Mentalizzare e mentalizzazione: due tecnicismi “in borghese”

Alcuni lettori ci chiedono se esiste il verbo mentalizzare, che non trovano nei dizionari e che appare segnato in rosso dai correttori automatici dei programmi di videoscrittura. Un lettore si fa la stessa domanda anche dopo aver usato il verbo nel corso della stesura della sua tesi di laurea col significato di ‘esprimere un pensiero’, ‘prepararsi mentalmente a un accadimento futuro’, e in relazione all’impiego diffuso che vede fare del sostantivo corrispondente mentalizzazione. Cerchiamo di fare chiarezza.

Risposta

In lessicografia, il primo a registrare mentalizzare e mentalizzazione è il GDLI, dizionario storico-letterario, attento dunque a documentare l’uso che dei vocaboli lemmatizzati è fatto in letteratura e in generale nell’italiano scritto. Il volume che le contiene è pubblicato nel 1978. Da qui apprendiamo che mentalizzare e mentalizzazione facevano già parte del lessico di Vincenzo Gioberti, sacerdote, filosofo e politico italiano risorgimentale, che le ha usate in almeno un’opera, Della protologia, pubblicata postuma nel 1857. Nel GDLI, Gioberti è l’unico autore citato per esemplificare l’impiego delle due parole: questo ci permette di stabilire che i nostri termini sono stati certamente usati prima del 1852, anno della sua morte, ma allo stesso tempo ci fa immaginare che la loro diffusione, almeno fino agli anni di redazione del volume del dizionario, non fosse molto ampia.

Il GDLI ricava la propria definizione di mentalizzare e di mentalizzazione proprio dall’uso che ne fa Gioberti. L’autore usa il verbo sia transitivamente, quasi come sinonimo di ‘astrarre, idealizzare’ (“Dante afferra sempre il lato ideale delle cose e mentalizza il sensibile”, Della protologia, 2 voll., Torino, Botta, 1857, I, p. 111), sia intransitivamente e con la particella pronominale si, con un significato più tecnico e difficile, che il GDLI marca come “filosofico” e sintetizza in ‘diventare oggetto di conoscenza’: “La sensibilità è dunque bilaterale: subbiettiva e obbiettiva; ma è obbiettiva in quanto comincia a svolgersi e mentalizzarsi” (Della protologia cit., II, p. 101).
Ancora tratto dalle opere di Gioberti è l’esempio dell’uso del nome di azione derivato da mentalizzare: “La perfettibilità della vita sensibile è la sua mentalizzazione successiva, mediante la quale i varii e opposti incrementi si uniscono e intellettualizzano nel pensiero” (Della protologia cit., II, p. 116). Anche in questo caso il GDLI associa il termine a contesti d’uso filosofici, nei quali il suo significato può essere approssimato in ‘intellettualizzazione’. 

Lo spazio dedicato dal GDLI ai nostri due termini però non si esaurisce così: troviamo mentalizzare e mentalizzazione nuovamente lemmatizzati nel Supplemento 2009, questa volta introdotti dalla marca NA (nuova accezione), a segnalare i cambiamenti significativi che il loro uso ha subito nel corso degli ultimi anni. Mentalizzare adesso viene registrato soltanto come verbo transitivo, usabile anche in senso assoluto, col significato più generico di ‘cogliere ed elaborare con la mente’, e con quello tecnico-specialistico, legato non più alla filosofia ma alla psicologia, di ‘rappresentare e interpretare comportamenti e stati mentali quali desideri, intenzioni, scopi, ecc. collegando le informazioni in un insieme coerente dotato di significato’.

In modo simile, la nuova accezione di mentalizzazione è quella, ancora legata alla psicologia, di ‘rappresentazione e interpretazione di comportamenti e stati mentali tramite il collegamento delle informazioni in un insieme coerente dotato di significato’.
Gli esempi d’uso sono tratti in questo caso dai quotidiani (riportiamo il primo):

A volte si presentano persone, con anni di analisi freudiana alle spalle, assolutamente incapaci di entrare in contatto con se stesse. Gente malata di parole, abituata a mentalizzare tutto. (Luciana Sica, Ecco i suoi seguaci italiani, “la Repubblica”, 3/3/1990)

e dal Dizionario di psicologia di Umberto Galimberti (Torino, UTET, 1992), nel quale mentalizzazione è messo a lemma con la seguente definizione: 

Termine introdotto da E. Claparède per indicare l’elaborazione psichica di tensioni conflittuali. Il termine è stato adottato dalla psicosomatica di scuola francese per spiegare numerosi disturbi registrati dal corpo per insufficiente presa di coscienza dei conflitti psichici sottostanti.

Oltre al GDLI, registrano mentalizzare lo Zingarelli (a partire dall’edizione 2012, insieme al sostantivo mentalizzazione) e il Devoto-Oli 2021. Entrambi associano ai termini un significato più generale di ‘elaborare con la mente’ (al quale nello Zingarelli segue ‘elaborazione mentale’ per il sostantivo) e un secondo significato tecnico legato alla psicologia.

Per lo Zingarelli, in modo simile a come spiegato nel Supplemento del GDLI, mentalizzare in ambito psicologico significa ‘elaborare le acquisizioni sensoriali e gli stimoli emotivi provenienti dall’esterno in modo da non entrare in conflitto con sé stessi o con altri || mentalizzazione, s.f.’. Nel Devoto-Oli, che registra il termine quasi 10 anni più tardi, il significato differisce sensibilmente: ‘rappresentare e interpretare il comportamento proprio o altrui in termini di ipotetici stati mentali, come per es. sentimenti, desideri, credenze’.

Come inevitabilmente accade per i tecnicismi di molte discipline, anche nel caso di mentalizzare e mentalizzazione le informazioni riportate dai pochi dizionari che le registrano, pur corredate di esempi, non sono sufficienti a restituire a pieno la complessità del loro uso. Nella riflessione di Gioberti, per esempio, l’atto della mentalizzazione rappresenta il primo momento del “ritorno dell’esistente all’Ente”, e dunque dell’uomo (creato) a Dio (Ente assoluto). Se il culmine di questo “ritorno” si verifica nel vivere morale, il suo inizio è già rappresentato dalla mentalizzazione, che è l’atto con cui l’uomo coglie l’oggettività intellettuale che l’Ente rivela nella creazione sensibile. Tutto questo il vocabolario non ce lo dice (non è suo compito farlo). Allo stesso modo, riusciamo a comprendere solo molto vagamente i significati tecnico-psicologici riportati nelle lemmatizzazioni più recenti, e non abbiamo chiarimenti su come questi usi specialistici convivano con quelli più generali. Questa penuria di informazioni (normale nel caso dei tecnicismi), sommata alla rara presenza nella lessicografia, aiuta a spiegare lo spaesamento dei nostri lettori di fronte alla possibilità di usare queste parole.

Per fare chiarezza, possiamo allargare l’angolo della nostra visuale. Iniziamo interrogando le pagine italiane di Google, che sembrano testimoniare una certa vitalità dell’uso dei nostri termini: sono circa 18.000 le occorrenze di mentalizzare, 80.000 quelle di mentalizzazione, 10.000 di mentalizzato (dati del 17/6/2021). Questi risultati, come possiamo facilmente prevedere dopo aver esaminato i dizionari, non sono distribuiti uniformemente nel corso del tempo.

La ricerca su Google Libri ristretta al XIX secolo, per esempio, conferma l’impressione di un uso inizialmente sporadico delle due forme suggerita dal GDLI (4 risultati per mentalizzare, 6 per mentalizzazione). Significativamente, tra i pochissimi testi non firmati da Gioberti, mentalizzazione compare in uno scritto di critica proprio come tecnicismo giobertiano. (Pietro Luciani, Gioberti e la filosofia nuova italiana, 3, Filosofia acroamatica, Napoli, Tip. di G. Guerrera, 1872, pp. 209-210)

Tra gli esempi non legati a Gioberti, uno proviene da un testo di un altro protagonista del dibattito filosofico dell’epoca, Bertrando Spaventa, studioso hegeliano, giornalista e politico. Parlando di Schelling, Spaventa usa mentalizzare per descrivere l’atto di conoscenza come adesione all’identità di Natura e Spirito: ancora un uso molto specifico, volto a veicolare un significato estremamente preciso, che tuttavia dà prova del fatto che, nell’ambito della filosofia ottocentesca italiana, mentalizzare fosse sentita come una formazione verbale possibile e significativa.

Il pregio di Schelling è di aver detto: Senza identità di natura e spirito, senza identità (notate bene) come mentalità, non ci è il conoscere, il reale conoscere. […] Per Schelling conoscere la realtà è appunto conoscere questa identità, che è mentalità; come per Spinoza conoscere la realtà è appunto conoscere quella identità, che è la Sostanza Causa. Conoscere la realtà è afferrare la relazione: la relazione come identità. […] Per Spinoza l’Idea, la Relazione, è Causare: per Schelling è Mentalizzare (Creare. Creare è identità come mentalizzare). (Bertrando Spaventa, Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli: 23 novembre-23 dicembre 1861, Napoli, Morano, 1886, p. 179)

Citiamo anche un esempio ottocentesco che non è legato all’ambito della filosofia, bensì a quello (a essa per certi versi vicino) della critica d’arte. Mentalizzare ricorre infatti in un testo di Bartolomeo Soster, artista e scrittore veneto, che lo usa in modo simile a come aveva fatto Gioberti parlando di Dante e dunque col significato più generico, ma comunque appartenente a un registro alto, di ‘astrarre, idealizzare’:

Tiziano è soprattutto ammirabile per la varietà dell’effetto complessivo e per la discioltura e la magia del colorito. Raffaello è soprattutto sintetico perché afferra sempre il lato ideale dell’uomo e perché mentalizza il sensibile. Ecco il divario che corre fra l’eccellenza di Tiziano e quella di Raffaello. Ambedue hanno doti importantissime, i loro stili somigliano al loro modello; Tiziano al reale e Raffaello all’ideale ed hanno vera vita siccome nulla è più meravigliosa [sic] che la natura e nulla è più filosofico che la vita. (Bartolomeo Soster, Dei principii tradizionali delle arti figurative e dei falsi criteri d'oggidì intorno alle arti medesime, Milano, fratelli Richiedi editori, 1873, p. 141)

Questi pochi esempi d’uso risalenti al XIX secolo sembrano confermare l’impressione che mentalizzare e mentalizzazione siano rimasti per lungo tempo tecnicismi isolati: significativi all’interno del discorso di specifici autori, nel quale il sistema concettuale di riferimento ne ha richiesta la formazione e ne ha reso possibile un uso appropriato, ma difficilmente esportabili in contesti comunicativi più ampi e generici.

Non è raro, d’altronde, che all’interno di testi specialistici capiti di imbattersi in termini che il contesto rende comprensibili e in qualche modo “necessari” a esprimere determinati concetti, ma che non trovano sempre spazio nella lessicografia (e che anzi, a volte, nei vocabolari sono del tutto assenti). Si tratta di termini rari, oppure di neoformazioni, e in alcuni casi addirittura di hapax che non avremo occasione di ritrovare in altri contesti o in altri autori. In nessuno di questi casi concludiamo a favore della “non esistenza” dei termini che leggiamo: semplicemente accettiamo che il loro significato debba essere modulato all’interno del contesto in cui sono prodotti. Se avessimo voglia di usarli nel parlare comune ci dovremmo preparare, semmai, a spiegare il senso in cui li usiamo: è un fenomeno che abbiamo sperimentato tutti, specialmente se pensiamo a molti dei tecnicismi che ognuno di noi usa in ambiti lavorativi o di studio. Possiamo ragionevolmente ipotizzare che sia questo il motivo per cui, prima degli anni ’70 del secolo scorso, nella lessicografia non c’è traccia di mentalizzare e mentalizzazione

Il discorso cambia se ampliamo le nostre ricerche ai secoli successivi, riguardo ai quali Google libri ci aiuta a documentare un uso crescente dei nostri termini: nel XX secolo 1970 risultati per mentalizzare, 1910 per mentalizzato, 3230 per mentalizzazione. Nel XXI secolo 3300 risultati per mentalizzare, 1880 per mentalizzato, 7700 per mentalizzazione. I dati sono confermati dai grafici forniti da Google Ngram Viewer, che permettono di visualizzare l’andamento temporale del numero delle occorrenze e che testimoniano un’impennata nell’uso a partire dal 2000:

Anche l’ambito disciplinare da cui provengono i testi si amplia notevolmente col passare del tempo: i termini non compaiono esclusivamente o quasi (come nell’Ottocento) in testi di filosofia, ma in quelli di molte discipline. Nel XX secolo troviamo, per esempio, ancora testi filosofici, in cui tuttavia i termini cominciano a essere usati più liberamente e non solo come tecnicismi relativi ai sistemi concettuali di autori specifici: in questi contesti si parla di Platone, di Kant, di Hegel, di Vico, e mentalizzare assume significati di volta in volta diversi, come per esempio quelli di ‘cogliere con la mente’, ‘rielaborare’, ma anche ‘astrarre’, ‘allontanare dal reale’, come in questi due esempi: 

Il dramma del pensiero platonico è proprio nella sua conquista della dialettica come atto mentale che riguarda enti mentali e che finisce col mentalizzare anche quelli designati come empirici, tanto che una volta ammessala è praticamente impossibile tornare indietro […]. (Raffaello Franchini, Le origini della dialettica, Napoli, Giannini, 1969, p. 32)

In questo suo libro Browne ebbe infatti il merito di mostrare come la psicologia di Locke poteva condurre non soltanto alla via idealistica che Berkeley aveva imboccato circa venti anni prima, consistente nel “mentalizzare” la realtà sensibile ma anche alla via opposta, cioè a quella del “sensibilizzare” la realtà mentale. (Umberto Antonio Padovani, Grande antologia filosofica: Il pensiero moderno, diretta da M. F. Sciacca, Milano, Marzorati, 1968, p. 32)

A seconda del sistema concettuale di riferimento, mentalizzare può addirittura essere usato come contrario di ‘astrarre’. Nel caso seguente, per esempio, il termine è da intendere come un ‘ricondurre alle radici mentali’, ossia – in questo caso – concrete, umane: 

La mira dello Spaventa era mentalizzare la logica, intendere cioè la logica non come logica astratta (fuori del pensiero dell'uomo) ma come logica della mente, per il che egli vide che era necessaria una riforma della dialettica hegeliana. (“Scuola e cultura. Annali dell'istruzione media”, 1934, p. 138)

Cercando sulle pagine italiane novecentesche di Google Libri Spaventa + mentalizzare + logica + Hegel si ottengono abbastanza risultati (31) da ipotizzare che il verbo abbia avuto una seconda piccola fortuna agli inizi del ’900 proprio grazie alla critica di Giovanni Gentile alla tesi di Spaventa su Hegel e al dibattito da essa suscitato.

Oltre ai testi di filosofia troviamo anche, in ogni caso, testi di critica letteraria, sociologia, storia, critica cinematografica, critica d’arte, in cui mentalizzare e mentalizzazione appaiono usati più “liberamente” (anche se a volte tra virgolette) con significati come ‘intellettualizzare / intellettualizzazione’, ‘astrarre / astrazione’, e simili.

E crediamo che non sia da trascurare del tutto anche questa componente, per spiegare la progressiva mentalizzazione dell'operare artistico nel cinquecento, e l'insorgere nel secolo successivo del classicismo [..]. (Elimio Garroni, La crisi semantica delle arti, Roma, Edizioni Officina, p. 175)

Nel nostro caso ci troviamo alla presenza di una fase di passaggio dalle prime traduzioni caratterizzate dal procedimento della “mentalizzazione” a quelle più tarde, dominate invece da una notevole meccanicità. (Annali di Ca' Foscari, “Rivista della Facoltà di lingue e letterature straniere dell'Università di Venezia”, Volume XXIII, n. 3, 1994, p. 166)

Il dato che colpisce, tuttavia, è il ricorrere dei nostri termini in testi di psicologia e medicina, i quali, col passare del tempo, si attestano come le fonti privilegiate delle loro occorrenze.

A questo proposito è necessaria una precisazione: il carattere cronologico della nostra ricostruzione non deve trarci in inganno, dandoci a intendere che quello di mentalizzare e mentalizzazione sia un cammino lineare all’interno della nostra lingua. L’ipotesi per cui mentalizzare e mentalizzazione si siano propagate a partire da uno solo specifico ambito d’uso (in questo caso, quello filosofico) verso tutti gli altri contesti e discipline a cui sono giunte appare difficile da sostenere, anche perché, come vedremo meglio, i significati con cui esse sono usate di volta in volta arrivano a differire molto. Sembra decisamente più plausibile che, in momenti diversi e a più riprese nel corso dei decenni, i due termini siano stati sentiti come formazioni possibili e funzionali in molti ambiti del sapere, all’interno dei quali sono state ritenute utili a descrivere azioni che hanno a che fare con ciò che di volta in volta si è inteso coi termini mente e mentale, parole a loro volta ricchissime di accezioni specifiche (basti pensare alla vastità degli studi che sui temi della conoscenza, del rapporto tra il pensiero e il corpo, della vita cognitiva sono proliferati nella storia della filosofia, della psicologia, della medicina, delle scienze cognitive e della linguistica).

Com’è facile constatare, da un punto di vista morfologico-derivativo mentalizzare e mentalizzazione sono formazioni corrette e diremmo quasi “naturali”, normalmente ricavate attraverso l’apposizione del suffisso -izzare, particolarmente produttivo in italiano, a una base aggettivale mental- (da cui derivano anche mentalismo e mentalista) a sua volta derivata da un nome/concetto, quello di mente, che è centrale nel dibattito di molte discipline e anche nel parlare comune.

Alla facilità della loro formazione, inoltre, può aver contribuito l’influenza di altre lingue in cui di volta in volta si sono prodotte riflessioni su concetti analoghi, poi tradotte in italiano nello svolgersi del dibattito scientifico.

Il Supplemento 2009 del GDLI, per esempio, seguendo l’indicazione di Galimberti collega i nostri termini all’influenza della riflessione psicologica in lingua francese, e dunque alle traduzioni del pensiero elaborato dallo svizzero Édouard Claparède (1873-1940). Effettivamente, consultando gli strumenti lessicografici, troviamo conferma del fatto che in francese il termine mentalisation, attestato fin dal 1842 col significato di ‘azione del rendere mentale’ [‘action de mentaliser, de rendre mental, état mentalisé’], nel significato più attuale di ‘presa di coscienza di un fenomeno, rappresentazione intellettuale di questo fenomeno’ [‘prise de conscience d'un phénomène; représentation intellectuelle de ce phénomène’] è considerato anche un tecnicismo della psicologia e in questo senso è fatto risalire alla riflessione primonovecentesca di Claparède (cfr. TLFi).

Ancora nel Supplemento 2009 al GDLI, per l’esattezza all’interno della citazione del Dizionario di psicologia di Galimberti, troviamo un altro riferimento alla riflessione francese, e per la precisione a quella psicoanalitica. Un rinnovato impiego di mentalizzazione [mentalisation] e mentalizzare [mentaliser] è legato infatti alle ricerche sulla psicosomatica dello psicoanalista Pierre Marty (1918-1993). In questo caso i termini assumono un significato tecnico ancora differente: la mentalizzazione qui si colloca nel quadro dei complessi processi di elaborazione mentale di varie forme di traumi e disagio. Un deficit di mentalizzazione, ossia una mancata organizzazione dei traumi è, in questo quadro teorico, alla base dello sprigionarsi dei sintomi psicosomatici.

Il quadro teorico di riferimento, insieme alla lingua d’influenza, cambia nel Devoto-Oli 2021, dove il significato tecnico associato a mentalizzare e mentalizzazione è quello legato alle cosiddette “teorie della mente” sviluppatesi nel dibattito anglofono della seconda metà del secolo scorso e in particolare a partire dagli anni 2000 (grazie soprattutto alle pubblicazioni di Peter Fonagy, Anthony Bateman, Gyorgy Gergely, Elliot L. Jurist, Jon Allen, Mary Target). Quando, nell’ambito degli studi di psicologia e scienze cognitive, si parla di teorie della mente, si intende riferirsi alla possibilità di comprensione dell’altro e all’empatia: possedere una teoria della mente significa avere la capacità di attribuire stati mentali a sé stessi o ad altri individui. In particolare, in questo contesto teorico la mentalizzazione (mentalization) sarebbe la tendenza ad attribuire agli altri individui un complesso di credenze, desideri, bisogni, sentimenti, obiettivi ecc. grazie al quale dare un senso ai loro comportamenti. Se volessimo semplificare, in questo contesto la mentalizzazione è l’abilità primaria che ci fa capire il punto di vista dell’altro. Nel Dizionario di medicina Treccani (2010), è definita proprio in questi termini:

Abilità consistente nel considerare il comportamento altrui come frutto di stati mentali simili ai propri e come capacità di tenere a mente la mente propria e altrui, ossia di riconoscerne l’esistenza e regolare il proprio comportamento in base a ciò.

Ed è questo il senso in cui mentalizzazione compare su Wikipedia in italiano, in inglese e in altre lingue. È questo, inoltre, il significato con cui attualmente mentalizzare e mentalizzazione ricorrono con più frequenza nel web.

Per renderci conto della distribuzione cronologica e tematica degli studi sul concetto di mentalizzazione possiamo dare uno sguardo a Worldcat, la più vasta banca dati bibliografica mondiale, frutto della raccolta dei cataloghi di più di 15.000 biblioteche. Gli studi (in forma di libri, articoli e altri supporti) che contengono la parola mentalization nel titolo sono più di 6300, e per la stragrande maggioranza sono prodotti con frequenza ogni anno maggiore a partire dal 2000 nell’ambito della medicina e della psicologia. La stessa distribuzione cronologica e tematica si ha per i titoli contenenti mentalize (più di 600) e mentalizing (più di 6800). Risultati simili si ottengono consultando Jstor, biblioteca digitale statunitense di riferimento per gli studi scientifici su periodici: 25 risultati per articoli contenenti mentalization nel titolo o nell’abstract, 11 per mentalize e 74 per mentalizing. In tutti e tre i casi, l’ambito da cui proviene la maggior parte dei risultati è quello della psicologia. Comprensibilmente meno numerosi, anche gli studi in italiano sono collocati in modo simile: su Worldcat i lavori che contengono mentalizzazione nel titolo sono 175 (17 quelli con mentalizzare), per la maggior parte prodotti in ambito psicologico a partire dal 2010. La ricerca in italiano su Jstor non ha prodotto risultati.

Questi dati facilitano l’interpretazione del picco di occorrenze di Google Libri e sulle pagine italiane di Google negli ultimi decenni. Trova giustificazione anche l’impressione per cui la maggior parte dei contesti trattino temi di natura psicologica o medica.

In sostanza, l’uso dei termini, rinvigorito dal fiorire degli studi nel dibattito internazionale, sembra attualmente fuoriuscire dagli ambiti strettamente specialistici e anche strettamente scientifici. Mentalizzare e mentalizzazione compaiono anche in contesti divulgativi in cui il registro è alto, prodotti nell’ambito della riflessione psicologica ma anche in altre discipline; sono presenti però anche in articoli di giornali, pagine di siti e interventi su blog, in cui il registro linguistico è più “rilassato” e in cui anche il significato, pur sempre riallacciandosi a quello tecnico, ha contorni più sfumati.

Nell’Enciclopedia Treccani in rete, per esempio, troviamo mentalizzare e mentalizzazione, oltre che in articoli di argomento psicologico, anche in testi in cui si discutono questioni legate all’evoluzione biologica, alle scienze cognitive e alla filosofia. Di carattere medico-psicologico sono per esempio le attestazioni seguenti (nella seconda, in particolare, il sostantivo mentalizzazione ricorre nel senso psicoanalitico legato alla riflessione di Pierre Marty a cui abbiamo accennato sopra):

Il deficit di elaborazione cognitiva delle emozioni può essere conseguente a eventi traumatici oppure derivare dallo sviluppo inadeguato delle funzioni di mentalizzazione (la capacità di rappresentazione dello stato mentale proprio e altrui). Essere alessitimico non comporta quindi la completa assenza di emozioni o l’incapacità di descrivere i propri stati emotivi, quanto piuttosto una carenza nella componente interpretativa e valutativa degli affetti. (Alessitimia, Dizionario di Medicina, treccani.it/enciclopedia, 2010)

Nel 1963 la scuola di Parigi di Pierre Marty, Michel De M’Uzan e Christian David sostiene la presenza di una sorta di carenza di base della capacità di simbolizzazione e la prevalenza del cosiddetto pensiero operatorio, ossia di un tipo di pensiero legato a caratteristiche di concretezza, che questi autori considerano tipiche del fenomeno psicosomatico: la cosiddetta relazione bianca, priva di contenuti emozionali. Il grave deficit di mentalizzazione renderebbe invivibile l’esperienza di separazione e di perdita e ne conseguirebbe l’impossibilità di elaborare l’esperienza del lutto. (Psicosomatica, Dizionario di Medicina, treccani.it/enciclopedia, 2010)

Di argomento filosofico-cognitivista e neuroscientifico sono invece i contesti che seguono:

Il passo decisivo in favore dell’analisi di sistemi cognitivi specificamente adibiti allo sfruttamento dell’informazione sociale è il lavoro di David Premack e Guy Woodruff (Does the chimpanzee have a theory of mind?, in “Behavioral and brain science”, 1, 1978, pp. 515-26) in cui si sostiene che gli scimpanzé sono in grado di ‘mentalizzare’ il comportamento. In tale lavoro i due ricercatori valutavano la capacità di uno scimpanzé – cui si mostrava un essere umano intento a recuperare un oggetto inaccessibile – di indicare quale fosse la strategia migliore che il soggetto umano avrebbe dovuto adottare per risolvere il problema. La tesi sostenuta da Premack e Woodruff è che gli scimpanzé risolvano il problema attribuendo stati mentali all’agente umano utilizzando così una vera e propria teoria della mente. (Francesco Ferretti, Evoluzione biologica ed evoluzione culturale, treccani.it/enciclopedia, 2009)

L’approccio standard delle neuroscienze cognitive alla cognizione sociale si trova a dovere fronteggiare un altro problema, quello della ‘fallacia mereologica’ (Bennett, Hacker 2003), vale a dire il problema di attribuire alle parti di un organismo caratteri che sono proprietà dell’intero. La mentalizzazione, il modo con cui spieghiamo il comportamento altrui attribuendo un ruolo causale a stati mentali interni, comporta un livello di competenza personale, e, per questo motivo, la mentalizzazione non può essere interamente ridotta all’attività subpersonale di gruppi di neuroni nelle aree della corteccia cerebrale, ipoteticamente specializzate nella ‘lettura della mente’. I neuroni, infatti, non sono agenti epistemici, non sono soggetti di conoscenza. I neuroni ‘conoscono’ solo il passaggio degli ioni attraverso le loro membrane. Il mentalizzare ha bisogno di una persona, che potremmo definire come un sistema d’interconnessione tra cervello e corpo che interagisce in modo situato con uno specifico ambiente popolato da altri sistemi cervello-corpo. (Vittorio Gallese, Neuroscienze e fenomenologia, treccani.it/enciclopedia, 2019)

Negli archivi in rete dei quotidiani i nostri termini ricorrono con prevedibile parsimonia data la loro natura di tecnicismi: nella banca dati del “Corriere della Sera” (1982-2019) troviamo 12 occorrenze di mentalizzazione e 3 di mentalizzare; in quella della “Repubblica” 33 di mentalizzazione e 16 di mentalizzare; in quella della “Stampa” una sola per mentalizzazione. Gli articoli in cui ricorrono trattano per la maggior parte argomenti psicologici, e a volte sono proprio gli specialisti a pronunciarle. Significativo come le prime occorrenze siano legate all’accezione psicoanalitica dei termini: 

La formazione della mente, la nascita psicologica, la costruzione della identità personale è la conseguenza di questo difficile processo. Le persone che non siano capaci di tollerare la quota di sofferenza che vi è legata e che nel linguaggio degli adulti potremmo chiamare delusione, non riescono a formare compiutamente la capacità di mentalizzare le esperienze, né a costruirsi una compiuta identità personale […]. La psicoanalisi e le ricerche che essa ci consente di fare sul neonato e sul bambino piccolo ci mostrano ciò che accade a pazienti gravemente sofferenti o a bambini molto piccoli quando non siano capaci di formare pensieri: essi confondono parti di sé stessi con oggetti della loro vita o viceversa. Possono per esempio toccare una persona e illudersi di essere quella persona, essere toccati da una persona e illudersi di essere lei. Si tratta di un livello di mentalizzazione arcaico o magico o rozzo quale è quello che caratterizza i primi stadi di sviluppo o alcune gravi regressioni a questi livelli. (Mario Bertolini (cattedra di Neuropsichiatria infantile Università di Milano), Quando nella mente del bimbo corrono i primi pensieri, “Corriere della Sera”, 9/11/1982, p. 14) 

Per Silvia Godelli, docente di Psicologia clinica nel corso di laurea di Psicologia dell'Università di Bari, quando non esistono esigenze precise di prevenzione o una patologia particolare, l'intervento di chirurgia estetica nelle giovani si trasforma in un'intrusione violenta nello schema corporeo. L' intero periodo dell'adolescenza, sottolinea la Godelli, e anche quello successivo rappresentano infatti una fase di assestamento e consolidamento: il corpo cerca una propria armonia anche con i suoi naturali difetti. «è come se - precisa la psicologa - appena il corpo assume una sua fisionomia stabile con la conseguente mentalizzazione di questo schema, proprio allora si ricorre ad una modalità invasiva che lo sconvolge violentemente. (V. B., “E' una violenza, bisogna donare affetto”, “la Repubblica”, 19/2/2004)

Quelle più recenti e numerose, invece, appaiono riferite agli sviluppi recenti della riflessione psicologica sulle “teorie della mente”. Ne citiamo solo tre:

Oggi, a decenni di distanza, Peter Fonagy dirige quello stesso istituto dove è stato accolto da ragazzo: il Centro Anna Freud di Londra. È lì che è nata quella sua curiosità per la mente umana che l'ha spinto nel tempo, con i suoi studi, a diventare uno psichiatra dalle intuizioni rivoluzionarie. A dare vita alla teoria della mentalizzazione, la capacità di considerare il comportamento altrui come frutto di stati mentali simili ai propri. (Valeria Pini, “Così simili a me, io posso guarirli”, “la Repubblica”, 24/4/2018)

È quello che in psicologia viene chiamato mentalizzare, una funzione che inizia a svilupparsi nei primi anni e ci accompagna tutta la vita. Ed è il pane quotidiano di molte terapie. La sua complessità sta nel riuscire a "tenere in mente" i nostri stati mentali e quelli degli altri”. (Vittorio Lingiardi, Dottor Freud insegnaci a cooperare, “la Repubblica”, 12/11/2018)

Oggi questa faccia va coperta, ma mentre perdiamo il sostegno del riconoscimento reciproco ci rinforziamo con altre virtù: altruismo, valutazione del rischio, (auto)protezione e senso di (auto)efficacia. La necessità di nascondere la bocca esalta la comunicazione degli occhi che, come confermano i test sulle capacità di mentalizzazione, sono il primo luogo d'accesso al mondo interno nostro e altrui. (Vittorio Lingiardi, Mascherina anti-Covid, come sorridere senza volto, “la Repubblica”, 4/11/2020) 

Troviamo il concetto di mentalizzazione (e il verbo corrispondente) inteso come abilità di comprendere l’altro anche in articoli di commento a vicende di cronaca, spesso violenze, e anche in pezzi che trattano di marketing:

Nella violenza di strada, oltre all’idea di esercitare un “diritto”, c’è l’impotenza a gestire la propria frustrazione, non solo sessuale, accompagnata dalla mancata “mentalizzazione” delle conseguenze del gesto. L’unico pensiero, infantile e immaturo, è: io voglio questo, qui ed ora e me lo prendo. Mi prendo una donna che per me non ha né desideri, né volontà proprie. (Daniela Natali, Questione di potere più che di sesso, “Corriere della Sera”, 22 febbraio 2009, p. 50) 

La complessità delle relazioni nella vita quotidiana e nei contesti lavorativi richiede una sofisticata abilità di comprendere gli stati mentali propri e altrui per prevedere e spiegare il comportamento e partecipare in modo competente all’interazione sociale. Questa abilità viene definita in ambito psicologico Teoria della mente o capacità di mentalizzazione. (Marketing online e vita quotidiana, “Correre della Sera”, Corriere lavoro, 26/11/2004, p. 18)

Ci sono, curiosamente, anche alcuni (8 in totale) recenti impieghi sportivi (calcistici) dei termini. In questo caso siamo di fronte a un uso ancora nuovo, slegato da quelli tecnici della psicologia. Qui la mentalizzazione e il mentalizzare indicano la capacità di focalizzarsi sull’obiettivo della vittoria. In questo caso, tuttavia, l’uso italiano risente probabilmente dell’influenza del portoghese, una lingua “forte” in ambito calcistico, dove mentalizar significa proprio ‘prepararsi mentalmente’ (come in spagnolo). Il verbo italiano, in questi casi, è usato sia in senso assoluto, sia transitivamente, nella costruzione “mentalizzare qualcosa” ‘focalizzarsi su un oggetto’, e anche nella costruzione “mentalizzare qualcuno su qualcosa” ‘preparare mentalmente qualcuno su qualcosa’: 

Il problema principale era quello che gli allenatori chiamano, con un ardito neologismo, la “mentalizzazione” dei giocatori. Nella stagione ’96-’97 a contribuirvi in maniera decisiva, quindi a convincerli e a galvanizzarli, furono i risultati (due successi consecutivi a Torino e a Udine che lanciarono l’Udinese verso lo storico approdo in Coppa Uefa). (Giancarlo Padovan, Il Milan di Zaccheroni ricomincia da tre, “Corriere della Sera”, 27/5/1998, p. 45) 

Sarà pronto Ronaldo, ma non certo per merito dell’ingegner Evandro Motta, specialista in “psicologia dell’esito e controllo dell’energia positiva”, richiamato in servizio per aitare la Seleçao a “mentalizzare o penta”, cioè a convincersi che si può conquistare il quinto titolo”. (Roberto Perrone, “Batterò questa Francia piena di juventini”. Ronaldo-mistero, non si allena ma giura: “Sto bene, saremo pentacampioni”, “Corriere della Sera”, 10/7/1998, p. 43)

Prima Berruto poi Blengini sulla panchina del volley, mentre Conte occupa quella del calcio. È soltanto un caso o Torino ha la ricetta per sfornare ct azzurri? “Non la vedo come una caratteristica, mi sembra soltanto una casualità. Detto questo io sono fiero e orgoglioso di essere torinese e stimo Conte: mi piace la sua impostazione e la capacità di mentalizzare la squadra” (Fabrizio Turco, "Io,da Parella a ct della Nazionale", “la Repubblica”, 7/10/2015) 

“Ci aspettano 12 gare, proviamo, dei 36 punti a disposizione, a farne il più possibile”, ha ripetuto ieri Donadoni, che è entrato nelle pieghe della squadra notando alcune difficoltà. La modesta capacità di smarcarsi, anche nello stretto, e le carenze quando si tratta di alzare i ritmi, di metterla sull'agonismo: “Dipende un po' da questioni fisiche, ma anche dal carattere, e comunque a volte non si tratta di spendere di più in termini agonistici, ma di fare meglio certe cose per spendere meno. Ma mentalizzare i ragazzi su simili aspetti non è facile”. (Donadoni riconsegna le chiavi a Verdi, “la Repubblica”, 3/3/2018)

In definitiva, rispondiamo ai nostri lettori dicendo che il verbo mentalizzare “esiste” nel senso che è un verbo attualmente usato in italiano in modo appropriato e funzionale in molti contesti. Nella maggior parte dei casi il verbo mantiene, così come il sostantivo corrispondente mentalizzazione, un legame con gli usi tecnico-specialistici che ne hanno sancito la comparsa: un legame polivalente e modulato rispetto a diversi orizzonti di senso, che tuttavia è bene conoscere e controllare, in modo da poter usare le parole per veicolare un significato preciso e comunicare con efficacia.


Simona Cresti

25 febbraio 2022


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