Verace, veridico e veritiero sono uguali a vero? Ed è lecito, al contrario, usare inveritiero?

Alcuni lettori chiedono se esistano differenze semantiche tra gli aggettivi vero, verace, veridico e veritiero, o se essi possano essere utilizzati come sinonimi. Una lettrice si interroga sulla correttezza dell’uso di inveritiero, mentre un altro lettore chiede se l’aggettivo verace possa accompagnare un etnico, in espressioni come paganese verace (dove paganese è un abitante di Pagani, cittadina in provincia di Salerno).

Risposta

Gli aggettivi vero, verace, veridico e veritiero sono, secondo il GRADIT, tutti risalenti ai secoli XIII e XIV. Vero è l’unico di tradizione diretta, dal latino vēru(m) ed è attestato per la prima volta nel 1243; verace deriva dal latino verāce(m) e risulta in uso fin nella prima metà del XIII secolo; veritiero è un derivato di verità con l’aggiunta del suffisso -iero ed è documentato prima del 1292; veridico, che, risalendo al 1336, è il meno antico, deriva dal latino veridĭcu(m), composto di verus ‘vero’ e del tema di dicĕre ‘dire’.

L’aggettivo vero è quello dal significato più generale e più ampio: la definizione del GRADIT è ‘che corrisponde alla realtà, alla verità’, ‘effettivo, reale’, ‘giusto, esatto’. Anche tutti gli altri aggettivi, riferiti a cose, hanno come primo significato quello di ‘conforme al vero, corrispondente alla verità’. Emergono però sfumature diverse, in particolare per ciò che riguarda veridico e veritiero, per i quali il GRADIT aggiunge rispettivamente i significati di ‘attendibile’ e di ‘conforme alla verità’: così, entrambi gli aggettivi possono riferirsi, per esempio, a un sogno, che propriamente vero non può essere detto. Differenze semantiche emergono anche laddove gli aggettivi si riferiscano a persone: veritiero, veridico e verace assumono allora il significato di ‘che dice il vero’, mentre vero oggi non può essere utilizzato in questo senso: indica infatti che la persona di cui si parla possiede realmente la qualità che gli si attribuisce (in esempi come il vero padre o il vero colpevole, nei quali gli altri aggettivi non potrebbero essere usati con lo stesso valore).

Verace, inoltre, in ambito letterario, può significare ‘che ha in sé la verità, che è portatore di verità’ e, con riferimento sia a cose sia a persone, può assumere un ulteriore significato, diffuso specialmente nelle varietà meridionali di italiano (ma ormai passato anche alla lingua, specie con riferimento a prodotti tipici del Sud o ad abitanti di centri del Meridione), per indicare genuinità o autenticità: si parla così di pomodori veraci, di vongole veraci ‘specie di vongole particolarmente saporite’ e anche di un napoletano verace, cioè di un ‘abitante e nativo di Napoli che riunisca in sé le caratteristiche comunemente attribuite ai napoletani’ (Zingarelli). Dunque, la risposta al quesito specifico di un lettore è affermativa: l’aggettivo verace può accompagnare un etnico, indicando l’appartenenza autentica ad un luogo. Anche vero può assumere un valore analogo, ma deve essere anteposto e non posposto al nome (un vero gentiluomo).

In conclusione, si può osservare che gli aggettivi vero, verace, veridico e veritiero hanno lo stesso significato in molti contesti, specie se riferiti a cose, ma non possono essere considerati sinonimi assoluti. Vero è quello dal significato più generale, che include sotto di sé tutti gli altri.

Notevoli differenze tra i nostri aggettivi emergono dal punto di vista della frequenza nell’uso. Vero è indicato dal GRADIT come fondamentale, facente parte cioè di quelle circa 2000 parole che entrano nel vocabolario di base, utilizzate quotidianamente da tutti. Verace, veridico e veritiero sono invece considerate parole dell’uso comune, cioè esterne al vocabolario di base e presenti nel lessico di coloro che hanno un livello di istruzione medio-superiore. Per osservare la frequenza d’uso delle diverse forme si può ricorrere a Ngram Viewer, grafico che rappresenta la distribuzione percentuale delle forme analizzate nel corpus italiano di Google libri.


I grafici rappresentano le occorrenze degli aggettivi tra il 1861 e il 2000. Il primo mostra la distribuzione di tutte e quattro le forme in esame, mentre il secondo si focalizza sull’andamento di verace, veridico e veritiero, non visibili nel primo grafico. Com’era prevedibile, è vero quello maggiormente utilizzato, mentre veridico, verace e veritiero si attestano in percentuali molto più basse. Nell’Ottocento l’aggettivo verace era tra questi ultimi tre il più utilizzato, poi la sua diffusione è andata progressivamente calando; veritiero e veridico si mantengono sostanzialmente stabili, con il primo più usato del secondo, e in lieve aumento.

Per ciò che riguarda invece il quesito relativo a inveritiero è necessaria una premessa: il prefisso in- con valore privativo è ancora produttivo nella formazione delle parole in italiano ed è utilizzato soprattutto davanti ad aggettivi (inaffidabile, ininfluente) e più raramente davanti a sostantivi (inoccupazione, insuccesso) (Grossmann-Rainer 2004, p. 108). Anche il GRADIT considera produttivo il prefisso, ma non registra a lemma inveritiero, che non è presente nemmeno nel GDLI, nello Zingarelli 2019, nel vocabolario Garzanti, nel Sabatini-Coletti e nel Vocabolario Treccani online. Nonostante non venga preso in considerazione dalle fonti lessicografiche, l’aggettivo inveritiero risulta in uso: gli esempi in Google sono circa 16.500 (al 7/4/2020); sono presenti occorrenze di tutte le forme dell’aggettivo anche in Google libri e negli archivi dei quotidiani on-line (“La Stampa”, “la Repubblica”, “Corriere della Sera”), che permettono di fornire anche una prima datazione del termine. In Google libri le occorrenze di inveritiero/-a/-i/-e sono una quarantina ed è interessante notare come appaiano tutte all’interno di riviste o saggi dedicati alla giurisprudenza e al diritto. La prima attestazione sembra risalire al 1876 e si trova all’interno della “Rivista penale di dottrina, legislazione e giurisprudenza diretta dall'avvocato Luigi Lucchini”. Nell’archivio del quotidiano “la Repubblica”, che copre gli anni che vanno dal 1984 al 2020, le occorrenze sono 91 e la prima appare nel 1985. Nell’archivio del “Corriere della Sera” (1876-2020) le occorrenze sono 233 a partire dal 1902, mentre in quello storico della “Stampa” sono presenti 84 occorrenze (a cui si aggiungono le 87 dell’archivio 1992-2020) e la più antica risale al 1875 anticipando così di un anno la datazione. Ma le frequenze della sequenza “non veritiero” o “non è veritiero” sono certamente molto più numerose: Google restituisce, solo per il maschile, 72.550 risultati per “non veritiero” e 1.200.000 per “non è veritiero” . Inoltre, a contrastare la diffusione di inveritiero c’è anche la preesistenza di vari aggettivi che si possono considerare contrari di veritiero e che appartengono ad altri tipi lessicali (il GRADIT cita fallace, falso, ingannevole, mendace e menzognero).

In conclusione si può affermare che l’aggettivo inveritiero si è formato durante gli ultimi decenni dell’Ottocento in ambito giuridico e che si è poi moderatamente diffuso anche nella lingua giornalistica e dell’uso. Sebbene ancora ignorato nei dizionari (e dunque, al momento, da usare con molta cautela), l’aggettivo potrebbe espandersi ed essere in futuro preso in considerazione dalla lessicografia, essendo frutto di un legittimo e vitale processo di prefissazione, tanto più che i cosiddetti “antonimi grammaticali”, formati con prefissi negativi a partire dai loro contrari, sono nell’italiano di oggi in decisa espansione.

Elisa Altissimi

24 luglio 2020


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