Ci sono giunte molte domande che chiedono spiegazioni sulla forma corretta dell’espressione far sì che ‘fare in modo che’, sulla natura sintattica della frase che regge e sul funzionamento dei modi e tempi verbali in tale frase subordinata.
Questioni di grafia
Incominciamo con il chiarire che l’espressione è formata dal verbo fare e dall’avverbio sì con valore modale (‘così’). Il verbo all’infinito può essere apocopato (far sì è anzi più frequente di fare sì), l’avverbio va sempre accentato (sì, non si, grafia del pronome riflessivo di terza persona, che non entra in questa espressione). Quando il sì è seguito dalla congiunzione che, la grafia corretta è dunque far(e) sì che, non far si che e tantomeno farsi che.
Come chiarisce il dizionario Nuovo De Mauro, l’avverbio sì (etichettato come “letterario”) quando è seguito dalla congiunzione che può introdurre una frase consecutiva, come nell’esempio petrarchesco “gli amorosi affanni | mi spaventar sì ch’io lasciai la ’mpresa” (Trionfo d’Amore, I, 55-56). In questo caso, il sì (che vuol dire ‘a tal punto’) rappresenta l’elemento che intensifica la causa (lo spavento), ponendo le premesse per il verificarsi della conseguenza (l’abbandono dell’impresa amorosa). Ricordiamo che la frase consecutiva costituisce una sottospecie di frase causale, in cui la causa appare intensificata al punto che l’effetto si produce necessariamente (di qui l’uso del modo indicativo nella forma esplicita). Nell’esempio petrarchesco abbiamo a che fare con una consecutiva “forte”, introdotta dal che e giustificata dalla presenza dell’avverbio sì, che intensifica il verbo della reggente – secondo uno schema frequente in italiano antico (cfr. De Roberto 2010, che cita anche un esempio dantesco: «“Beati pauperes spiritu!” voci | cantaron sì che nol diria sermone», cioè ‘in modo tale che la parola non saprebbe riferirlo’). In altri contesti, tuttavia, il sì intensifica non un singolo elemento della frase in cui si inserisce, ma l’intero suo contenuto: in questo caso la frase subordinata è considerata una consecutiva “debole”; l’avverbio sì si svuota infatti del suo significato e la sequenza sì che, interpretata come locuzione congiuntiva, può dar luogo a univerbazione (sicché). Da questo fenomeno di “grammaticalizzazione” deriverebbe il connettivo sicché, usato oggi con valore conclusivo soprattutto nelle varietà toscane di italiano (come spiega Marco Mazzoleni in questa risposta, cui si rimanda anche per la bibliografia). Nel caso della combinazione far sì che, tuttavia, possiamo escludere la fusione del sì con il che: il verbo fare, infatti, non è intransitivo e richiede pertanto un completamento obbligatorio, che in questo caso viene realizzato dall’avverbio sì, che funziona anche come intensificatore (e quindi da antecedente della consecutiva). La grafia far sicché non può essere perciò considerata accettabile, per rispondere a Simona A., una delle lettrici che ci chiede chiarimenti.
Questioni di sintassi
Il verbo fare è un verbo “tuttofare”, che si presta a entrare in molte locuzioni verbali a carattere idiomatico (come mostra la ricchezza delle voci polirematiche elencate nel dizionario di De Mauro alla voce fare; si veda anche la risposta di Michele Loporcaro). In queste combinazioni, fare funziona spesso come “supporto” a un nome (es. fare colpo, fare finta ecc.), o come verbo accompagnatore di un altro verbo, con valore causativo (far ridere, far pesare), oppure è unito a un modificatore avverbiale (es. fare bene, fare fuori ecc.).
L’espressione che ci interessa, fare sì che, è registrata nel dizionario Sabatini-Coletti come antecedente di una frase consecutiva-finale con il verbo al congiuntivo (“la sua presenza ha fatto sì che si raggiungesse l’accordo”). L’uso del congiuntivo nella subordinata consecutiva sarebbe in questo caso giustificato dal carattere prospettivo dell’azione (fare) espressa nella reggente, come accade nelle frasi finali. Dobbiamo infatti escludere le due condizioni ipotizzate da De Roberto (2010) per l’uso del congiuntivo o del condizionale nelle frasi consecutive: la causa negata (nel nostro esempio la presenza è data per vera) e la probabilità della conseguenza (l’accordo è considerato raggiunto).
Possiamo tuttavia ipotizzare una diversa spiegazione del costrutto, partendo dal significato causativo che il verbo fare può avere. Se assumiamo che far sì sia un’espressione dal significato unitario (sinonimo di permettere e contrario di evitare), potremmo considerare la frase esplicita retta dal che una completiva che occupa la posizione di oggetto diretto: in questo modo la presenza del congiuntivo sarebbe motivata non solo semanticamente (dal valore desiderativo) ma sintatticamente, in quanto richiesta dal verbo reggente (Prandi 2010). Così facendo si aggirerebbe la difficoltà di giustificare la presenza del congiuntivo in un tipo di subordinata, quale è la consecutiva, che normalmente regge l’indicativo (come le frasi causali, alla cui famiglia, come si è detto, appartiene). D’altra parte, l’espressione far sì che è l’equivalente della costruzione latina facio ut + congiuntivo (usata per le completive esprimenti volontà), ed è ipotizzabile che si sia sviluppata in italiano proprio in seguito alla perdita della congiunzione latina ut, che non ha avuto continuatori né in italiano né in altre lingue neolatine (Herman 1963, Väänänen 1971).
Per rispondere a Simona P. – che chiede spiegazioni circa la natura della subordinata nel periodo “l’allontanamento dalla famiglia fa sì che i giovani sperimentino idee nuove” – possiamo dire dunque che la frase introdotta dal che viene tradizionalmente interpretata come una consecutiva, in cui la presenza del congiuntivo sarebbe giustificata dal carattere probabile del contenuto della subordinata (allontanandosi dalla famiglia i giovani possono sperimentare idee nuove). Ma, a ben vedere, potremmo anche interpretarla come una completiva oggettiva.
Veniamo ora all’uso dei tempi verbali nelle frasi al congiuntivo introdotte da far sì che: è più corretto usare il presente o l’imperfetto? In questo caso, valgono le regole della consecutio temporum. Sia nella frase proposta da Stefano B. (“la disaffezione alla lettura ha fatto sì che si vendano/vendessero sempre meno libri”), sia in quella suggerita da Tiziano S. (“per me è il modo migliore per far sì che preserviamo/preservassimo...”), usiamo il congiuntivo presente nella dipendente se ci riferiamo a uno stato di cose che perdura ancora nel presente e può proiettarsi nel futuro; usiamo l’imperfetto se ci riferiamo invece a una situazione passata.
Nota bibliografica:
Cristiana De Santis
27 giugno 2025
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