ‘insieme delle proprietà percepibili’ degli oggetti nel disegno industriale e nell’analisi semiotica degli ambienti naturali e umani, arricchita dai risultati delle ricerche neurologiche sul cervello umano e animale (cfr. Buiatti 2015, p. 27; anche stavolta rinvio a questo volume per approfondimenti bibliografici).
Ricapitoliamo. Sul piano strettamente morfologico, percettile non è una parola ben formata rispetto alle regole del latino e dell’italiano, però riempie una lacuna semantica; infatti, percepibile è qualcosa che può essere percepito, e può convivere con la variante percettibile corrispondendo, nei suoi vari significati, al significato di perceptible in francese e in inglese; percettile, invece, indica la qualità di un ente percepito (percetto). Per chi ha coniato e usa questo termine la percezione è un processo che coinvolge sia chi percepisce sia chi è percepito: la qualità percettile appartiene al percepito e la funzione percettiva a chi percepisce. Dall’uso aggettivale di percettile deriva quello sostantivato: il percettile è l’aspetto sensoriale che guida gli esseri (umani o non umani, piante comprese) nell’interazione con oggetti e organismi dell’ambiente che li circonda.
Con cautela, data la rarità della parola, credo che si possa accogliere percettile nel nostro vocabolario: l’aggettivo introduce una sfumatura semantica assente in percettivo; il sostantivo, per ora limitato ad alcuni settori della ricerca specialistica quali la filosofia e la psicologia della percezione e il disegno industriale, continuerà probabilmente ad avere una circolazione ridotta, ma potrebbe affermarsi col tempo grazie al rilievo che questi studi stanno acquistando nello sviluppo di strumenti progrediti per l’interazione tra le persone e tra queste e l’ambiente. Un uso controllato di percettile condurrebbe forse alla marginalizzazione di percettuale, che in italiano è, di fatto, solo un doppione meno comune di percettivo.
Nota bibliografica:
Riccardo Gualdo
21 giugno 2024
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