Meno male (o menomale) che c'è la Crusca!

Sono arrivate al nostro servizio di consulenza molte domande sulla locuzione meno male: può essere scritta menomale? Se seguita da una frase dichiarativa il verbo di questa deve essere al congiuntivo o all’indicativo? Esiste l’alternativa benomale?

Risposta

La maggior parte delle domande su menomale riguarda la sua grafia, se unita, univerbata come si dice, o distinta, con i due componenti (meno male) separati. Premettiamo che stiamo parlando (ci stanno chiedendo i nostri lettori) dell’esclamazione menomale! / meno male! e della locuzione congiunzionale menomale / meno male + che introduttiva di frase dichiarativa. Rispondiamo subito dicendo che sono corrette entrambe le grafie e che entrambe sono registrate da certi dizionari allo stesso livello di ammissibilità (Sabatini-Coletti) o con preferenza per quella unita (Zingarelli, GDLI), anche se sono più numerosi i casi di registrazione in sola grafia distinta (Vocabolario Treccani, GRADIT, Devoto-Oli, Garzanti, anche perché questi dizionari non lemmatizzano la parola in posizione indipendente ma come locuzione sotto la voce meno). Succede a tanti composti di oscillare a lungo tra la grafia unita e quella separata (si pensi ai composti con buon/a -giorno, -sera, -uscita ecc.). Il percorso va ovviamente dalla grafia distinta dei due elementi all’univerbazione, ben visibile anche in parole grammaticali, come poi che > poiché, ciò è > cioè. L’univerbazione è favorita dalla frequenza della combinazione (buona sera, buona + notte) e sembra preferita quando gli elementi, nell’incontro, cambiano almeno in parte il singolo significato originario (nessuno scriverebbe e neppure penserebbe a *meno pausa, manodopera è ormai solo unita e se c’è tanto un buon costume quanto un malcostume c’è solo la buoncostume). Tuttavia l’oscillazione è frequente, riguarda molte parole che ancora si danno, scrivendo, nelle due grafie, a volte anche con singolari dissimmetrie (per cui sono molto frequenti sia perlomeno sia per lo più). Nel nostro caso poiché c’è differenza tra dire: “oggi sento meno male di ieri” e “menomale, oggi sto meglio di ieri”, la grafia univerbata si potrebbe preferire per l’esclamazione per differenziarla. Del resto, se il sintagma esprime il significato letterale del comparativo meno di fronte al sostantivo male, anch’esso nel suo senso proprio, il composto (unito o no che sia nella scrittura) è invece un’espressione di soddisfazione, di sollievo (parafrasabile con ‘per fortuna’) con un valore semantico assai diverso nell’insieme dalla somma dei singoli elementi e perciò ben disponibile alla grafia unita. Mi sento quindi di suggerirla per l’esclamazione e la locuzione congiunzionale. In fondo non è assurda una frase del genere: “menomale che oggi sento meno male di ieri” in cui la diversa resa grafica renderebbe bene la differenza semantica e sintattica della stessa combinazione di parole. Tuttavia va precisato che per ora l’univerbazione è minoritaria: nei romanzi del Premio Strega interrogati nel corpus PTLLIN ce n’è un solo caso contro oltre 100 di quella distinta e nell’Archivio della “Repubblica” le pur non poche 308 volte di menomale, menomale che non insidiano minimamente il primato delle quasi diecimila meno male, meno male che.

La grafia unita offrirebbe anche il vantaggio lessicografico del trattamento autonomo della parola con relativa datazione: menomale è datato da GDLI e Zingarelli al 1842 mentre non è datato dai dizionari che lo lemmatizzano come locuzione di meno. Il sintagma libero in grafia distinta (e non col significato di ‘per fortuna’) risale invece ovviamente molto indietro nel tempo. Nel corpus OVI lo vediamo in un passo della Sanità del corpo, volgarizzamento trecentesco di Zucchero Bencivenni: “(i cocomeri) fano meno male allo stomaco che i meloni”. Grazie a Google libri leggiamo in Landolfo di Sassonia, Vita di Giesu Christo, Venezia 1585: “et meno male è non esser semplicemente che esser dannato” e in Gerolamo Fracchetta, Il seminario de’ governi di stato Venezia 1617: “consideriamo se sia da stimar meno male nelle battaglie l’arrendersi ai nemici o il fuggire”.

Assai presto appare anche la locuzione congiunzionale meno male che (“Sono disgratie che avenir sogliono Signor Fabritio, et meno male che la cosa è passata senza sangue e rottura d’ossi”, Tomaso Buoni, Intertenimento illustre del senso e della ragione in forma di dialogo, Venezia 1604), introduttiva, come abbiamo detto, di frase dichiarativa col valore dell’avverbio ‘fortunatamente’, ‘per fortuna’, nel suo ruolo frasale, di commento del locutore (giudica una fortuna, un bene quanto dice) alla propria affermazione. Aggiungiamo, con riferimento alla domanda di alcuni lettori, che il modo della dichiarativa è normalmente l’indicativo.

È probabile che la locuzione congiunzionale (e da essa l’esclamazione) si sia sviluppata dal normale uso comparativo di una frase come “è meno male (cioè è un male minore) che”, con omissione o autonomizzazione sintattica del secondo termine di paragone, come si può intravedere da questo esempio trecentesco di Franco Sacchetti: “Serebbe meno male che quelli (i templi) rovinassono (= andassero in rovina) che essere fatti ostelli di sì viziosa gente”, dal quale si potrebbe ipotizzare un successivo: “(Questi templi potevano diventare ricetto di gente viziosa) meno male che sono andati in rovina”. Anche l’analisi di questo esempio dalla Ragazza di Bube di Carlo Cassola: “Meno male che ci sarebbero stati anche il padre e Lidori: da sola, non ne avrebbe avuto il coraggio” mostra abbastanza bene come la coordinata (“da sola ecc.”) sia il residuo di un secondo termine di paragone. Spesso l’omissione completa del secondo termine è dovuta al fatto che esso esprime un concetto scontato, prevedibile, come, sempre nella Ragazza di Bube: “Meno male che si avvicinava l'ora della partenza”, lo è il possibile e omesso “che l’esserci ancora molto tempo alla partenza”.

Da questa locuzione, più tardi, per ellissi del verbo essere, del che e a volte anche dell’intera frase da esso introdotta, si è generata l’esclamazione, come si vede bene da questo esempio (Luigia Codemo Gerstenbrandt, Fiore di serra. Terza cronaca di un anonimo. Scene domestiche, Venezia 1860): “Quel birbante, quell’iniquo di mio figlio… gridò la vecchia! – E la signora Barbara: - Ah, meno male… tutto resta in famiglia”, in cui è evidente l’ellissi o del solo che o anche di un’intera frase tipo “che è vostro figlio”. Anche la locuzione è più spesso scritta in grafia disgiunta, ma non c’è nulla di male a univerbarla, per le ragioni dette sopra. In ogni caso, ripeto, l’opzione è libera.

La storia di meno male che e di menomale! è stata in parte parallela a quella dei sinonimi manco male che e manco male! (anche qui manco, come prima meno, è avverbio in funzione attributiva). Leggiamo questi versi: “Manco male / ch’entro il mio core / non fece amore / piaga mortale. / Manco male” (Poesie del marchese Francesco Maria Santinelli, Lione 1580): qui manco male appare sia in congiunzione con che, nel primo verso, sia in ellissi del nesso subordinante, con puro valore esclamativo, nell’ultimo. L’esclamazione è attestata specialmente nelle commedie, con grafie sia unite che separate. Manco male si dava anche come sostantivo per l’attuale nostro “male minore” ed era perfino il titolo di una commedia del milanese Carlo M. Maggi (1695). La locuzione, sia introduttiva di frase con che sia ellittica con valenza esclamativa, era in effetti diffusa nei dialetti: come milanesismo la sente ancora Manzoni che la scrive sia univerbata che no nel manoscritto del Fermo e Lucia (come ha notato Ornella Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua, p. 332), ma corregge in meno male nella quarantana dei Promessi Sposi. La circolazione regionale è attestata anche dalle attestazioni più antiche del sintagma libero, nel senso letterale di ‘meno male’, registrate dal corpus medievale dell’OVI, tutte di area non toscana.

Alcuni lettori chiedono anche se è attestato ed è regolare un sinonimo dell’esclamazione menomale come un supposto benomale. La risposta è no. Bene o male (che sarebbe l’antecedente del benomale ipotizzato) è una locuzione che significa ‘in un modo o nell’altro’, ‘alla meno peggio’ e quindi non assolutamente sinonimo di menomale. Benomale però circola oggi nella rete e spesso è proprio erroneamente inteso come sinonimo di menomale su cui è modellato. Tra l’altro, è discutibile anche dal punto di vista formale, perché se nei composti si danno comunemente troncamenti o elisioni (bene accetto > benaccetto, tutt’ora > tuttora), si danno raramente crasi (fusione di vocali) e solo tra vocali uguali (palla a volo > pallavolo, anti incendio > antincendio).

Vittorio Coletti

13 luglio 2021


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