Ci sono pervenute varie richieste su quali siano le forme femminili e plurali corrette di cicerone, mecenate, anfitrione e mentore, nomi propri ormai usati anche come nomi comuni.
Cicerone, mecenate, anfitrione e mentore costituiscono quattro esempi di quel passaggio “dal nome proprio al nome comune” magistralmente illustrato da Bruno Migliorini (1927). Lo studio di questa trafila lessicale è stato poi denominato deonomastica (La Stella 1982; 1984) e deonomastici o deonimici vengono oggi chiamati tecnicamente i nomi comuni derivati da nomi propri, che con riferimento a questo processo sono detti eponimi. Possono diventare nomi comuni sia i nomi di luogo o toponimi, sia i nomi di persona o antroponimi, come nei nostri esempi (per un approfondimento sulla questione mi permetto di rinviare al mio articolo La deonomastica, in La Crusca per voi, 56, 2018 - I, pp. 9-11). I meccanismi che originano questo passaggio sono la metonimia, la metafora, l’ellissi (specie nel caso dei toponimi: formaggio di Asiago > asiago). Negli antroponimi è particolarmente frequente l’antonomasia, per cui il nome proprio di un personaggio famoso (reale o immaginario che sia) passa a indicare tutti coloro che ne possiedono le stesse caratteristiche, fisiche, morali o comportamentali. Questa antonomasia è detta “vossianica”, dal nome del filologo olandese Gerardo Giovanni Vossio, per distinguerla da quella per cui un nome comune viene usato per indicare uno specifico individuo (come l’eroe dei due mondi per Giuseppe Garibaldi).
Le domande rivolteci vertono appunto su quattro deonimici formati per antonomasia; è bene quindi partire dai personaggi che ne sono alla base. Cicerone non ha certo bisogno di presentazioni; il suo cognomen è passato a indicare prima (già dal Cinquecento, e spesso in senso ironico) una persona eloquente, poi (dal Settecento) una guida turistica, specie non professionale (cfr. al riguardo, pure per le datazioni, Schweickard 2013 e D’Achille 2014). Molto nota è anche la figura di Gaio Plinio Mecenate, un patrizio romano vissuto nel I secolo a.C., amico dell’imperatore Augusto e protettore e amico di poeti e letterati latini, come Virgilio e Orazio; da qui, si indica come mecenate chi protegge letterati e artisti sostenendoli economicamente. Anfitrione è invece un personaggio della mitologia classica; durante una sua assenza da casa, Giove assunse le sue sembianze (così come Mercurio prese quelle del servo Sosia) per giacere con la moglie Alcmena (dall’unione sarebbe nato Ercole). Il mito fu messo in scena già da Plauto, ma solo dopo il rifacimento di Molière (e dunque, probabilmente, attraverso il francese), anfitrione ha finito con l’indicare il padrone di casa generoso e ospitale (fin troppo, sebbene malgré lui, nel caso dell’originale), così come del resto sosia si riferisce a una persona che somiglia moltissimo a un’altra. Mèntore, infine, è un personaggio dell’Odissea, a cui Ulisse, prima di partire per Troia, aveva affidato il figlio Telemaco e che, nei primi libri del poema, accompagna lo stesso Telemaco alla ricerca del padre. Anche in questo caso la fortuna del nome, nel senso di ‘consigliere fidato’, ‘guida’, ‘accompagnatore’ (rispetto a una persona più giovane e/o inesperta), si deve a un intermediario francese, il romanzo Le avventure di Telemaco (1699) di Fénelon.
Quanto alla data di nascita di questi deonimici, lasciando da parte cicerone (di cui si è già detto), il GRADIT e lo Zingarelli 2019 offrono queste indicazioni: mecenate av. 1375 (1374 Zingarelli; il riferimento è all’esempio del Ninfale fiesolano di Boccaccio riportato nel GDLI), mentore av. 1789 (id. Zingarelli), anfitrione 1876 (1827 Zingarelli), sosia 1890 (av. 1853 Zingarelli). Almeno le date di mentore e di sosia possono essere anticipate grazie a questi esempi tratti da Google Libri l’8 dicembre 2018 (in entrambi si noti la presenza della lettera maiuscola iniziale):
[...] a fine di potersi sposare con Rochester, il quale avutane la proposizione volentieri vi consentì, credendo che Overbury, il quale sino allora aveva sempre consultato come il suo Mentore, ci averebbe pur consentito (Vincenzio Martinelli, Istoria d’Inghilterra, Londra, Molini, vol. II, 1771, p. 1488).
Quale fu la colpa o l’errore che fruttò tale infortunio ai Lombardi? Il municipalismo: il Sosia della nazionalità (Cristina Trivulzio, Ai suoi concittadini, Milano, Valentini, 1848, p. 11; il riferimento a cose astratte invece che a persone fa pensare che l’uso fosse già diffuso anteriormente).
Ma veniamo ai quesiti che ci sono stati proposti. Gli antroponimi, diventati nomi comuni, causano (specie quando, come nel caso di cicerone, il rapporto con il personaggio, ben noto, resta trasparente) qualche problema di carattere morfologico, per quanto riguarda il loro uso al femminile e al plurale. Nei casi in esame, la costante terminazione in -e dovrebbe semplificare le cose, consentendone l’inserimento nella classe nominale che comprende sostantivi sia maschili sia femminili, con la desinenza in -e al singolare e in -i al plurale. In effetti, i principali dizionari contemporanei (GRADIT, Zingarelli 2019, ecc.) sono concordi nell’indicare i plurali in -i (ciceroni, mecenati, anfitrioni, mentori) e su questo punto, visto che tutti i termini sono entrati in italiano prima che crescesse la tendenza all’invariabilità che ha investito anche i nomi in -e, possiamo senz’altro riconoscere come consigliabili queste forme di plurale (che sono poi anche quelle più diffuse).
Diversa (e più complessa) la questione del femminile. La terminazione in -e non osterebbe affatto al possibile uso dei nostri deonimici al femminile senza modifiche formali (il genere verrebbe indicato da articoli, aggettivi, ecc. riferiti al nome); da un lato, però, l’identità maschile dei personaggi sembra impedirne l’uso con riferimento a donne; dall’altro la coincidenza delle terminazioni di cicerone e anfitrione con il suffisso -one può indirizzare verso la forma femminile -ona. Ecco così infatti che per il GRADIT cicerone, anfitrione e mentore sono nomi solo maschili (il che dovrebbe significare che devono restare tali anche se riferiti a donne; ma nel lemmario figura anche il femminile cicerona, etichettato come ironico), mentre mecenate può essere sia maschile sia femminile (l’uso al femminile si può spiegare col fatto che la storia ci offre vari esempi di regine e nobildonne protettrici delle arti), sebbene venga lemmatizzata anche la voce mecenatessa; lo stesso vale per lo Zingarelli 2019, che però non lemmatizza mecenatessa (e neppure cicerona) e viceversa indica per anfitrione il femminile in -a. Possiamo segnalare per completezza, visto che lo abbiamo citato, che sosia è registrato in entrambi i dizionari come anche femminile e come invariabile.
Per mecenate, l’uso conferma le indicazioni dizionaristiche: la ricerca della stringa “una mecenate” in Google e in Google Libri ce ne offre numerosi esempi, di ieri e di oggi. Il più antico che ho trovato è questo:
La dotta posterità non cesserà di ripetere con mille elogj il vostro nome, e i miei giornali risuoneranno nel lungo avvenire delle dovute lodi a una mecenate sì generosa, e sì dotta (Alessandro Ercole Pepoli, Teatro, Venezia, Palese, vol. V, 1788, p. 1719).
In rete si trovano però anche esempi di mecenatessa. Riporto la prima attestazione (che anticipa la data av. 1866 indicata dal GRADIT sulla base del GDLI) e una recente di Arbasino, con l’avvertenza che ce ne sono altre che, diversamente da questa, sono sicuramente denotative:
Bravo a non vi dipartir dalla vostra Mecenatessa! ella mi scrive della raccolta a un di presso come voi. Le risponderò dopo averla letta (L’epistolario ossia Scelta di lettere inedite famigliari, curiose, erudite, storiche, galanti ec. ec.. di donne e d'uomini celebri morti o viventi nel secolo XVIII, Venezia, Graziosi, 1795).
E così anche Rilke, in Qualcosa sulle bambole, volgendosi alla contessa Pia di Valmarana, mecenatessa di piccole merlettaie venete [disse] (Alberto Arbasino, Marescialle e Libertini, Milano, Adelphi, 2004).
Seppure raro, si trova anche il femminile mecenata:
Uscito di scena il mecenate storico, il saturnino e taciturno Cliente Massimo, gli era succeduta nella stessa funzione una mecenata, una piissima Signorina in seguito passata alla storia del nostro paese per aver lasciato tutti i suoi averi a un frate (Luigi Meneghello, Opere, a cura di Francesca Caputo, Milano, Rizzoli, vol. II, 1997, p. 523).
Del femminile esiste poi anche un’attestazione aggettivale, in una dedica del commediografo Cesare Caporali 1604: “E quì [sic] finisco senza mai finir d’amarvi, e riverirvi, baciandovi la mecenata mano”.
Quanto a mentore, non è vero in assoluto che il deonomastico sia solo maschile: in rete si trovano anche esempi al femminile, almeno a partire dagli anni Ottanta. Eccone uno:
Se l’ho presente, è stata la mia mentore! (Magda Abbondanza, Magma, Poggibonsi, Lalli, 1987, p. 11).
Non mancano neppure esempi di mentoressa, come i seguenti:
Ma quella sua damigella di compagnia, od aia, o Mentoressa che la si voglia dire, a me la non mi piace punto (Antonio Bresciani, L’Ebreo di Verona, Roma, Stamperia di Propaganda, vol. I, 1852, p. 71).
Che sia stato merito di Victor Hugo? O forse di Dumas padre, del figlio, della mia mentoressa mancata o magari di una qualche congiunzione astrale più bizzarra del solito? (Alma Abate, Ultima estate in suol d’amore, Vicenza, Neri Pozza, 2011).
Quanto al femminile di anfitrione, anche in questo caso abbiamo attestazioni, per lo più ottocentesche e/o in traduzioni dall’inglese, di anfitrionessa, come la seguente:
Se sospinto da desiderio vuoi da te stesso servirti, l’anfitrionessa ti slancia un’occhiata formidabile (Giovanni Battista Carta, La dottrina dei conviti, Milano, Rettig, 1847, p. 36).
Ma la forma anfitriona indicata nello Zingarelli sembra un po’ più frequente e può essere stata favorita dal modello fornito dallo spagnolo, opportunamente ricordato anche tra i quesiti che ci sono pervenuti. Un esempio recentissimo è offerto dal titolo del romanzo di Patrice Martinez Un’anfitriona ammaliante (trad. di Emanuela Greco; ed. Phanès, 2017). La rete offre anche esempi del plurale le anfitrione. Come per mecenata, possiamo inoltre proporre un esempio aggettivale, stavolta contemporaneo, nel senso di ‘ospitante’:
L’approccio prevalente alla problematica delle migrazioni internazionali guarda all’inserimento dei migranti nel Paese di arrivo, ma trascura in buona misura gli effetti che il contatto induce sugli autoctoni e sulla società anfitriona (Tiziano Telleschi, Interculturalità e valori, in Zoon politikon 2010, vol. I, Per la democrazia e l'integrazione sociale, a cura di Mario Aldo Toscano, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 311).
Infine, per cicerone, Schweickard 2013 segnala esempi (dall’Ottocento al Duemila) sia di cicerona sia di ciceronessa anche nel senso di guida turistica, ma ne sconsiglieremmo l’uso: va detto peraltro che anche al maschile il termine ha avuto (e fin dalle origini) un’accezione quanto meno ironica e che la collocazione più frequente con cui è usato, fare da cicerone a qualcuno, non richiede necessariamente l’accordo di genere e può riferirsi sia a uomini sia a donne.
In definitiva, sulla base delle indicazioni lessicografiche e dell’uso concreto, possiamo consigliare i plurali in -i per tutti e quattro i nostri deonimici. Quanto al genere, non solo mecenate ma anche mentore può essere tranquillamente usato anche al femminile (una mecenate, una mentore); la forma anfitriona, se proprio si vuole usare al femminile il termine anfitrione, non causa particolari imbarazzi; invece, è meglio evitare cicerona e tutte le forme in -essa.
Nota bibliografia:
11 dicembre 2018
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