Alcuni lettori ci chiedono delucidazioni circa l’uso del sostantivo fregola per indicare un tipico formato di pasta sarda detto tradizionalmente fregula; altri domandano se il termine possa indicare anche l’eccitamento sessuale negli esseri umani.
La parola fregola fa parte del lessico italiano da secoli: attestata fin dal XIII secolo (cfr. TLIO), viene oggi registrata dalla maggior parte dei dizionari italiani con il significato di ‘eccitazione sessuale degli animali che si conclude solitamente con l’accoppiamento e la fecondazione’; e, per estensione, ‘eccitamento, desiderio sessuale’ negli esseri umani; in senso figurato anche ‘smania, frenesia’, del tipo gli è venuta la fregola dello studio (GRADIT). Il primo significato, che si riferisce agli animali, si è sviluppato partendo da ‘lo strusciarsi dei pesci contro le rocce quando depositano le uova’ (GDLI), attestato per la prima volta nel 1494 nelle rime di Agnolo Poliziano (l’edizione consultata è quella del 1863 a cura di Giosue Carducci) e successivamente in un testo seicentesco dell’autore fiorentino Lorenzo Bellini:
Tant’ho scherzato come pesce in fregola / che tu m’hai ’ntinto, Amor, pur nella pegola (Agnolo Ambrogini Poliziano, Le stanze l’Orfeo e le rime, a cura di Giosue Carducci, Firenze, Barbera Editore, 1863, p. 238)
E pesci in questi un po’ men mezzanini / Frullando van, perché ancor l’acqua v’era, / Ed era il tempo dell’andare in fregola / Dietro a qualche lor femmina pettegola. (Lorenzo Bellini, La Bucchereide, Milano, Daelli Editore, 1863, p. 124)
In considerazione della trafila semantica della voce, possiamo quindi rispondere subito in modo affermativo ai lettori che ci chiedono se fregola possa essere usato per indicare uno ‘stato di eccitazione negli esseri umani’. Il GDLI, addirittura, inserisce sotto il significato di “incontenibile concupiscenza, libidine (dell’uomo o della donna [...])” anche le locuzioni andare o entrare o essere in fregola. Di seguito riportiamo alcuni esempi letterari, i primi dei quali risalgono al XVII e XIX secolo, che attestano per l’appunto l’accezione di fregola relativa all’eccitamento sessuale negli esseri umani:
Il tema fu di questa sua lezione / quand’Enea, già fuori del suo pollaio, / faceva andare in fregola Didone, / come una gatta bigia di gennaio (Lorenzo Lippi, Il Malmantile racquistato, Venezia, Giuseppe Antonelli Editore, 1842, p. 32, I ediz. 1676)
Questa pettegola / con i dispetti suoi mi punge e incita, / io vorrei farla per vendetta in fregola / entrar così che fosse poi schernita (Domenico Luigi Batacchi, La rete di Vulcano, vol. II, Siena, Francesco Bocconi, 1779, p. 48)
Non solo aveva l’acquolina in bocca, ma il visibilio in testa e la fregola in ogni fibra (Giovanni Faldella, Sant’Isidoro, Firenze, Vallecchi Editore, 1972, p. 115)
Si slancia in avanti sghignazzando come un satiro in fregola (Scipio Slataper, Il mio Carso, Raleigh, Aonia Edizioni, 2020, p. 36)
Arriviamo all’etimologia della parola fregola. La voce, che deriva dal verbo fregare, ben documentato fin dalle origini dell’italiano (cfr. TLIO), è presente in testi di area toscana (con il significato di ‘capriccio, vizio, comportamento dannoso’) e settentrionale (con quello di ‘piccolo pezzo di cibo, briciola’). Fregare proviene dal verbo latino frĭcāre ‘sfregare, strofinare, stropicciare’, derivato a sua volta da friāre ‘sminuzzare’. Già in latino il verbo frĭcāre aveva assunto il significato di ‘penetrare sessualmente’, soprattutto nella locuzione cunnum frĭcāre ‘sfregare la vagina’, attestato nei graffiti di Pompei (l’Etimologico). La prima attestazione del verbo italiano fregare con il significato relativo all’ambito sessuale si ha nel 1536, in un testo di Pietro Aretino; da questo valore si sarebbe poi originato quello di ‘rubare, sottrarre furtivamente’ (DELI). In realtà, confrontando le attestazioni che riporta il TLIO (Tesoro della Lingua italiana delle origini), ci rendiamo conto che questo secondo significato traslato era presente già nel Decameron del Boccaccio, ossia già dalla seconda metà del Trecento; possiamo allora supporre che l’accezione di ‘unirsi sessualmente’, da cui si è sviluppata quella di ‘fottere’ e poi ‘imbrogliare’, fosse già diffusa prima dell’attestazione dell’Aretino. A questo proposito citiamo Loporcaro, in relazione ai significati del verbo fregare nel romanesco:
Eppure a fine Seicento il significato di ‘congiungersi’ è sentito come romanesco, per questo come per il verbo scopare, dall’estensore del citato Glossarietto dell’Angelica, ove di leggono le definizioni, rispettivamente, di «Negoziare in senso osceno» e «Spolverare in senso osceno» (Baldelli 1952, 171). A tutt’oggi – o almeno sino a ieri l’altro – la famiglia lessicale di fregare, con l’accezione in particolare di ‘imbrogliare’, è più ampia in romanesco che non in italiano [...]. (Michele Loporcaro, Il confine fluido dell’etimologia romanesca e la diacronia del lessico capitolino, in Vincenzo Faraoni, Michele Loporcaro, a cura di, «’E parole de Roma». Studi di etimologia e lessicologia romanesche, Berlin/Boston, De Gruyter, 2020, pp. 67-93, p. 81)
In definitiva, possiamo riassumere così l’etimologia di fregola: dal verbo latino frĭcāre ‘sfregare, strofinarsi’ è derivato il verbo italiano fregare, da cui si è avuto il sostantivo fregola, usato originariamente per indicare ‘lo sfregamento dei pesci sulle rocce per depositare le uova’, da cui il valore figurato di ‘eccitazione sessuale negli animali’, poi estesa agli uomini, e infine per riferirsi genericamente a qualsiasi ‘sensazione di frenesia’.
E il formato di pasta tipico della Sardegna che cosa c’entra? Anzitutto quella che in sardo si dice propriamente fregula, diventata in italiano fregola (per una questione di vocalismo che distingue il sardo dall’italiano), è una pasta che si ottiene sfregando continuamente la semola di grano duro con acqua salata in un recipiente abbastanza ampio di terracotta (la scivedda, ma esistono molti altri nomi) con un movimento circolare, continuo, leggero e di sfregamento, per l’appunto. La parola fregula ha una storia parallela a quella di fregola: entrambi i termini hanno seguito infatti la stessa trafila etimologica. Ecco allora che dal latino frĭcāre ‘sfregare’ è derivato il verbo sardo frigare, da cui si è arrivati al sostantivo fregula, impiegato per indicare la pasta sarda, in quanto ottenuta attraverso uno sfregamento (l’Etimologico; il dizionario etimologico sardo di Wagner riconduce frigare alla varietà logudorese mentre aggiunge le varianti frikare per la Sardegna centrale, frea e frià per il sassarese, frigai per il campidanese, cfr. Nota bibliografica). Alcune fonti su internet riportano come prima attestazione quella in un documento del XIV secolo, lo “Statuto dei Mugnai” di Tempio Pausania, che non mi è stato possibile controllare. Da una ricerca in alcuni dizionari e vocabolari sardi notiamo che la parola fregula, per lo meno originariamente, non era distribuita uniformemente su tutto il territorio dell’isola e sembrerebbe dunque che la sua origine sia da ricondurre al Meridione sardo: anzitutto il Dizionario etimologico di Wagner attribuisce fregula alla sola varietà campidanese (cioè quella più meridionale); inoltre è inserita nel vocabolario di Spano come ‘semolino, semolella, specie di minestra fatta a pallini’; nel Vocabolario logudorese-campidanese italiano di Martelli viene lemmatizzata assieme a fregulada ‘frittata’; nel Vocabolario sardo logudorese-italiano non è registrata (ma è inserito l’aggettivo fregulu con il significato di ‘sensibile, delicato’) e non viene neppure lemmatizzata nel Vocabolario del dialetto e del folklore gallurese di Gana e in quello sassarese di Lanza (cfr. Approfondimento bibliografico).
Facciamo ora una precisazione, per rispondere ai nostri lettori. Con la diffusione della fregula sarda nelle altre regioni italiane, al termine locale con la u si è affiancato quello italianizzato in o, fregola, parola che come abbiamo visto già esisteva in italiano ma con un altro significato. Tuttavia, nessuna delle due varianti viene registrata nei dizionari della lingua italiana. Più precisamente, sotto la voce fregola non viene riportata l’accezione relativa al particolare tipo di pasta proveniente dalla Sardegna, mentre di fregula non abbiamo proprio attestazioni (la consultazione dei vocabolari e dizionari è aggiornata al 3/2/2023). Una mancanza? Forse, se pensiamo che questo formato di pasta è ormai di uso comune su tutto il territorio italiano (tanto da essere stata inserita come ingrediente per le ricette di uno chef di origine settentrionale come Carlo Cracco). Di certo non hanno avuto la stessa fortuna (e non possiamo applicare lo stesso ragionamento) gli altri gastronimi locali con cui si indica in Sardegna la medesima tipologia di pasta (o comunque formati similari): pistitzone e pistizzone, saccu, cuscu sono ancora troppo poco note al di fuori dei confini regionali per poter entrare nel lessico italiano. Il caso di pistizone è interessante perché riprende in parte il significato etimologico di fregula: registrato nel Vocabolario di Spano come minestrino, nel Vocabolario logudorese di Casu con il significato di ‘semolino, minestra a piccoli grani’ (ma in quello di Lanza si parla di ‘grumo di farina che si forma nel pane per cattiva confezione’) e nel Dizionario di Wagner, anche nella variante pistiḍḍone, con quello di ‘minestra di fregola con un paio d’uova’, deriverebbe dal verbo pistiddari ‘pestare, schiacciare’ riferito alla modalità con cui viene formata la pasta. Cuscu, anche nella variante cuscusò, invece deriverebbe dalla voce couscous, adattata alla fonomorfologia sarda: si tratta di un formato di pasta leggermente più piccolo la cui preparazione è simile a quella della fregola ma che in alcuni dizionari viene ritenuta identica tanto che la parola, nel Vocabolario logudorese-campidanese italiano di Martelli viene glossata come ‘sorta di minestra, fregola’. La parola succu, distribuita uniformemente su tutta l’isola (registrata quindi nel campidanese, logudorese, nuorese, gallurese e sassarese) viene lemmatizzata dai vari vocabolari e dizionari sardi con i significati di ‘minestra fatta in casa di puro semolino, in generale con l’aggiunta di lardo’ (Wagner), ‘semolino’ (Casu; Spano), ‘pasta casalinga che corrisponde grosso modo alla pasta grattata dei romani’ (Gana), ‘specie di minestra per brodo a piccole palline’ (Lanza) e più genericamente ‘sorta di pasta casalinga (Martelli). Stando a Wagner potrebbe derivare dal catalano suc, che indica la salsa con cui viene condita questa tipologia di salsa. Secondo Wagner da succu deriverebbe il verbo logudorese assukkare, issukkare ‘stritolare, sminuzzolare’ “come si fa col semolino”. Da alcune ricerche su internet, però, sembrerebbe che la parola designi anche un formato di pasta molto differente: finissimi tagliolini che possono essere serviti in brodo o con una salsa di accompagnamento. Con i gastronimi, del resto, si entra in un terreno molto complesso visto che ogni paese e addirittura ogni famiglia ha una propria ricetta, che può variare notevolmente da posto a posto, per ogni pietanza.
Torniamo ora a fregola: ci risulta riduttivo pensare che il motivo che ha portato in molti casi a far combaciare fregula a fregola, cambiando quindi la u in o, sia soltanto la presenza di un vocabolo italiano morfologicamente molto simile a quello sardo. Infatti, il meccanismo che abbiamo appena descritto, cioè la parallela e autonoma derivazione del termine italiano fregola e del sardo fregula dal verbo fregare, riguarda anche parole appartenenti ad altre varietà linguistiche italo-romanze, i cui significati a volte si avvicinano a quello relativo all’ambito del comportamento umano, altre volte all’ambito gastronomico. Facciamo alcuni esempi: in veneto sfregole (con l’aggiunta del suffisso intensivo s-) significa ‘moine’; così come nella varietà valtellinese frigola, in quella friulana fregul e frègule; nel dialetto di Molfetta frégle significa ‘briciola, minuzzolo’, così come pure nella varietà di Moena (in Trentino) e nel polesine frégola, nell’irpinese frécola, nel dialetto di Montella (in provincia di Avellino) frikolo. Ricordiamo anche che è tipica del Trevigiano la torta fregolotta, una sorta di torta sbrisolona, la cui copertura si ottiene sfregando con le mani la frolla fino a ridurla in briciole. Come abbiamo visto, nelle varietà appena elencate (presenti nelle postille di Faré al REW ma pensiamo ce ne siano anche delle altre) si sono evolute, parallelamente e sempre dal verbo fregare, sostantivi simili all’italiano fregola e con il significato di ‘briciola’, ossia il frutto di uno sfregamento. Nella maggior parte di questi casi, poi, si ha la o anziché la u, e ciò può aver contribuito al meccanismo che ha portato fregula a diventare fregola, visto che nella maggior parte delle varietà italiane esistono forme simili che riportano la o al loro interno; inoltre può aver influito la presenza, in italiano, del suffisso -olo.
Ad ogni modo la parola nella sua forma originaria sarda, ossia fregula, presenta una forte incidenza sia su Internet che sui giornali: su Google “fregula” restituisce ben 46.600 risultati, sulla “Repubblica” 53 (con la prima attestazione del 1996), nell’Archivio storico del “Corriere della Sera” 70 (con prima attestazione risalente al 1968), nell’Archivio storico della “Stampa” 29 (la prima attestazione è del 1971). La preferenza verso il termine marcato in senso localistico, rispetto a quello italiano (in questo caso in riferimento a un cibo), può essere senz’altro spiegata con la tendenza a voler conservare un legame più stretto tra la parola e il territorio da cui proviene il prodotto, il richiamo cioè a una produzione tradizionale locale, più propensa alla conservazione e al recupero dei prodotti tradizionali, che passa anche attraverso l’uso della denominazione dialettale. Vediamo le due attestazioni più vecchie, risalenti agli anni Sessanta del secolo scorso:
Fra tante minestre cariche di sapori, di colori, di stuzzicantissimi inviti – la cucina italiana, lo sappiamo, è soprattutto il regno delle minestre, delle paste – il concorrente sardo, “Sa spendula” di Villacidro, ha messo in gara la sua «fregula pasqualina» che è semplice, mediterranea, contadina: ma incanta il palato con rustica dolcezza. Si tratta semplicemente di granelli fatti mescolando insieme semola più grossa e semola più fine, strofinando (ma ci vuole un’arte antica nelle dita) questo composto in un recipiente svasato, con l’aiuto di poca acqua in cui sia stata sciolta una punta di zefferano: questa «fregula», che è parente stretta del «cuscusu» [sic] siciliano, del «cuscussù» nordafricano (la cucina mediterranea ha caratteri comuni, ovunque, che ancora devono essere studiati a fondo) si cuoce nel brodo di carne, si condisce col famoso pecorino sardo. (Vincenzo Buonassisi, Vince la cucina pugliese, “Corriere della Sera”, ediz. “Corriere milanese”, 18/10/1968, p. 8)
Minestra Cocciuta [...] Si mette sul fuoco, e all’inizio della friggitura si buttano dentro le arselle. Appena queste con il calore si aprono, ci si aggiunge il prezzemolo ben tritato, con acqua quanto basta per reggere la fregula, cioè la semola di grano duro cotta in una conca di coccio aggiungendovi l’acqua a poco a poco e quindi messa al forno per abbrustolirsi. (Adele Gallotti, Il Maigret della cucina, “Stampa sera”, 12-13/6/1971, p. 3)
Dunque il sardismo fregula, oltre ad avere oggi un numero considerevole di occorrenze su Internet e sui giornali, cominciava a essere inserito nei testi in lingua italiana già dalla seconda metà del Novecento: per questi motivi si tratta a tutti gli effetti di un localismo di origine sarda entrato nel lessico italiano, così come è accaduto a tante altre parole appartenenti alla gastronomia e registrate ormai da tempo sui dizionari italiani; si pensi ai vari agnolotto, maccherone, panzerotto, supplì, arancino (o arancina), solo per citarne alcuni. Prendiamo atto dunque di questa lacuna lessicografica e speriamo che in un futuro prossimo breve la parola fregula (magari insieme alla variante fregola) possa comparire nelle nuove edizioni dei dizionari italiani, rincuorandoci del fatto che non solo parole inglesi entrano a far parte del repertorio lessicale italiano ma anche termini che rimandano alle tradizioni locali, tra le quali spicca senz’altro quella della cucina regionale.
Nota bibliografica:
Miriam Di Carlo
28 luglio 2023
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