Molte persone, soprattutto dalla Campania, ma anche da Palermo, Pesaro e Genova, ci hanno chiesto se in italiano sia più corretto premuta o spremuta di arancia. In particolare R. B., veneziano che vive da alcuni anni a Napoli, ci scrive che, fra i modi di dire che non gli sembrano corretti, ha notato premuta di uso comune "anche tra gli insegnanti"; analogamente M. M. di Palermo dice: "mi trovo attualmente a Napoli e spesso leggo tra le varie offerte dei bar premuta d'arancia, e mi chiedo se sia un termine dialettale o meno"; L. S., napoletana, scrive: "ho avuto diverse volte questa discussione con mia madre, lei sostiene che spremuta sia più corretto di premuta".
Una spremuta di arance: fa bene alla lingua e alla salute
Premuta, nel senso di 'bevanda a base di succo di frutta, spec. di agrumi, estratto per pressione con appositi utensili' (definizione di spremuta secondo GRADIT 2007), non è attestato nei dizionari di lingua; è vero però che le attestazioni offerte dalla rete, pur non essendo moltissime – le premute di limone, arancia o agrumi si mantengono a oggi al di sotto delle 10.000, contro le decine di migliaia delle corrispettive spremute – mostrano una progressiva affermazione della voce. L’analisi di queste testimonianze conferma le informazioni dei nostri utenti: si tratta di una voce radicata soprattutto in area campana, specie nel Napoletano e nel Salernitano, ma presente pure in Calabria e Puglia e affiorante anche altrove. Non viene avvertita come forma locale o scorretta, anzi si ha la sensazione che sia considerata la scelta di lingua: non solo infatti si trova scritto sulle insegne dei chioschi che offrono il succo di agrumi, ma appare anche stampato sugli scontrini attestanti il pagamento della consumazione, in blog che propongono ricette di cucina e diete disintossicanti, nella pubblicità di agriturismi e hotel (un hotel di Ischia propone "la colazione, tipicamente italiana, con cornetto, caffè, cappuccino, premuta di arancio e varie confetture", mentre tra i prodotti tipici calabresi offerti da un agriturismo, l'olio è definito una premuta d'olive); è presente in una trattazione medica sui benefici del succo di cedro e, a riprova di quanto ci scrive R.B., è usato in un questionario di classe sull’alimentazione elaborato in una scuola media di Casoria (a escludere che si tratti di un refuso premuta appare nella formulazione di due domande distinte).
Non sembra una forma molto antica: nel corpus di Google Libri troviamo le prime rare attestazioni in riviste di medicina dalla prima metà del Novecento (Il Policlinico: Sezione pratica, v. 45, 1938 e Riforma medica, 1960); più tarde le emergenze nei testi di narrativa di autori meridionali, quantomeno nelle ascendenze: Enzo Siciliano, La principessa e l'antiquario, 1980, Francesco Antonio Gisondi, In cerca del figlio: epopea popolare, 1995, e Giuseppe Grispello, Il mistero di Castel Sant'Elmo, 1999. Ancora più recenti le attestazioni nei libri di cucina: Nel cratere delle delizie. Storie gusto sapori di Germana Nardone Militerni, napoletana, del 2005 e in Sorelle in pentola di Angela e Chiara Maci, di Agropoli in provincia di Salerno, del 2013. Quest'ultima testimonianza è significativa: troviamo premuta nel titolo di una ricetta (Cous cous di gamberi rossi su misticanza e premuta di agrumi), mentre nel testo della stessa troviamo spremuta, quasi che – se possiamo supporre una maggiore attenzione editoriale ai titoli – ci sia stato un intervento correttivo in sede di revisione; ma forse la questione è da leggersi più semplicemente in termini di incertezza.
Neanche il concorrente spremuta è voce antica: secondo DELI il termine, sia nel significato di ‘atto dello spremere’, sia in quello di ‘bibita ottenuta da una spremitura’, è registrato per la prima volta dallo ZINGARELLI nell'edizione 1922; GDLI, per spremuta nel senso di bevanda, cita come prima attestazione letteraria La coscienza di Zeno (1923). Precedentemente la lingua per ‘atto, effetto dello spremere’ aveva a disposizione spremitura, mentre per la bevanda erano disponibili succo / sugo d'arancia o limone o anche aranciata e limonata, non ancora esclusivi per il prodotto industriale.
I rapporti tra le due forme, spremuta e premuta, rimandano inevitabilmente ai due verbi premere e spremere da cui derivano. Benché l'etimologia – spremere deriva dal latino parlato *exprĕmere, rifacimento del classico exprĭmere, composto di ex e prĕmere 'schiacciare', 'esercitare pressione', che significa propriamente ‘cacciar fuori’ – renda evidente il loro rapporto semantico, già in latino prĕmere poteva essere usato anche per 'esercitare una pressione al fine di estrarre un liquido', per esempio dall'uva. La parziale sovrapposizione nell’uso dei due verbi e la conseguente difficoltà di definirne il rispettivo contorno semantico, emergono già nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, in cui premere è definito in prima istanza "Propriamente strignere una cosa tanto, ch'e' n'esca il sugo" con il sostegno autorevole di una citazione dal Decameron (g. IX n. V): "premendoti tutto, non uscirebbe tanto sugo che bastasse a una salsa" (citazione che vale ancora oggi a premere il significato di 'spremere' glossato come letterario nella lessicografia), mentre quello più vicino all'etimo, "calcare, opprimere, aggravarsi a una cosa" appare solo in terza istanza. E nella stessa edizione spremere vale "Premere, ma denota un poco più forza" e così nelle successive fino alla quarta dove si varia in "alquanto più di forza". L'uso antico di premere e suoi derivati (l’aggettivo premuto e il sostantivo premitura) in rapporto all'operazione con cui si estrae del liquido da qualcosa, che sia frutto, composto, materia imbevuta ecc., è testimoniato in opere soprattutto a carattere tecnico che trattano la preparazione di medicamenti o cosmetici del XIV e XV secolo. Se ne trovano attestazioni anche in opere letterarie come le Novelle quattrocentesche dello Pseudo – secondo la recente edizione critica curata da Monica Marchi – Gentile Sermini, senese ("Poi su vi premettero sei melegrane con ben vinti aranci", nov. XXIX), o nella commedia dell'urbinate Cornelio Lanci, Scrocca, datata 1585 ("Questo è un parlare pien di vento, un darmi una melarancia premuta") in riferimento alle arance. Le attestazioni successive, almeno stando al GDLI, si arrestano alla fine del XVII secolo, con l'eccezione del genovese Piero Jahier che usa il verbo in riferimento alla produzione di olio e vino e che è l'unico citato per l'uso di premuta nel senso di ‘spremitura (dell'olio)’ e anche in quello figurato di ‘sfruttamento’.
Sembrerebbe quindi che l'antica sovrapposizione di significato tra i due verbi, almeno a livello di lingua standard, sia andata progressivamente perdendosi a favore di una divaricazione per cui oggi si premono il ventre, i fianchi, il piede, il suolo, le spalle, il grilletto, le sigarette spente, i pulsanti, lo scatto dell'apparecchio fotografico... e si spremono gli agrumi, le meningi e anche le persone. L'opposizione tra i due verbi (pur così vicini formalmente) è evidente nel testo della ricetta di uno chef riportata nel sito di un pastificio amalfitano, in cui si consiglia di "Premere i limoni, spremerli e metterne da parte il succo" intendendo 'esercitare una pressione (con il palmo della mano) sui limoni, estrarne il succo... '.
Cerchiamo allora di capire a cosa si debba il recupero dell'antica sinonimia tra premere e spremere esplicito in premuta.
Nelle aree in cui l'innovazione ha preso maggiormente piede, a differenza di altre zone, sprè(m)mere è voce tradizionale anche nel senso di ‘estrarre succo da un frutto’. Il verbo però mostra un'estensione semantica e una carica espressiva maggiore dell'italiano spremere. Nel Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri, ([s.l.] a spese dell’ A., 1873) di Raffaele D’Ambra, il valore di Sprèmmere, definito come 'costringere, premere', viene efficacemente illustrato dalla citazione di un passo de La Vajasseide di Giulio Cesare Cortese, (G. M. Porcelli, Napoli 1783):
Spriemmete, figlia, spriemme, ca non dura / Troppo st'amaro, e benarrà lo doce;
Spriemmete, bene mio, sta ncellevriello: / Ajutate; te’, scioscia st'agliariello. (II, 2)
['Sforzati figlia, spingi, che non dura troppo questo amaro, e arriverà il dolce;
sforzati/spingi, bene mio, rimani con calma, aiutati, soffia in questo agliarello’]
dove il significato di agliarello 'arnese a forma di ampolla nel quale si facevano soffiare le partorienti' chiarisce che si tratta di un parto. Lo stesso vocabolario, nella parte toscano-napoletano, alla voce premere offre gli equivalenti napoletani Spremmere, Stregnere, Carcare, Ncasare; analogamente il toscano premuto equivale al napoletano spremmuto. Significativamente tra i lemmi toscani non compare spremere. I vocabolari più tardi della stessa area, che testimoniano la voce spremmuta come tradizionale, la "traducono" con l'"italiano" premuta di arancio, di limone (A. Altamura, Dizionario dialettale napoletano, 1956 sv Sprèmmërë, A. Salzano, Vocabolario napoletano-italiano, italiano-napoletano, F. D'Ascoli, Dizionario etimologico napoletano, 1979).
La corrispondenza tra il toscano (italiano) premere e il dialettale sprem(m)ere, che ha anche il valore di ‘spingere con forza (per espellere feci o altro dal ventre)’, è testimoniata anche in vocabolari dialettali di Abruzzo, Puglia e Sicilia.
Anche per l'area genovese (ricordiamo che genovese era Jahier), dove spremme è tradizionale, l'ottocentesco Dizionario genovese-italiano di Giovanni Casaccia lo definisce "Stringere una cosa tanto che n'esca il sugo, l'umido o altra materia contenuta in essa” e ne propone le alternative italiane premere e spremere; benché poi aggiunga: "Parlandosi di limoni, dicesi più propriamente strizzare". Analogamente al napoletano, nello stesso dizionario spremmise vale "Ponzare e Pontare: Far forza per mandar fuori gli escrementi dal corpo, il parto o simile".
Meno atteso l’uso di premere nel Vocabolario milanese-italiano del Cherubini (1839-43):
I Lucchesi direbbero in questo stesso caso fig. Arancio per amar, limon per forza; il quale traslato proviene dall'uso positivo di poco premere gli aranci agri se l'aranciata non ha da tornare amara anziché agrodolce, e di moltissimo premere i limoni se la limonea ha da riuscire di buona fatta. (sv Sanmàrch)
Peraltro alla voce schiscià (dove è riportato il contesto schiscià on limon), Cherubini propone tra gli equivalenti italiani, oltre a premere e pigiare, anche spremere.
In questa situazione di incertezza, ancora diffusa nel secolo scorso (si ricordano le testimonianze dei vocabolari napoletani), su quale fosse la forma italiana da adottare, è probabile che il verbo spre(m)mere e il suo derivato sprem(m)uta, avvertiti come fortemente espressivi e dialettali, siano stati "italianizzati" in premere e premuta con la sottrazione della sibilante iniziale che, tra l’altro in alcune pronunce locali, è resa palatalizzata suonando all'orecchio come inequivocabile marca dialettale.
A questo proposito riportiamo la conversazione provocata dalla presenza nel blog di un giornalista, scrittore e gastronomo salernitano, di "1 arancia di giardino premuta" tra gli ingredienti della ricetta del casatiello.
A.: le arance si spremono non si premono…. non si dice “premuta di arance” ma “spremuta di arance”
R.: In italiano sicuramente, ma a Napoli si usa “premuta”. Ci ha già provato un mio ex caporedattore toscano a tentare di far cambiare il termine, ma il napoletano è un dialetto che sopravviverà alla lingua italiana:-)
Un terzo interlocutore scrive:
B.: in napoletano diciamo “spremmut”.
Io ho l’impressione che quando poi questo termine vogliamo scriverlo o dirlo in italiano togliamo la esse iniziale, quindi se diciamo “premuta” non stiamo usando un termine dialettale ma semplicemente parlando male in italiano
R.: Hai ragione, anche se, secondo Raffaele Bracale che ho interpellato per curiosità, in napoletano si scrive spremmuta. Resta però che è uso corrente nei bar in città, ma anche in Calabria e Sicilia, usare premuta e non spremuta.
Le parole, anche quelle usate in modo erroneo, sono come gli uomini: non si possono fermare con le regole o i confini.
E così conclude un nuovo intervenuto:
C.: o premuta o spremuta sempre una grazia di Dio è, se di arance naturali. Poi i toscani… si comportano da padroni della lingua…
La supposta presunzione dei toscani di detenere l'esclusiva dell'italiano, almeno per questa volta, è priva di fondamento: anche noi abbiamo imparato a usare spremuta come forma di lingua. Nell'infanzia di chi scrive la mamma preparava un'arancia strizzata.
A cura di Matilde Paoli
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
Piazza delle lingue: La variazione linguistica
24 febbraio 2014
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