È corretto dire “Mi gioisci la giornata?”. Il gerundio del verbo gioire fa gioendo o gioiendo?
Per ottenere una frase minima di senso compiuto, il verbo gioire ‘provare gioia, esultare’ necessita soltanto di un argomento soggetto. Gioisco, ad es., è una frase nucleare, autosufficiente sul piano del significato perché presenta tutti gli elementi necessari all’espressione essenziale, ma completa, del suo contenuto: c’è un argomento soggetto sottinteso (io) e c’è un verbo (gioisco).
In italiano gioire è infatti un verbo monovalente (intransitivo), la cui formula di reggenza è sogg[etto]-v[erbo]. Se desideriamo essere più espliciti, possiamo ovviamente specificare la causa per la quale gioiamo, introducendola con per oppure con di: gioire per la vittoria del torneo, gioire di un regalo inatteso, gioire di vedere un amico ecc. Ma tali elementi, sebbene arricchiscano di particolari importanti l’informazione, non sono necessari per l’autosufficienza del nucleo.
Scavando nella storia della parola, troviamo documentato anche un uso antico di gioire come verbo bivalente (transitivo) nel significato di ‘possedere qualcosa, averne il godimento’. La formula di reggenza stavolta è sogg-v-arg[omento], come ci mostra l’esempio tratto dalla trecentesca Cronica di Giovanni Villani: “Voi avrete la signoria di Lucca, ma poco tempo la gioirete”, citato dal Vocabolario della Crusca del 1612.
Tuttavia, nel significato principale di ‘provare gioia’ il verbo è saldamente monovalente: per questo, la frase “Mi gioisci la giornata”, su cui si interrogava una lettrice di Ancona, è da considerarsi errata perché attribuisce a gioire un argomento diretto, ossia un complemento oggetto, come se fosse un verbo bivalente. Il dubbio dell’utente però ci invita a riflettere sui frequenti slittamenti di significato che, nell’uso quotidiano e parlato, possono subire verbi che, pur avendo diversa valenza e diversa formula di reggenza, siano in rapporto di sinonimia. In particolare, per comprendere l’incertezza sull’uso di gioire come verbo transitivo, dobbiamo pensare alla pressione che sulla struttura sintattica (sulla reggenza) di gioire esercitano verbi d’uso più comune per il parlante, quali ad esempio rallegrare, che hanno un significato simile a gioire ma che richiedono una diversa reggenza. In realtà, la sinonimia non riguarda propriamente gioire e rallegrare ‘rendere allegro qlcu. o qlco.’, bensì gioire e la forma pronominale rallegrarsi ‘provare allegria, contentezza’ come mostrano gli esempi: Io gioisco per il risultato e Io mi rallegro del risultato. Infatti mentre Io gioisco e Io mi rallegro sono due frasi nucleari complete (sogg-v), *Io rallegro non forma una frase semanticamente autosufficiente e ha bisogno che il suo significato venga completato dalla presenza di un argomento diretto (sogg-v-arg). Pertanto, posso certamente dire Il sole rallegra il mio risveglio, ma non posso dire Il sole gioisce il mio risveglio. Di conseguenza l’uso transitivo di gioire non è accettabile.
Passiamo ora al secondo quesito, cioè su quale sia la forma corretta tra gioendo e gioiendo. Il verbo gioire, attestato in italiano intorno alla metà del XIII secolo, deriva dall’antico francese joïr, a sua volta evoluzione del lat. volg. *gaudire, derivato di lat. gaudĭum ‘gioia’ e variante di gaudēre ‘godere’. Per Pietro Bembo, gioire è un provenzalismo del toscano antico e, in effetti, il suo ambito d’uso di elezione è la lirica provenzale: joi esprime le diverse sfumature semantiche della gioia d’amore ed è “termine chiave della concezione amorosa dei trovatori, quindi frequentissimo” (Menichetti 1993, p. 294). Nei manoscritti antichi di area italiana, spogliati nel Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), tra le oltre quaranta grafie riconducibili al lemma gioia, troviamo gioi e gio’ (Castellani 2000, p. 126 in nota), diretti continuatori del prov. ant. joi.
Dunque gioire non è un verbo denominale del sostantivo gioia: da gioia l’italiano antico ha formato gioiare, attestato per la prima volta, secondo il TLIO, in Dante: “Tutti sem presti / al tuo piacer, perché di noi ti gioi” (Paradiso, VIII, 32-33). Poiché la radice di gioire è gio- e non gioi- (radice di gioiare), la forma grammaticalmente corretta del suo gerundio è gioendo e non gioiendo.
Nel 1992, rispondendo sulla “Crusca per Voi” (n. 5, ottobre) a un quesito su alcuni verbi corradicali, Giovanni Nencioni aveva spiegato che gioire, essendo un verbo regolare della III coniugazione modellato sul paradigma di finire, al gerundio fa gioendo, esattamente come finire fa finendo. Infatti, il gerundio dei verbi della III coniugazione è sempre -endo e, come ha recentemente ricordato Raffaella Setti, per quel modo verbale non c’è la dissimmetria che, invece, si verifica nel participio presente dei verbi della III coniugazione, ad es. scrivere e obbedire, in cui la vocale tematica può essere -e- (scrivente) oppure -ie- (obbediente), “residuo della desinenza della quarta coniugazione latina -iens, -ientis”.
Nencioni chiudeva il suo intervento consigliando ai lettori di “aiutarsi, oltre che con le grammatiche, con un buon dizionario moderno, il quale risponderà alle domande più urgenti”. Purtroppo, però, il lettore che oggi, per sciogliere il suo dubbio sul gerundio di gioire, si rivolgesse ai principali dizionari dell’uso contemporaneo, magari nella loro versione elettronica spesso ricca di quadri di coniugazione dettagliati, non troverebbe un’informazione univoca: mentre Devoto-Oli 2020 (versione online consultabile su eLexico.com), Sabatini-Coletti 2013 (versione online consultabile su eLexico.com) e Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT) di Tullio De Mauro indicano gioendo, Zingarelli 2019 indica gioiendo.
Le ragioni di questa discrepanza sono plurime e intrecciano motivazioni di tipo diacronico (legate alla storia della lingua italiana), di tipo diafasico (legate al contesto d’uso della varietà di lingua presa a riferimento) e di tipo eufonico (legate alla pronuncia dei suoni e alla gradevolezza che gli incontri vocalici producono).
Se effettuiamo preliminarmente una ricerca nella vasta banca dati di Google libri, possiamo ottenere alcuni risultati di massima: nei testi stampati entro il 1850 prevalgono le occorrenze di gioiendo su gioendo; tra il 1850 e il 1900, guardando solo alle opere pubblicate per la prima volta nel periodo considerato, entrambi i gerundi sono rinvenibili per quanto poco attestati; infine, tra 1900 e 2000 è gioendo la forma più frequente. Ovviamente si tratta di una storia della fortuna della parola tracciata non con un fine pennello da acquerello ma con una ben più rozza pennellessa, tuttavia la distribuzione delle forme non è molto distante da quanto si può ricavare dall’interrogazione del Grande Dizionario della Lingua Italiana (GDLI) diretto da Salvatore Battaglia, ora consultabile in rete sul sito dell’Accademia della Crusca. Stando agli esempi riportati nel GDLI, gioiendo risulta la forma decisamente prevalente, essendo attestata da Guittone d’Arezzo ad Aretino, da Parini a Benedetto Croce, mentre gioendo compare una sola volta – in tutta quell’immensa banca dati! – in un sonetto trecentesco di Buonaccorso da Montemagno il vecchio: “libero uccel gioendo alla foresta, / chiuso poi in gabbia, lamentando geme” (S’i’ consento al desio che mi molesta, vv. 5-6). E che vi fosse una diversa distribuzione diacronica tra le due forme era stato opportunamente colto dal nostro lettore di Barano d’Ischia, che nel suo quesito definiva gioiendo “più classico” e gioendo “più recente”.
Per completare il quadro dei rapporti diacronici tra gioiendo e gioendo, proviamo a restringere il ventaglio diafasico ai mille testi letterari dalle Origini al primo Novecento raccolti nella Letteratura Italiana Zanichelli (LIZ) e noteremo anche qui la netta prevalenza di gioiendo (Panuccio del Bagno, Sannazzaro, Bandello, Campanella, Parini) su gioendo (Gaspara Stampa).
La tradizione letteraria è insomma responsabile del successo della forma gioiendo fino al XVIII-XIX secolo. E alla letteratura guarda, evidentemente, lo Zingarelli quando ancora oggi la segnala agli utenti come gerundio di gioire. Ma che gioiendo rappresentasse un’eccezione alla regolare formazione del gerundio di gioire non era certo sfuggito ai grammatici: l’abate Marco Mastrofini, autore di una Teoria e prospetto ossia Dizionario Critico de’ verbi italiani conjugati specialmente degli anomali e malnoti nelle cadenze (Roma, Stamperia De Romanis, 1814), un poco sorpreso delle scarse informazioni offerte dal Vocabolario della Crusca sulla coniugazione di gioire e ritenendo che “un tal verbo è di uso, né tanto picciolo, fra gli scrittori”, inserì gioire in un prospetto in cui le forme della coniugazione venivano distribuite su quattro colonne, a seconda che fossero “regolari”, “antiche”, “poetiche”, “incerte o erronee”. Sebbene Mastrofini ritenesse gioiendo la forma regolare e gioendo una forma antica, riconobbe che
Nondimeno tal gerundio esce di regola; perché li gerundj delle terze conjugazioni nascono col volgere l’ire finale dell’infinito in endo: così di sentire facciamo sentendo, di aborrire aborrendo, di udire udendo ec. Ma nel verbo di cui parliamo, si conserva l’I precedente il RE, e dicesi non gioendo, ma gioiendo. Aspetto che i periti del nostro idioma mi dicano se sarebbe un delitto ricondursi alla regola, e scrivere ancora nella prima maniera; come già si scrisse dal Montemagno. (Mastrofini 1814, pp. 308-309)
Certo, “ricondursi alla regola” optando per gioendo è tutt’altro che un delitto, anzi; ma che, a inizio Ottocento, questa conformità alla regola potesse configurarsi, per molti, come reato di lesa maestà contro la tradizione letteraria è comprensibile.
Fino al XVIII e XIX secolo, la preferenza dei letterati per gioiendo, la forma non regolare del gerundio di gioire, potrebbe anche essere spiegata con la forza modellizzante della morfologia verbale latina, dal momento che i verbi della IV coniugazione, il cui infinito presente attivo termina in -īre (come audĭo, audis, audīvi e audĭi, audītum, audīre), al gerundio dativo terminano in -iendo. Ma qui il toscano non ha seguito il latino poiché il gerundio in -endo si è esteso anche alla coniugazione in i al posto di -iendo (Rohlfs 1968, §618). Pur consapevoli della non corrispondenza tra il gerundio latino (forma nominale dell’infinito) e il gerundio italiano, è possibile che il provenzalismo gioire sia stato “latinizzato” dai letterati a calco della morfologia verbale latina e quindi, nelle scritture colte, si sia radicato un *gioiendo gradito alle orecchie dei dotti, benché antietimologico. Insomma, per quanto gioire non derivi dal latino per tradizione interrotta – a differenza, ad esempio, del verbo esaurire –, si sarebbe prodotto anche in questo caso «uno di quei non infrequenti casi di “sovrabbondanza” determinata dall’influsso del latino nei paradigmi verbali italiani» (cfr. la scheda di Paolo D'Achille).
Oggi, l’incertezza tra gioiendo e gioendo, testimoniata dalle domande dei nostri lettori, sembra piuttosto dovuta, per analogia, sia alla ricordata oscillazione di -e- e -ie- nei participi presenti dei verbi della III coniugazione (moriente/morente), sia alla presenza di flessioni miste, ossia di flessioni in cui si incrociano i paradigmi di due verbi corradicali come nel caso di riempire/riempiere o compire/compiere: se riempire fa riempiendo e compire fa compiendo è perché i loro gerundi provengono dalla flessione dei corradicali riempiere e compiere. E a proposito di provenire, ricordiamo che la forma *proveniendo, che talora si sente usare, è scorretta (Coletti 2015).
Ma c’è forse anche una ragione eufonica che spiega la sopravvivenza di gioiendo: mentre gioendo presenta una sequenza in iato di due vocali forti, la o e la e, in gioiendo l’aggiunta di una i alla radice gio- consente di mediare, in senso articolatorio, il percorso da compiere entro lo spazio vocalico per passare dalla velare o alla palatale e. Un’inserzione particolarmente seduttiva per il parlante perché gioiendo richiama più esplicitamente il rapporto semantico con il sostantivo gioia, che gioendo sembra obliterare. Insomma, non sempre la forma corretta è anche la preferita.
Nota bibliografica:
Manuela Manfredini
7 maggio 2021
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