Numerosissimi lettori e lettrici ci chiedono se ci sia differenza tra perso e perduto; alcuni altri chiedono anche di commentare l’uso di visto e veduto.
Perso o perduto? Visto o veduto?
In alcuni casi la lingua italiana presenta una sovrabbondanza di forme per esprimere lo stesso valore all’interno di un paradigma verbale: nel caso del participio passato, oltre agli esempi su cui si interrogano lettrici e lettori, ricordiamo anche il caso di sepolto e seppellito.
I tre casi non sono del tutto paralleli dal punto di vista dell’origine delle forme. Sepolto e seppellito risalgono a forme in rapporto di sovrabbondanza già in latino: Prisciano (VI secolo) osservava che “sepultum in frequentiore usu est supinum, antiquissimi etiam sepelitum dicebant” [il supino sepultum è di uso più frequente, ma gli autori più antichi dicevano anche sepelitum] (Prisciano, Institutiones, in Grammatici latini, 2, 545,26 -546,1). Entrambi i participi delle altre due coppie sono invece frutto di innovazioni analogiche rispetto alle forme latine perditum e visum. Sui vari tipi di participi passati nel verbo italo-romanzo si leggono ancora con profitto le pagine di ROHLFS 1968 (§§ 620-629). Scrivendo alla metà del secolo scorso, Rohlfs osservava: “Non di rado verbi che in italiano hanno participio forte hanno invece nei dialetti il tipo debole in -uto [...]. Di lingua sono ceduto (accanto a cesso), cociuto (accanto a cotto), fenduto (accanto a fesso), renduto (accanto a reso), perduto (accanto a perso), tonduto (accanto a toso); la lingua antica conosceva paruto per ‘parso’, leggiuto per ‘letto’. Il Manzoni corresse in parso il frequente paruto della prima edizione del suo romanzo. Alla pari con visto sta veduto, che però è forma più letteraria, quasi affatto sconosciuta alle parlate popolari [...]; il Manzoni corresse in visto il veduto della prima edizione del suo romanzo” (§ 622).
A un lettore nato dopo la metà del ventesimo secolo, tra le forme in -uto elencate da Rohlfs solo ceduto e forse perduto appaiono forme “di lingua”: e posso testimoniare che una mia nipote nata nel 2003 ha fin dalla più tenera infanzia sempre rimarcato come inaccettabile il mio uso di perduto, insistendo che “si dice perso”.
È abbastanza evidente che la tendenza in atto nella lingua italiana, nel caso in cui si riduca la sovrabbondanza di forme nel participio passato, è quella di eliminare le forme deboli in -uto e adottare le forme forti, come cotto, reso, perso, visto. Le scelte manzoniane in parte assecondano, in parte anche rinforzano questa tendenza, ponendosi come modello. Nel caso di sepolto vs. seppellito, Manzoni opta per sepolto: nel Fermo e Lucia si ha già una preferenza per sepolto, che occorre il doppio delle volte di seppellito, e nei Promessi sposi si usa solo sepolto fin dall’edizione del 1827. Nel caso di perso e perduto invece Manzoni non fa scelte radicali: nei Promessi sposi, una sola volta, salvo errore, sostituisce perduto con perso (il suo cuore era tuttavia perduto (1827) → perso (1840) dietro a colui, cap. 27), ma nel complesso perduto resiste (ad esempio, confusi e perduti in una nuova moltitudine, cap. 28, resta invariato dal 1827 al 1840). La frequenza di perso aumenta però nel tempo: la forma non compare nei Promessi sposi 1827 ma compare, anche se minoritaria rispetto a perduto, nella quarantana. Si noti però che in uno stesso capitolo della quarantana, il 5, Manzoni usa entrambi i tipi: perdute le zanne e signor dottor delle cause perse.
Allarghiamo lo sguardo oltre le scelte manzoniane, esaminando l’andamento della frequenza delle diverse forme che ci interessano nel corpus italiano di Google books, nel periodo 1500-2000 (figure 1-3).
Per le tre coppie di participi di cui stiamo trattando, l’andamento non è identico. Nel caso di visto e veduto, già dal Settecento e in maniera più pronunciata per tutto l’Ottocento si è avuto un declino della forma originariamente più frequente veduto e un’ascesa di visto, che ha superato in frequenza veduto nell’ultimo quarto del XIX secolo; perso, la forma originariamente meno frequente, ha iniziato la sua ascesa a inizio Novecento, e non ha ancora superato in frequenza perduto nel corpus italiano di Google books, anche se la linea di tendenza lascia prevedere che il superamento possa avvenire presto; infine, sepolto e seppellito hanno un andamento sostanzialmente parallelo, nel quale sepolto è stata sempre la forma più frequente, ma seppellito resta di uso stabile, la sua frequenza non tende a calare.
Figura 1 – Visto e veduto nel corpus italiano di Google Books.
Figura 2 – Perso e perduto nel corpus italiano di Google Books.
Figura 3 – Sepolto e seppellito nel corpus italiano di Google Books.
Questi dati mostrano che sia perduto che veduto sono forme in declino; il declino è molto più avanzato nel caso di veduto, incipiente nel caso di perduto. Altri dati quantitativi si possono ricavare dal corpus della"Repubblica" 1985-2000 (http://dev.sslmit.unibo.it/corpora/corpus.php?path=&name=Repubblica; parte di questi dati sono stati già pubblicati e analizzati in Anna M. Thornton, Overabundance (multiple forms realizing the same cell): a non-canonical phenomenon in Italian verb morphology, in M. Maiden et al., a cura di, Morphological Autonomy: Perspectives form Romance Inflectional Morphology, Oxford, Oxford University Press, 2011). I dati di frequenza delle singole forme non sono immediatamente comparabili, data la diversa frequenza assoluta dei tre verbi vedere, perdere eseppellire; è utile però esaminare il rapporto di frequenza tra le due forme di participio in concorrenza entro ciascun verbo. Limitandosi alle forme in -o, si osserva che nel corpus della "Repubblica" 1985-2000 visto e veduto sono in rapporto di 226:1, perso e perduto di 3,8:1 e sepolto e seppellito di 3,7:1. Anche questi dati confermano quindi la sostanziale perdita di vitalità di veduto, e la sostanziale resistenza in uso di perduto (e seppellito).
È utile esaminare anche i contesti d’uso delle diverse forme. Il citato studio ha mostrato che in molti casi perso e perduto (così come sepolto e seppellito) sono usati del tutto intercambiabilmente, anche se non con la stessa frequenza: nel corpus della "Repubblica" troviamo ben attestati tutti i sintagmi seguenti (nell’elenco la forma più frequente precede la meno frequente): occasione perduta / occasione persa, perso la guerra / perduto la guerra, perso tempo / perduto tempo. L’unico caso in cui non è possibile usare intercambiabilmente le due forme è quello in cui il participio occorre come parte di un titolo (curiosamente, i casi più comuni sono traduzioni da altre lingue): si hanno solo Paradiso perduto, Alla ricerca del tempo perduto, I predatori dell’arca perduta. La frequente citazione di questi titoli sostiene tra l’altro la circolazione nell’uso di perduto. E si noti che il film di Spielberg è del 1981: a quell’epoca, usare perduto nella traduzione del titolo Raiders of the Lost Ark a quanto pare non è sembrato antiquato – anche se si può pensare che la scelta sia stata influenzata anche da una consapevole volontà di echeggiare altri titoli di opere famose, come gli altri citati, e/o di creare un titolo che abbia la forma di un endecasillabo. Sulla traduzione dell’opera di Proust, invece, avrà influito anche la forma del francese perdu.
Tra le forme flesse deboli del participio di vedere ha una sua nicchia di occorrenza veduta, nella locuzione a ragion veduta (232 occorrenze nel corpus de la Repubblica, mentre *a ragion vista non occorre mai). Veduta, con il plurale vedute, occorre naturalmente anche come sostantivo femminile; si potrebbe pensare che questa specializzazione della forma femminile sostantivata inibisca l’uso verbale del participio, ma l’ipotesi è molto indebolita dalla considerazione del fatto che anche vista e visto sono omofoni e omografi di sostantivi, senza che questo indebolisca l’uso verbale dei participi.
Traendo le somme, si osserva che mentre veduto è effettivamente quasi uscito dall’uso, perduto mantiene una sua vitalità, senza che se ne possano individuare neppure forti restrizioni d’uso in favore di contesti specifici e diversi da quelli in cui si usa perso (a parte il caso dei titoli di opere). È significativo anche il fatto che i diversi lettori che hanno posto il quesito non hanno avanzato ipotesi sui contesti che dovrebbero favorire una forma o l’altra: questi lettori però sembrano aspettarsi che questi contesti debbano esistere, e che la sovrabbondanza di forme vada in ogni caso eliminata dai paradigmi verbali, con la sanzione nei confronti di una delle forme concorrenti, o con la distribuzione complementare dell’uso di due forme distinte. Questo punto di vista ha nobilissimi precedenti nella tradizione italiana: secondo Alessandro Manzoni “aver più modi di significar una cosa stessa, non è ricchezza, ma sopraccarico, non è libertà, ma impaccio; e impaccio tale, che l'uso tende naturalmente e di continuo a liberarsene” (Della lingua italiana, 1840, citato in Maurizio Vitale, La lingua di Alessandro Manzoni, Milano, Cisalpino, 1992, p. 50). Manzoni, come abbiamo visto, applicò questo precetto nelle riscritture delle sue opere, eliminando quasi sempre i casi di sovrabbondanza e selezionando una sola forma tra quelle concorrenti; le sue scelte poi influenzarono gli sviluppi successivi, dato il valore di modello che I promessi sposi hanno assunto nella tradizione italiana.
D’altra parte, non sembra del tutto vero che l’uso tenda in ogni caso a ridurre la sovrabbondanza: sepolto e seppellito, ad esempio, sembrano convivere pacificamente da sempre, e neppure la consapevole scelta manzoniana in favore di sepolto è bastata a far uscire dall’uso seppellito.
Tra gli autori che non ritengono necessaria l’eliminazione forzata della sovrabbondanza si annovera Giacomo Leopardi, che in una nota pubblicata nello Spettatore italiano, tomo VIII, 1817, interviene in favore dell’uso del participio reso accanto a renduto, uso che era stato condannato in un articolo apparso nella “Gazzetta di Milano”. Leopardi in apertura del suo intervento (che ha il sapore di una risposta ante litteram del servizio di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca) osserva, a difesa della possibilità di usare entrambe le forme di participio: “credo che il tesoro della lingua si voglia piuttosto accrescere, potendo, che scemare”.
In sostanza, allo stato attuale, una scelta tra perso e perduto non appare necessaria: entrambe le forme si possono usare secondo la propria sensibilità (è possibile che parlanti molto giovani avvertano perduto come antiquato); auto-imporsi l’uso di una sola delle due forme appare una scelta ideologica di ispirazione manzoniana, mentre l’alternare liberamente tra le due è in accordo con la posizione leopardiana.
Anna M. Thornton
14 ottobre 2016
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