"Sta veramente “declinando” la conoscenza dell’italiano nella scuola, come si legge nell’appello del Gruppo di Firenze “Saper leggere e scrivere. Una proposta contro il declino dell’italiano a scuola”?
La parola "declino" mi imbarazza. Bisognerebbe studiare fattualmente il dominio dell'ortografia o di qualche aspetto della realizzazione linguistica nella scuola nel medio o lungo periodo, per vedere se davvero negli ultimi dieci, venti o cinquant’anni si sia tornati indietro, o se per caso non si sia almeno un po’ progrediti, come io sospetto. Quando, ormai tanti anni fa, studiavo Lettere all'Università di Padova, c’erano dei miei compagni che per scrivere “sonetto” scrivevano sia “sognetto” che “sonnetto”, cosa che oggi forse non succede più.
Certo scrivere “i sognetti del Petrarca” non è una cosa buona, ma … Ma Tullio De Mauro diceva che se la scuola mettesse da parte ogni altro scopo per proporsi per cinque o otto anni di ottenere solo la correttezza ortografica, butterebbe via cinque anni di cose magnifiche che si sarebbero potute fare, senza ottenere la correttezza ortografica!
Io non vorrei che, a seguire i consigli della cosiddetta “Proposta dei 600”, si tornasse all’idea della grammatica come castigo, la “Ars Grammatica” che minaccia con la frusta gli scolaretti, come nei portali delle cattedrali gotiche e in una formella del campanile di Giotto. Alla pedagogia del: correggere, correggere, correggere, io preferisco quella del: leggi, scrivi, disegna... c'è un errore? Correggiamo, e avanti!, non ci si ferma per così poco! L'errore può essere, e qualche volta è, l’anticamera della verità. Molti epistemologi la pensano così.
Per quanto riguarda gli obiettivi della “Proposta”, mi rifaccio di nuovo a De Mauro: insegnare a scrivere non deve voler dire prioritariamente e tanto meno esclusivamente correggere ortografia e morfologia, ma soprattutto aiutare ad argomentare, a essere espliciti, a distinguere l’essenziale da ciò che è accessorio. Un altro ricordo personale: quando, non più studente ma professore universitario e anche direttore di Dipartimento, ho avuto come ottimi collaboratori due segretari amministrativi, laureati, che però non sapevano fare il verbale del Consiglio di Dipartimento. Non è che facessero errori, ma non sapevano organizzare la struttura del verbale, riferire brevemente dei diversi punti di vista che erano stati espressi. Gli sarebbe forse servito fare il dettato e il riassunto quando erano ragazzi, come suggerisce, certo con le migliori intenzioni, il Gruppo di Firenze?
Perciò non ho firmato l’appello dei Seicento."
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