Vi rispondiamo… a prescindere!

Sono arrivati in redazione diversi quesiti relativi al verbo prescindere: alcuni lettori chiedono quale sia la forma più corretta tra prescindere e priscindere, mentre altri si interrogano sull’esistenza del participio passato del verbo. La maggior parte dei dubbi dei lettori è però relativa alla costruzione della locuzione a prescindere: molti si domandano se possa essere usata in forma assoluta, senza specificare da che cosa si prescinda; altri si chiedono se accanto alla reggenza con da, sia ammessa anche la reggenza diretta (senza preposizione); alcuni infine si interrogano se sia corretta anche la forma a prescindere che e se la locuzione introduca una subordinata con il verbo all’indicativo o al congiuntivo.

Risposta

Il verbo prescindere è una voce dotta che deriva dal latino praescindĕre‘tagliare davanti, separare’ (composto dal prefisso prae- ‘prima’ e dal verbo scindĕre ‘dividere, lacerare’) e significa ‘tralasciare, evitare di prendere in considerazione, fare astrazione da qualcosa’: per esempio “non si può prescindere dai risultati della partita”, “nel prendere questa decisione dovresti prescindere dai tuoi problemi personali”.

Trattandosi di un composto di scindere, prescindere presenta una coniugazione modellata su quella del verbo componente e forma di conseguenza il proprio participio passato in prescisso (così come da scindere si ha il participio scisso): tale forma, usata anche come aggettivo nel significato di ‘messo o lasciato da parte; separato, isolato da un elemento determinato’, è tuttavia registrata da grammatiche e dizionari come di uso rarissimo.

Scorretta la variante priscindere posta in esame da alcuni utenti: il prefisso prae- che compone il verbo latino da cui deriva la nostra formazione verbale diviene infatti in italiano sempre pre- (con chiusura del dittongo latino -ae- in una e chiusa), come avviene per esempio in preferire (dal latino praeferre), presagire (da praesagire), prevenire (da praevenire) e appunto in prescindere. La diffusione della variante priscindere, non registrata da alcun dizionario dell’uso, è in ogni caso molto circoscritta: una ricerca condotta il 29/1/2019 nelle pagine italiane di Google Libri ci restituisce infatti solo 22 risultati (contro i 403.000 di prescindere), la maggior parte dei quali per altro riscontrata all’interno di testi giuridici della prima metà del ’900. Sebbene le attestazioni della variante risultino decisamente più numerose nelle pagine Google in italiano (circa 3.900), si tratta probabilmente di refusi o errori di battitura, e d’altra parte lo stesso motore di ricerca ci suggerisce la correzione della voce con “prescindere”.

Il verbo prescindere viene oggi usato specialmente all’interno delle locuzioni prescindendo da e a prescindere da nel significato di ‘senza tener conto, eccettuando, facendo astrazione da’: per esempio “prescindendo da questi dettagli superflui, valutiamo il problema nel suo complesso”; “a prescindere dalle ragioni che l’hanno scatenata, questa lite deve terminare”. Come segnalato dalla maggior parte dei dizionari dell’uso, tra cui lo Zingarelli 2019, il Devoto-Oli 2019 e il Garzanti 2018, la corretta costruzione del verbo prevede sempre la specificazione di un argomento indicante l’elemento dal quale si prescinde, e tale argomento viene per lo più espresso da un sostantivo e introdotto dalla preposizione da. Risulta quindi grammaticalmente scorretta la reggenza diretta, ossia senza preposizione, del sostantivo (come in “appoggeremo la proposta di legge, a prescindere il colore politico del governo”).

Quando l’elemento dal quale si prescinde viene espresso non da un singolo sostantivo, bensì da un’intera frase, le locuzioni citate si presentano nella forma della locuzione congiuntiva (con funzione cioè di congiunzione) a prescindere dal fatto che o prescindendo dal fatto che: per esempio “prescindendo dal fatto che non posso permettermelo, non comprerei mai quel completo a righe”; “a prescindere dal fatto che ieri è stata piuttosto maleducata, non ho mai avuto simpatia per lei”. A partire da tali locuzioni, si sono poi formate e diffuse nell’uso anche le varianti ellittiche a prescindere che e prescindendo che (con riduzione del sintagma dal fatto che a semplice che), per esempio: “A prescindere che il sistema portuale della città risulta bloccato da giorni, i collegamenti non sono mai stati dei migliori”; “prescindendo che non mi sento bene, non ho voglia di uscire”: tali varianti, come segnalato dallo Zingarelli 2019, risultano però più proprie di un registro colloquiale e informale ed è quindi preferibile evitarne l’impiego nell’uso scritto e nel parlato più sorvegliato. Come esplicitato dal Sabatini-Coletti 2008 (ma il dato è deducibile anche dagli esempi d’uso riportati dagli altri dizionari), il verbo della subordinata introdotta da tali locuzioni (sia nella loro variante estesa, sia in quella ridotta) è da coniugare all’indicativo quando l’elemento, il contesto dal quale si prescinde è rappresentato da un dato certo, un fatto concreto (“a prescindere dal fatto che sei il solito ritardatario, è sempre un piacere rivederti”); al congiuntivo o al condizionale quando è invece costituito da un’ipotesi o un’eventualità (“a prescindere dal fatto che potrebbe piovere, è meglio non uscire”; “a prescindere dal fatto che siano andati a pesca o meno, stasera verranno a cena da noi”).

Resta infine da considerare l’uso della locuzione a prescindere in forma assoluta, senza cioè specificare da che cosa si prescinda, nel significato di ‘a priori, tralasciando ogni altra considerazione’ (per esempio “durante la discussione si è dimostrata contraria a prescindere”, “dovresti sapere che ti sosterrò a prescindere”). L’uso assoluto della locuzione, che risulta oggi diffusissimo nella lingua corrente, sarebbe in verità improprio dal punto di vista grammaticale, in quanto, come già detto, la costruzione del verbo prescindere dovrebbe sempre prevedere la specificazione dell’elemento dal quale si prescinde.

Alla diffusione capillare del costrutto e alla sua affermazione nell’uso ha senz’altro contribuito l’arte comica di Totò, che tra gli anni ’40 e ’60 ha fatto di a prescindere uno dei suoi modi di dire più celebri, sfruttato nei divertenti scambi di battute di moltissimi suoi film, tanto da divenire una vera e propria formula di riconoscimento dell’attore: l’espressione si ritrova per esempio, per citare solo alcuni titoli, in Due cuori tra le belve del 1943 (“A prescindere, pensate a me prima e dopo i pasti”) e ne Il letto a tre piazze del 1960 (“A prescindere… da che? Non importa, si prescinde”), oltre a essere significativamente scelta come titolo dell’ultima rivista (una tipologia di spettacolo teatrale) interpretata da Totò a teatro tra il ’56 e il ’57. Un brano di tale spettacolo è dedicato proprio all’espressione a prescindere, accostata ad altri modi di dire del comico:

Dolcissimo segreto / che mai non fu svelato, / cos’è questo «A prescindere!» / che abbacina, che allucina?... / È forse il carme ignoto / di un vate sconsolato? / Cos’è questo «A prescindere!», / che mai vuol dir? Non so! / […] / Quisquilie! Pinzillacchere? / Che mai nasconde in sé? / Vuol dir / che c’è un rimedio ad ogni male? / Chissà! Vuol dir: / «Fa l’uomo e non il caporale»! / Ma va… / comunque questa cosa / che non è made in Usa / sì sì, lo so, è bellissima, ma sempre russa è! (Antonio De Curtis, A prescindere!, 1956, sul sito http://www.tototruffa2002.it).

È noto come l’attore si servisse, come elemento di ironia e comicità, di formule ed espressioni mutuate dal linguaggio burocratico, oltre che di parole dell’italiano aulico e libresco, per prendere di mira l’italiano medio che si atteggia a uomo di cultura, secondo modalità che erano state già del teatro di Ettore Petrolini: ed è proprio dal repertorio comico di Petrolini che, secondo Giuseppe Romeo e Fabio Rossi, che ne hanno studiato la lingua, Totò avrebbe tratto la locuzione a prescindere, contribuendo poi alla sua decisiva fortuna.

Concludendo, possiamo dire che la costruzione a prescindere in forma assoluta risulta oggi a tal punto radicata nella lingua comune, che, seppure impropria, se ne può considerare legittimo l’uso almeno nel parlato e nelle situazioni più informali, tenendo presente che si tratta pur sempre di un’espressione più adatta a un registro familiare e colloquiale.

 

Nota bibliografica:

  • Matilde Amorosi (a cura di), Ogni limite ha una pazienza, Milano, Rizzoli, 1995.
  • Sandro D’Amico, L’attore italiano tra Otto e Novecento, in Petrolini. La maschera e la storia, a cura di Franca Angelini, Roma-Bari, Laterza, pp. 25-38.
  • Giuseppe Romeo, Totò critico dei linguaggi, in Totò partenopeo e parte napoletano: il teatro, la poesia, la musica, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 88-99.
  • Fabio Rossi, La lingua in gioco: da Totò a lezione di retorica, Roma, Bulzoni, 2002.

 

A cura di Sara Giovine
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca

 

Piazza delle lingue: Media

22 febbraio 2019


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