A proposito del verbo pienare

Sono giunte alla nostra redazione domande sul verbo pienare: alcune riguardano la forma tradizionale di area toscana, altre vertono invece su un uso più recente nel senso di 'fare il pieno di benzina'.

Risposta

La forma verbale pienare per ‘riempire’, ‘colmare’ è oggi sentita indubbiamente scorretta e come tale è esclusa dai vocabolari della nostra lingua o, se accolta, è decisamente qualificata come toscanismo (De Mauro, GRADIT). Uno sguardo ai dizionari storici dimostra tuttavia che, in epoca antica, essa era ammissibile, non solo nel significato proprio, ma anche in una serie di significati secondari di tipo traslato. Il primo esempio noto si può far risalire addirittura a Dante il quale, nella prosa raziocinante del Convivio, in un passaggio di forte rilievo concettuale, scrive: «Con ciò sia cosa che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle [canzoni] non litterati che litterati, seguitasi che [il latino] non avrebbe pieno lo suo comandamento come ’l volgare, che da li litterati e non litterati è inteso» (I vii 12), dove l’espressione avrebbe pieno presuppone un pienare nel senso figurato di ‘portare a compimento’, ‘adempiere’. Ben più concreta e aderente al significato primitivo l’attestazione offerta da Boccaccio, nel Decameron, nell’esilarante rappresentazione di Calandrino impegnato nella raccolta delle pietre del Mugnone: «Ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n’ebbe pieno…» (VIII 3 40). Lo stesso Boccaccio torna ad usare il verbo nel Ninfale fiesolano, con riferimento ai lamenti che riempiono i boschi: «E quanto la fortuna, a’ miei disiri / contraria è stata, posson esser suti / ver testimoni i boschi tutti quanti / di questa valle, sì gli ho pien di pianti!». E perfino nel raffinatissimo Petrarca si legge: «ed era il cielo a l’armonia sì intento / che non se vedea in ramo mover foglia, / tanta dolcezza avea pien l’aere e ‘l vento» (Canzoniere, 156 14). Più tardi, altri autori continuano la tradizione, da Ariosto (Orlando furioso, 14, 133: «Tornò la fiamma sparsa tutta in una / che tra una ripa e l’altra ha ‘l tutto pieno») fino a Carducci («Il Giordani! Oh il Giordani! Quanto m’ha pieno di sé!»; «… quando la fama dei “Promessi Sposi” ebbe piena tutta la penisola»).

Non si può dire che pienare presenti aspetti anomali dal punto di vista strutturale, rientrando nella categoria assai comune nell’italiano dei verbi ricavati da aggettivi, come ad esempio calmare da calmo, gonfiare da gonfio e – afferenti alla medesima area semantica – colmare da colmo, vuotare da vuoto. Quello che tuttavia è d’obbligo notare – e gli esempi riportati sopra ne danno ampia prova – è il ricorrere, costante presso gli autori più antichi, di forme della coniugazione che implicano l’uso dell’ausiliare + il participio passato. Quest’ultimo peraltro è rappresentato non dalla forma pienato, ma da pieno, ovvero dal cosiddetto participio raccorciato o a suffisso zero (o aggettivo verbale che dir si voglia) diffuso nell’italiano antico per i verbi della prima coniugazione (si pensi ad esempio a cerco invece di cercato, tocco invece di toccato, ecc.). Naturalmente a favorire l’uso del participio raccorciato pieno contribuisce anche la vitalità della medesima forma nella sua comune funzione di aggettivo.

È assai probabile che una documentazione così parziale del paradigma, cristallizzatasi di fatto nel modulo avere pieno, dove pieno pur dotato di valore participiale coincide con l’aggettivo, abbia scoraggiato la registrazione del lemma pienare nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), che come si sa è sostanzialmente fondata sul canone degli autori trecenteschi. Né l’assenza è stata colmata nelle successive quattro edizioni. L’esclusione dal Vocabolario della Crusca, la più attiva e autorevole officina lessicografica italiana, ha quindi avuto un ruolo decisivo nel decretare il marchio di scorrettezza che ha pesato e pesa su pienare, verbo che comunque è sopravvissuto nell’uso popolare toscano, come fin dall’Ottocento rilevava Pietro Fanfani (Vocabolario dell’uso toscano, 1863), non senza affiorare episodicamente in ambito letterario moderno: lo ritroviamo, ad esempio, nella prosa anticonvenzionale di Giovanni Papini («Io mi tuffavo e perdevo in quel mare di sapienza che nel punto stesso di pienarmi mi dava nuovo appetito e nuova arsione» Un uomo finito; «La sera si pienò la casa dove stavo in quei primi tempi» La seconda nascita) e nella poesia di Carlo Betocchi («e il cuore e il giorno, pienan quelle stanze / che tu abbandoni» Alla moglie).

Quanto alla voce pienare nel senso di ‘fare il pieno di benzina’, non mi risulta che essa sia registrata nei vocabolari. Si tratta comunque di una comprensibile estensione dell’uso primitivo di pienare ‘colmare’ che abbiamo fin qui visto, ovviamente connessa all’affermarsi di pieno come sostantivo nell’espressione fare il pieno ‘riempire il serbatoio di benzina’ affermatasi già nella prima metà del Novecento e registrata da Bruno Migliorini nell’Appendice al Dizionario moderno del Panzini edita nel 1942.

 

Paola Manni

 

Piazza delle lingue: La variazione linguistica

7 settembre 2015


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