Molti lettori si interrogano sulla correttezza dell'impiego di fini a sé stessi come al plurale della locuzione fine a sé stesso anche da parte di enti autorevoli e accreditati.
Per cominciare qualche osservazione sulla storia dell’espressione (essere) fine a sé stesso (l’accento su sé in questo caso non sarebbe obbligatorio, ma è preferibile mantenerlo, come in tutti gli altri contesti d’uso del pronome), che è presente già nella riflessione filosofica greca (télos eautò in greco, reso poi da Cicerone con il latino finis ipsius) per esprimere il concetto fondamentale di ‘non avere altro scopo che sé’. Ricorre infatti in Platone, che per esempio nella Repubblica (390-360 a.C.) la usa per parlare della giustizia come qualcosa di assolutamente e perfettamente bello e quindi buono (nell’inscindibile, perfetta dualità del kalòs kái agathós), tale da garantire il bene di tutti; la giustizia è pertanto fine a sé stessa, nel senso che lo scopo, la finalità ultima della giustizia è la giustizia stessa e gli uomini dovrebbero aspirare a essa, non per raggiungere altri vantaggi, ma per fondare la loro convivenza su un principio assoluto, che a prescindere da ogni altro fattore contiene in sé origine e fine di ogni altro bene. Ritroviamo la stessa formula anche in contesti diversi, di sapore meno teoretico, come per esempio nell’Etica Nicomachea (seconda metà del IV sec. a.C.), in cui Aristotele distingue il pensiero pratico dall’azione morale: “Il pensiero di per sé non mette in moto nulla, bensì ciò che muove è il pensiero che determina i mezzi per raggiungere uno scopo, cioè l’agire pratico. [1139b] Questo, infatti, presiede anche all’attività produttrice: chiunque, infatti, produca qualcosa, la produce per un fine, e la produzione non è fine a se stessa (ma è relativa a un oggetto, cioè è produzione di qualcosa), mentre, al contrario, l’azione morale è fine in se stessa, giacché l’agire moralmente buono è un fine, ed il desiderio è desiderio di questo fine. Perciò la scelta è intelletto che desidera [5] o desiderio che ragiona, e tale principio è l’uomo” (Libro VI, 2, Desiderio, intelletto, scelta, ed. a cura di C. Mazzarelli, Milano, Bompiani, 2000, p. 231).
Mi sono rifatta a questi pilastri della filosofia classica perché qui si fondano le radici culturali di cui si è nutrito anche il paradigma linguistico dell’assolutezza di alcuni principi (giustizia, agire morale, ma anche virtù, coraggio, conoscenza, ecc.) che, presi singolarmente, contengono tutto entro sé stessi, per i quali quindi non ha alcun senso concepire una pluralità. Con l’avvento del Cristianesimo (e con le religioni monoteiste, in generale) la qualità dell’essere fine a sé stesso è diventata esclusiva di Dio, l’essere perfettamente compiuto, in cui si identificano principio e fine. Possiamo forse ipotizzare che il passaggio di questo concetto nella riflessione teologica abbia contribuito a caricare l’espressione di una componente di “singolarità”, creando una sorta di “sinergia concettuale” che può aver spinto ad associare la rappresentazione dell’essere “fine a sé stesso” a quella di ciò che non solo è assoluto e autosufficiente, ma anche unico.
In italiano l’affermazione di questa locuzione, se seguiamo i vocabolari, appare abbastanza recente: il GDLI, in sintonia con i principali dizionari etimologici, dà come prima attestazione la Letteratura italiana di Francesco De Sanctis, 1870-1872; ma la locuzione era senz’altro in uso anche molto prima e già dalla consultazione di Google libri si può recuperare un’attestazione scritta precedente di quasi un secolo: nella nuova edizione delle Esposizioni sulla dottrina cristiana (Venezia, Remondini, 1781), nel terzo tomo, nel commento al I comandamento, si legge: “s’ei [l’uomo] non porta le sue intenzioni più là, che al nutrimento ed al vestito, queste cose sono il suo ultimo fine; o per dir meglio, egli è ultimo fine a se stesso, ei lavora per se, e non per Iddio”.
Pur tenendo presenti tali antecedenti, che certamente hanno contribuito a far radicare l’idea che per questa espressione non abbia senso concepire la forma plurale, da una prospettiva linguistica, niente esclude che ci possano essere più entità che godono della caratteristica di essere fini a sé stesse: la giustizia è fine a sé stessa, la virtù è fine a sé stessa, la libertà è fine a sé stessa, e si potrebbe continuare; ma se possiamo concepire la sequenza di questi valori, la loro somma darà una pluralità che, in italiano, è del tutto possibile e ammissibile esprimere con forme plurali. Fine nel significato di ‘scopo, finalità, obiettivo’ è un sostantivo variabile che ha fini come sua forma plurale, sé stesso può essere flesso secondo genere e numero (sé stesso, sé stessa, sé stessi, sé stesse). In questa direzione deve aver agito anche la relativizzazione del significato dell’espressione che è avvenuta nel corso dei secoli: da prerogativa di valori universali, l’essere fine a sé stesso è passato a indicare un limite di azioni e realtà umane; nella logica finalizzata al raggiungimento di un beneficio o di un vantaggio (personale o di un gruppo) ciò che è fine a sé stesso diventa ‘inutile’ (uno dei significati attuali dell’espressione) perché non porta a nessun risultato esterno, concreto, tangibile di cui avvantaggiarsi. D’altra parte è anche da considerare che la locuzione fine a sé stesso funziona come un aggettivo e come tale la si può considerare nel suo insieme (così la classifica il GRADIT, unico dizionario a specificarne anche l’invariabilità), declinando quindi solo la parte finale stesso (in stessi, stessa, stesse). Questa soluzione appare quella prevalente in rete: impostando una ricerca sulle pagine in italiano di Google (06/07/2018) si ottengono infatti 63.500 occorrenze per la stringa “fini a sé stessi” e ben 160.000 per “fine a sé stessi”. Gli altri dizionari dell’uso non danno indicazioni mirate sulla formazione del plurale e neanche esempi da cui dedurle.
Proviamo allora a indagare nel funzionamento sintattico della locuzione. Ci sono almeno due circostanze da analizzare:
Sulla base di queste considerazioni proviamo a vedere come i giornali trattano questa locuzione. Se le occorrenze in rete, come abbiamo visto, mostrano al maschile una prevalenza della forma con fine invariabile, diversa appare la tendenza dei giornali. Consultando gli archivi dei due principali quotidiani nazionali, si ottengono questi numeri: nel “Corriere della Sera” (il cui archivio parte dal 1876) abbiamo una situazione di sostanziale parità con 177 fine a sé stessi e 172 fini a sé stessi con la prima occorrenza isolata di quasi un secolo fa: “In genere si può osservare che la Società delle Nazioni può bensì estendere al campo economico i suoi sforzi per mantenere la pace politica, ma non si può ammettere che i suoi strumenti tecnici divengano fini a se stessi e che a poco a poco si occupino di tutte le espressioni della vita semplicemente perché c’è qualcuno che le chiede di occuparsi sempre di qualche cosa di nuovo. Finirebbe nel comico” (20 maggio 1928). In “Repubblica” (che ha un archivio che parte dal 1984), la forma invariabile fine a sé stessi si ferma a 92 occorrenze, ampiamente superata da quella variabile fini a sé stessi, che ne conta 222. Di queste la più lontana è del 12 novembre 1985 in un articolo di Antonio Gambino: “Da un lato vi sono le azioni che rientrano nella categoria degli attentati, che rimangono atti dimostrativi fini a sé stessi”.
La diversa copertura temporale dei due archivi, in questo caso, ci offre spunto per qualche riflessione ulteriore: benché i dati del “Corriere” appaiano equilibrati, in realtà le 172 occorrenze di fini a sé stessi sono concentrate nei decenni più recenti, mentre le altre 177 hanno una distribuzione più omogenea nell’arco che va dal 1876 a oggi; l’archivio di “Repubblica” è molto spostato in avanti e la maggioranza di occorrenze di fini a sé stessi, incrociata con i dati del “Corriere”, ci conferma che si tratta di una tendenza degli ultimi decenni. Ma le occorrenze dei giornali offrono un altro dato: le collocazioni più frequenti per la forma plurale fini sono tutte caratterizzate dalla posizione della locuzione immediatamente dopo un nome plurale, come obiettivi fini a sé stessi, gesti fini a sé stessi, effetti fini a sé stessi, benefici fini a sé stessi, movimenti fini a sé stessi. Qui la locuzione ha perso lo statuto di parte nominale di un predicato, ma funziona come aggettivo e proprio riferito a un nome che può essere o no parte nominale di un predicato. Si può notare che sono sempre nomi con il plurale in -i, che possono quindi aver attratto la forma plurale di fine (anch’essa in -i), flesso come un aggettivo a tutti gli effetti. E questa tendenza a considerare anche fine (e non solo l’intera locuzione) come un aggettivo è confermata anche da una sommaria ricerca in rete della stringa “polemiche fini a sé stesse”, molto ricorrente, ma con un sostantivo femminile che ha il plurale in -e: ebbene, Google restituisce 5360 occorrenze a fronte delle 384 di “polemiche fine a sé stesse”.
Dato questo quadro, l’unica certezza è la tendenza dell’italiano contemporaneo alla flessione al plurale di fine nei casi in cui la locuzione sia riferita a un elemento plurale, in special modo quando lo segua direttamente. Pienamente legittimo, in ogni caso, è continuare a considerare fine a sé stesso una locuzione con primo elemento invariabile. L’indicazione che mi sento di dare è di scegliere una delle due soluzioni e attenersi a quella senza oscillazioni, in particolare in uno stesso testo. Forse davvero questa resta una risposta fine a sé stessa...
A cura di Raffaella Setti
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
24 luglio 2018
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