Sono arrivate alla nostra redazione molte domande che riguardano i nomi con cui si possono indicare particolari fobie o avversioni (avversione per il formaggio, per la barba, paura della povertà, dell’altitudine, delle cavità…).
Il concetto di fobia è solitamente associato a quello di paura, spavento, terrore, panico, ma ciascuno di questi termini designa un diverso tipo di sensazione: la fobia può essere definita come una paura accompagnata da un senso di angoscia che viene “destata da una determinata situazione, dalla vista di un oggetto o da una semplice rappresentazione mentale che, pur essendo riconosciuta come irragionevole, non può essere dominata e obbliga il malato a un comportamento teso a evitare o a mascherare la situazione paventata” (Dizionario di Medicina, Treccani, 2010).
I principali dizionari italiani registrano due entrate per fobia: il sostantivo femminile fobia e il suffissoide -fobia. Il sostantivo fobia possiede sia il significato specialistico, relativo all’àmbito della psicologia, della psicoanalisi e della psichiatria, di ‘paura angosciosa, irrazionale, immotivata e a carattere patologico, per una situazione, un oggetto o una persona’, sia, per estensione, quello comune di ‘avversione istintiva o forte intolleranza per qualcuno o qualcosa’ (“ho una fobia per questo genere di serate”). Il suffissoide -fobia, dal greco -phobía, da phóbos ‘timore’, viene usato col significato di ‘paura, avversione, ripugnanza’ come secondo elemento (che funge da testa) sia in composti greci (alcuni dei quali entrati in italiano e in altre lingue attraverso il latino) sia in parole formate modernamente, che hanno come primo componente un altro prefissoide, per lo più tratto anch’esso dal greco, direttamente o indirettamente. Come si vedrà, sono rare le neoformazioni con elementi tratti dal latino o da parole moderne e rarissime quelle con più componenti; alcune voci ricalcano parole inglesi o spagnole.
Fobia e -fobia
Il termine fobia deriva appunto da -fobia, entrato in italiano prima come elemento di composti derivati dal latino o dal greco, per poi divenire (probabilmente sul modello del francese phobie) una forma indipendente, in particolare dalla parola idrofobia (dal latino hydrophobĭa, a sua volta dal greco hydrophobía, composto da hydro- ‘idro’ e -phobía ‘fobia’, letteralmente ‘paura dell’acqua’; il termine è usato già dai medici greci e latini, come Dioscoride e Celso, in riferimento al sintomo più caratteristico della rabbia), che è infatti attestata in italiano e in varie lingue europee fin dal XV secolo (1494 in italiano, 1547 in inglese, XVII secolo in francese), prima per indicare il sintomo, poi, per estensione, la malattia stessa.
A partire dal primo Ottocento iniziano a comparire in italiano (così come in francese e in spagnolo) anche altri composti con -fobia, come aerofobia, fotofobia, igrofobia, panofobia e pantofobia. Resta comunque presente un legame tra queste paure e la suddetta malattia, anche se, come si evince dagli esempi che seguono, c’è ancora una qualche incertezza su quale sia l’effettivo referente della voce idrofobia; come sottolinea uno degli autori, la rabbia è infatti “imperfettamente designata con questi differenti nomi”, tanto più che tale fobia può esistere anche come manifestazione indipendente dalla malattia.
La rabbia porta seco un’orrore [sic] e un’avversione all’acqua, e perciò è stata chiamata Hydrofobia. Ma si da [sic] però Idrofobia senza rabbia […]. Ordinariamente i rabbiosi aborriscono il vino, e gli altri liquidi ugualmente che l’acqua, la luce gli agita, e gli fa male, e lo specchio gli mette in furore. Alcuni soffrono molto da qualunque moto d’aria, cosicché all’Idrofobia si unisce anche l’Areofobia. Finalmente alcuni altri si agitano, e si scuotono, e hanno orrore per qualunque cosa nuova, e per qualunque mutazione, cosicché in questi si può dire che vi sia la Pantofobia. (Francesco Vaccà Berlinghieri, Codice elementare di medicina pratica sanzionato dall’esperienza, tomo II, Venezia, Giustino Pasquali q. Mario, 1800, pp. 69-70)
L’autore di questa Dissertazione s’impegna di provare che l’affezione morbifica che si chiama comunemente Rabbia-Idrofobia o Igrofobia, è imperfettamente designata con questi differenti nomi (recensione a Gaspard Girard, Saggio sul tetano rabbioso, o ricerche e riflessioni sopra la cagione degli accidenti, che son talora la conseguenza dei morsi fatti dagli animali rabbiosi, seguite da qualche notizia sù i mezzi di prevenire, o guarire questa malattia, in “Nuova biblioteca analitica di scienze lettere ed arti”, vol. II, 1816, p. 264)
Nel Dizionario etimologico di Bonavilla e Marchi (1819-21) troviamo, oltre alle forme già citate, anche eliofobia, emofobia, necrofobia, pirofobia, sciautofobia. “Ma la grande fioritura di questi composti si ha tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, parallelamente agli sviluppi della nosografia psichiatrica: citerò agorafobia, cinofobia, claustrofobia, ereutofobia, lissofobia, tafofobia, tanatofobia” (Serianni 1983, p. 350).
Sono gli anni in cui iniziano le prime sistematizzazioni nosografiche, ovvero i primi tentativi di classificazione dei processi morbosi; non stupisce, dunque, la presenza nelle riviste di psichiatria dell’epoca di tutta una serie di composti con -fobia, alcuni dei quali di recente coniazione. Si attribuiscono, ad esempio, ad Andrea Verga – fondatore, nel 1864, assieme a Cesare Castiglioni e Serafino Biffi del periodico “Archivio italiano per le malattie nervose e alienazioni mentali” (a cui collaborano anche gli alienisti Carlo Livi e Cesare Lombroso) e ai quali si deve, soprattutto, la nascita della psichiatria come disciplina autonoma e riconosciuta in Italia – i termini claustrofobia ‘paura dei luoghi chiusi’ (1878; questo disturbo era già stato individuato nel 1877 dallo psichiatra Antigono Raggi, che l’aveva chiamato clitrofobia), rupofobia ‘paura morbosa di sporcarsi’ (1880; William A. Hammond la chiama invece misofobia, 1879) e acrofobia ‘paura delle altezze’ (1887), di cui peraltro lo stesso medico soffriva. È invece del medico Oscar Giacchi la voce virifobia ‘avversione morbosa verso il sesso maschile’ (1880), di Bernardo Salemi Pace oicofobia ‘angoscia morbosa per la propria casa e la propria vita familiare’ (1881) e di Federico Venanzio teratofobia ‘paura dei mostri’ (1891).
Nel Trattato di medicina curato da Charcot, Bouchard e Brissaud (1897), Gilbert Ballet dedica un capitolo alle Psicosi, proponendo una classificazione delle fissazioni o ossessioni. L’edizione italiana di questa sezione dedicata alle psicosi, a cura di Fabrizio Maffi e Vittorio Colla, è arricchita con molte aggiunte da parte di Enrico Morselli (allievo di Livi), che propone in una nota una ripartizione delle fobie in sei sottotipi:
Nonpertanto [sic] si potrebbero fare sei subvarietà di paranoia rudimentaria emotiva: 1° le paure relative al contatto od all’azione nociva possibile di oggetti materiali esterni (pselafobie); 2° quelle riguardanti i luoghi e le posizioni del corpo nello spazio (topofobie); 3° quelle svegliate dai rapporti di convivenza cogli altri uomini o cogli animali (biofobie); 4° quelle che concernono i possibili nocumenti indotti dalle forze naturali o dall’ambiente cosmotellurico (periecofobie); 5° quelle che si riferiscono a certe funzioni normali dell’organismo (fisiofobie); 6° infine, quelle relative a possibili malattie o lesioni disintegrative dell’organismo stesso (patofobie). (Gilbert Ballet, Le psicosi, traduzione italiana di Fabrizio Maffi e Vittorio Colla riveduta ed arricchita di Aggiunte e di Note dal Prof. Enrico Morselli, in Jean-Martin Charcot, Charles Jacques Bouchard e Édouard Brissaud, Trattato di medicina, vol. VI, 3, Torino, UTET, 1897, p. 318)
Morselli quindi non solo conia diversi nuovi nomi di fobie, ma propone anche, con tali denominazioni, sei iperonimi, all’interno dei quali possono essere incluse tutte le altre paure.
È proprio in tale periodo che, parallelamente, la voce fobia si stacca dai composti, divenendo una forma indipendente. La lessicografia data la forma francese phobie 1880 e quella italiana fobia 1899; l’inglese phobia risulta invece registrata già nel 1801. La prima attestazione italiana indicata dai dizionari fa riferimento al volume di Luigi Ferrio Terminologia clinica (Torino, UTET, 1899, p. 100). In realtà, una ricerca in Google libri e negli archivi di riviste di ambito medico, in particolare psichiatrico, consente di rintracciare molte occorrenze precedenti al 1899 e, dunque, di retrodatare di qualche anno la prima attestazione italiana di fobia nel suo significato specialistico. Il primo esempio individuato è del 1891 e si trova nella rivista “Il manicomio moderno”:
Il Meynert, in una dotta dissertazione intorno alle idee fisse ha proposto che vengano soppressi una volta per sempre i termini specifici delle fobie, per comprenderli tutti nel vocabolo panfobia. (Federico Venanzio, La teratofobia. Contributo allo studio della paranoia rudimentale, “Il manicomio moderno”, VII, 1891, p. 20)
Per quanto riguarda le attestazioni in ambito lessicografico, il primo a registrare il termine è Alfredo Panzini, nel Dizionario moderno del 1905, che lo marca come “neologismo scientifico”. Nel 1905 si ha anche la prima occorrenza, in Fogazzaro, del sostantivo fobia nel significato comune di ‘forte avversione’:
Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. (Antonio Fogazzaro, Il Santo, Milano, Baldini e Castoldi, 1905, p. 317)
-fobo e fobico
Fin dal XVIII secolo il suffissoide -fobia aveva iniziato a generare aggettivi in -fobo (ad esempio idrofobo). «Questo elemento, che non continua direttamente il sostantivo greco phobos [come invece è indicato dai dizionari sincronici ed etimologici, ndr], ma è risultato di parole composte con -fobia, non ha avuto vita autonoma, ma l’ha acquistata quando si è dotato del suffisso -ico, già greco e poi latino […]. Infatti, una volta che da -fobia si è ricavato il s. f. fobia, ecco nascere l’aggettivo fobico, attestato non a partire dagli anni Cinquanta (secondo i dizionari), ma fin dal 1904, in un saggio raccolto nella “Rivista di patologia nervosa e mentale” (fonte: Google libri); seguito a breve dalla sostantivizzazione (in Rubè di G. A. Borgese, 1921: “Un nevrastenico, un fobico”)» (Manfredini 2009).
È in realtà possibile retrodatare ancora di qualche anno le prime occorrenze dell’aggettivo fobico, anche in funzione di sostantivo. Diversi articoli apparsi su riviste di area medica tra il 1894 e il 1896 citano infatti l’abasia fobica come altra denominazione della basofobia ‘paura di restare in piedi o di camminare’. Riportiamo uno dei primi casi rintracciati, in cui si nota la produttività del suffisso -ico (astatico, abasico, fobico):
L’infermo, dice l’A., non è astatico, perché egli si tiene bene in piedi, e poi è abasico con una gamba sola ed in date circostanze; egli è abasico per un’apprensione, vale a dire per l’idea che non può camminare affatto in istrada, dunque per paura, per fobia, è affetto cioè da baso-fobia, o abasia fobica. (Alfonso Calabrese, recensione a Joseph Grasset, Basofobia o abasia fobica in un omiplegico [Basophobie on abasie phobique chez un hèmiplegique, “Semaine médicale”, 46, 1894], “Giornale internazionale delle scienze mediche”, XVI, 16, 1894, p. 628)
Negli stessi anni è documentato anche l’uso sostantivato dell’aggettivo fobico:
Ond’egli ritiene i fobici come una «nazionalità distinta» […] E quindi che maraviglia, come dicevo di sopra, che i fobici siano ordinariamente individui semplicemente nervosi, e non punto nevrastenici? (Giovanni D’Ajutolo, Della grafo- e specialmente della ipografo-fobia, “Memorie della R. Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna”, vol. V, 1895-96, pp. 552-553)
La lessicografia tarda invece la registrazione sia del suffissoide atono -fobo sia dell’aggettivo fobico (per approfondimenti su -fobo e -fobico si rimanda a Manfredini 2009 e Giovanardi 2018). I primi dizionari a lemmatizzare le due voci sono il Devoto-Oli (1967) e lo Zingarelli (1970); altri, come il Palazzi-Folena (1974) o il De Felice-Duro (1974), registrano soltanto -fobo, mentre il GDLI mette a lemma esclusivamente fobico.
Altre formazioni con fobia
Oltre ai composti formati con il suffissoide -fobia, che designano i nomi specifici delle paure, esistono anche tre termini creati a partire dal sostantivo fobia, più recenti e tutti registrati esclusivamente nel Supplemento 2009 del GDLI e nel GRADIT (2007). Uno, in cui fobia è usato come prefissoide (affiancato dal suffissoide -geno ‘che è causa di’), è l’aggettivo fobigeno, tecnicismo di àmbito psicologico e psicanalitico che fa riferimento a qualcosa ‘che genera fobie (un oggetto, una situazione)’, la cui prima occorrenza si trova, secondo il GRADIT, nel saggio Fobie di Jacqueline Amati Mehler, in Trattato di psicoanalisi a cura di Antonio Alberto Semi (Milano, Cortina editore, 1988-1989).
C’è poi il sostantivo femminile parafobia, derivato di fobia con il prefisso para- (che nelle terminologie scientifiche assume il valore di ‘quasi, simile’), termine usato in psicologia e psicoanalisi con il significato di ‘paura di lieve entità’ o di ‘esitazione a compiere un atto’; il GRADIT lo data 1976.
Appartenente al medesimo ambito è il sostantivo femminile controfobia, che indica la “ricerca ossessiva da parte del soggetto fobico della situazione di cui ha o ha avuto paura” (GRADIT, che lo data 1992). Nel Supplemento 2009 del GDLI è registrato anche l’aggettivo controfobico, con la definizione “che è proprio, che riguarda la controfobia; improntato a controfobia”.
Un corpus di fobie
Per rispondere alle numerose domande dei lettori propongo un elenco dei nomi specifici delle fobie rintracciati consultando dizionari sincronici e storici dell’italiano, dizionari specialistici di medicina, psichiatria, psicologia, psicoanalisi (per i quali rimando alla nota bibliografica), letteratura scientifica (glossari, manuali, trattati, riviste), glossari e raccolte di fobie individuate in rete. Ne risulta un corpus di 666 forme, di cui soltanto 229 registrate dalla lessicografia italiana (circa il 34%) come termini specialistici.
Ho anche tentato di classificare le fobie individuate a seconda della fonte della paura, facendo riferimento ai sottotipi indicati dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), pubblicato dall’American Psychiatric Association e ormai giunto alla quinta edizione revisionata (DSM-5TR®, 2023), che, insieme alla Classificazione statistica internazionale delle malattie delle lesioni e delle cause di morte (ICD), elaborata dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), costituisce un punto di riferimento per la diagnosi e la classificazione dei disturbi mentali. La categorizzazione risultante è la seguente:
Il gruppo “altro”, che risulta quello più rappresentato e più vario, è stato a sua volta suddiviso in sottotipi (in neretto le voci oggetto di domanda da parte dei nostri lettori):
Interessanti, a mio parere, il gruppo delle fobie “matematiche” e quello delle paure legate al linguaggio. Nessuna delle fobie matematiche è registrata dalla lessicografia, anche se i termini risultano ben attestati in rete e nei quotidiani. La paura dei numeri è indicata da due vocaboli: aritmofobia, formato sulla base greca arithmós ‘numero’, e numerofobia, composto di numero, che deriva dal latino numeru(m). Si chiama invece matofobia la ‘paura, avversione per la matematica’ (calco dell’inglese math phobia, composto dalla forma colloquiale math(ematics), che corrisponde all’abbreviazione italiana mate(matica) e phobia ‘fobia’). Il termine matofobia è segnalato nel repertorio Treccani Neologismi scienze sociali e storia (a cura di Silverio Novelli, 2016).
Esistono poi fobie associate a numeri specifici, spesso legate a superstizioni o credenze religiose: ad esempio, la hexakosioihexekontahexafobia è la ‘paura del numero 666’, generalmente ritenuto “il numero della bestia” (cfr. Nuovo Testamento, Apocalisse 13, 18). Il nome deriva dal greco hexakósioi ‘seicento’, hexḗkonta ‘sessanta’ e héx ‘sei’. Sono connesse a superstizioni popolari l’eptacaidecafobia ‘fobia del numero 17’ (dal greco eptacaideca ‘diciassette’) e la triscaidecafobia ‘paura del numero 13’ (calco dell’inglese triskaidekaphobia, dal greco triscaídeka ‘tredici’, coniato dallo psichiatra americano Isador Coriat nel 1910), in particolare abbinate al giorno di venerdì, la cui associazione risulta sinonimo di sfortuna (e infatti esiste anche la ‘fobia per il venerdì 13’, la parascevedecatriafobia, dal greco paraskeuḗ/paraskevi ‘venerdì’, termine attribuito allo storico del folklore Donald E. Dossey). Troviamo inoltre la tetrafobia ‘paura, avversione per il numero 4’ e l’octofobia ‘paura, avversione per il numero 8’, rispettivamente composti di tetra ‘quattro’ e octo ‘otto’. Il 4 è considerato un numero sfortunato soprattutto nei paesi asiatici, come Cina, Giappone, Corea, dato che in tali lingue la parola quattro ha assonanza con la parola morte.
Tra tutti i nomi delle fobie, la citata paura del numero 666 risulta tra quelli più lunghi (al secondo posto con 28 lettere); al primo posto, con 33 lettere, troviamo una fobia piuttosto particolare, l’hipopotomonstrosesquipedaliofobia, ovvero la ‘paura di leggere o pronunciare parole lunghe’ (talvolta anche nella variante con il raddoppiamento della prima p). Tale paura è conosciuta anche come sesquipedaliofobia. L’aggettivo sesquipedale deriva dal latino sesquipedāle(m) ‘di un piede e mezzo’ ed è formato dal confisso sesqui- (propriamente ‘mezzo in più’), che fa riferimento a qualcosa ‘che è in rapporto di tre a due’ (dunque è pari a 1,5), e da pedalis ‘della lunghezza di un piede’. Il vocabolo, ormai obsoleto, indica qualcosa ‘che misura un piede e mezzo’ e, in particolare nella metrica latina, fa riferimento a una ‘parola che ha la lunghezza di un piede e mezzo’. Per estensione, indica anche uno ‘scritto, discorso, ecc. esageratamente lungo e altisonante’. Se il termine sesquipedaliofobia designa dunque la paura relativa alle parole lunghe, la scelta di aggiungere hippopotomonstro (dal latino hippopotamu(m) ‘ippopotamo’ e mōstru(m) ‘mostro’) potrebbe aver avuto, almeno originariamente, una valenza ironica.
La fobia delle parole lunghe rientra in quelle che sono definite logofobie (dal greco lógos ‘parola’), iperonimo che include tutte le denominazioni legate alla paura ingiustificata delle parole e del loro utilizzo (in rete è possibile trovare, con lo stesso significato, anche la forma minoritaria verbofobia, dal latino verbu(m) ‘parola’). Nel dettaglio, risultano attestate in rete le forme: elenologofobia ‘paura della terminologia scientifica e dei termini greci’, scriptofobia ‘paura di scrivere, in particolare di scrivere in pubblico’, glossofobia ‘paura di parlare in pubblico’, xenoglossofobia ‘paura delle parole straniere’, papirofobia ‘paura della carta, delle parole scritte su carta’ (composto di papiro nel suo significato di ‘carta per scrivere’), metrofobia ‘paura, avversione per la poesia’, che fa riferimento in particolare alla paura degli schemi metrici.
Sembrerebbe invece essere immaginaria l’aibofobia ‘paura dei palindromi’. Il termine, che è esso stesso un palindromo, circola nella nostra lingua almeno dai primi anni 2000, attribuito a Stefano Bartezzaghi (2003); in realtà è stato modellato sull’identico termine inglese, coniato scherzosamente dal cantante e informatico Stan Kelly-Bootle, che lo ha inserito nel suo The Devil’s DP Dictionary (New York, McGraw-Hill, 1981, p. 8).
Per quanto riguarda invece la lessicografia italiana, risultano registrati bibliofobia ‘avversione per i libri’, grafofobia ‘avversione allo scrivere’, marcato dai dizionari come voce scherzosa con l’accezione ‘avversione allo scrivere lettere’, lalofobia ‘paura di parlare’, onomatofobia ‘fobia ossessiva per determinati nomi o parole’. Non è messo a lemma dai dizionari, ma è presente nel repertorio di Neologismi 2008 di Treccani il termine dialettofobia ‘avversione nei confronti dei dialetti’, attestato per la prima volta nel 1963 (cfr. D’Achille 2020, che segnala anche dialettofobico, documentato dal 1977).
Considerazioni generali
Proviamo ora a ricavare qualche considerazione più generale. Come risulta anche dagli esempi riportati in questo lavoro, la quasi totalità dei nomi risulta formata dall’aggiunta del suffissoide -fobia a un elemento di base greca. Non mancano tuttavia le parole composte con prefissoidi di origine latina, come i citati claustrofobia e virofobia, vertigofobia (‘paura morbosa di essere colpiti da vertigine’, dal latino vertigo ‘vertigine’) e anuptofobia (‘paura morbosa di non riuscire a sposarsi’, composta dal prefisso greco a- con valore privativo, dal latino nuptus, participio passato di nubĕre ‘sposarsi’). In alcuni casi, le voci che derivano dal latino hanno sinonimi attestati da tempo di origine greca: ad esempio, nictofobia (composto con il prefisso nicto- ‘notte, oscurità’, dal greco nýx; variante nictifobia), documentato dal 1899, e noctifobia (dal latino nocti- ‘notte, oscurità’, cfr. nox, noctis), attestato dal 1976.
Quanto alle forme originate da altre lingue, il GRADIT è l’unico a lemmatizzare il sostantivo peladofobia (‘timore morboso della calvizie’, 1976), composto del francese pelade ‘calvizie’; il Devoto-Oli mette a lemma aporofobia ‘avversione, nei confronti dei poveri, della povertà’ (2017), prestito integrale dallo spagnolo, in cui è stato coniato dalla filosofa Adele Cortina, formato con l’aggettivo greco áporos ‘bisognoso, povero’. Tra i prestiti integrali dallo spagnolo c’è anche turismofobia ‘ostilità nei confronti del turismo, particolarmente quello di massa’ (registrato nel repertorio di Neologismi 2018 di Treccani). Presentano invece la base inglese alcune formazioni più recenti come nomofobia (‘paura di rimanere senza telefono cellulare, di non essere raggiungibili’, dall’inglese nomophobia, formato da no-mo(bile) ‘senza cellulare’ e phobia ‘paura’; attestato in italiano dal 2008) e disposofobia (‘paura ossessiva di disfarsi dei propri oggetti, indipendentemente dalla loro utilità, accompagnato dal bisogno patologico di accumularne sempre di più’, dall’inglese disposophobia, a sua volta composto con il verbo (to) dispose (of) ‘disfarsi di qualcosa, buttare via’; datato 2010). Derivano dall’inglese anche altri sostantivi, non registrati dalla lessicografia: oltre al già citato matofobia, counterfobia (calco dall’inglese counterphobia, composto di counter ‘contrario, opposto’), che fa riferimento al ‘piacere che prova il soggetto fobico nel ricercare situazioni che lo spaventano’ e che si va ad affiancare alla forma italiana (attestata dal 1993) controfobia; mixofobia ‘paura, rifiuto dell’amalgama, della mescolanza tra culture, modi di pensare e di essere diversi’, adattato dall’inglese mixophobia, che deriva a sua volta dal verbo (to) mix ‘mescolare, mischiare, miscelare’ (2005); robofobia ‘paura nei confronti dei robot, dei droni e, più in generale, dell’intelligenza artificiale’, calco dall’inglese robophobia, composto di robot (la nascita del sostantivo robophobia si fa risalire a The Robots of Death, quinto film della serie televisiva di fantascienza britannica Doctor Who).
Si rileva la presenza di più denominazioni per indicare le medesime paure. Ad esempio, per esprimere il concetto di ‘paura di tutto’ sono usati i vocaboli pantofobia e polifobia, entrambi registrati dai dizionari, ma anche panofobia (variante panfobia) e omnifobia, assenti dalla lessicografia ma attestati in rete. Oppure, è possibile individuare quattro forme per designare la ‘paura del dolore’: algofobia ‘paura del dolore fisico’, chiamata in rete anche agliofobia (entrambe riconducibili alla radice álgos ‘dolore’), odinofobia (‘paura morbosa del dolore’, dal greco odýnē ‘dolore’, 1905), ponofobia (‘paura morbosa del dolore, della fatica o del lavoro in genere’, dal greco pόnos ‘fatica’, 1976).
Si trovano quattro sostantivi anche per fare riferimento alla paura delle altezze o del vuoto: acrofobia (‘paura morbosa delle grandi altezze, timore di cadere nel vuoto’, composto di acro- ‘punto più in alto’, dal gr. akro- da ákros ‘estremo’, 1887), batofobia (‘paura morbosa della profondità o del vuoto; paura di cadere dall'alto’, composto di bato- ‘profondità’, dal greco báthos, 1988), cremnofobia (‘paura dei precipizi, del vuoto’, dal greco krēmnós ‘precipizio’, 1951), a cui si aggiunge altofobia ‘paura delle altezze, dell’altitudine’, rintracciato in rete.
Anche nelle zoofobie è possibile trovare alcune forme sinonimiche. La paura dei gatti conta quattro designazioni diverse: ailurofobia (composto di ailuro-, dal greco aílouros ‘gatto’, 1970), elurofobia (variante di ailurofobia, con cui condivide la radice), galeofobia (dal greco galeós propriamente ‘donnola’, 1976), gatofobia (si tratta probabilmente di un ispanismo, formato con gato ‘gatto’).
Come notato da Serianni (2005), se si mettono a confronto i dati relativi ai composti con -fobia presenti nei dizionari dell’italiano con quelli rintracciabili nei volumi scientifici, emerge che la terminologia medica è nella lessicografia sovradimensionata rispetto all’uso effettivo da parte degli specialisti. Risultano infatti registrati 229 nomi di fobie (lo Zingarelli ne accoglie 78, il Devoto-Oli 82, il Vocabolario Treccani online 88, il GDLI 101, il GRADIT 212), mentre nei dizionari medici i numeri sono piuttosto ridotti: tra gli strumenti consultati, Ferrio (1917) risulta il volume che ne lemmatizza il maggior numero, includendo 58 composti.
Serianni propone due motivazioni per spiegare la scarsa presenza di tali tecnicismi nei testi specialistici: prima di tutto “la fonte fobica è per lo più indifferente per orientare la terapia; dunque è scarsamente economica una parcellizzazione terminologica esasperata” (p. 206). Oggi medici e psichiatri preferiscono parlare semplicemente di fobie o sintomi fobici. La seconda ragione è di tipo linguistico: “col declino della cultura classica […] alcune componenti di limitata produttività rendono oscuri molti composti a base greca, contribuendo a comprometterne una possibile diffusione” (ibid.). Serianni suggerisce come esempio la poca trasparenza del prefisso ailuro- ‘gatto’, di bronto- ‘tuono’ che richiama subito alla mente il noto brontosauro e di miso-, che viene associato a mísos ‘odio, avversione’ (cfr. misantropo, misogino) più che a mýsos ‘sporcizia’ (la misofobia è appunto la ‘paura di sporcarsi’). Ma molte altre voci potrebbero generare ambiguità: si pensi ad amicofobia, che indica la ‘paura morbosa di essere graffiati’ (dal greco amychḗ ‘graffio’) oppure climafobia, che fa riferimento alla ‘paura morbosa di salire o scendere le scale’ (dal greco klîmax ‘scala’).
Resta tuttavia vitale il processo derivativo innescato da questi tecnicismi medici; «di esso si appropriò, con intenti non denotativi ma fortemente emotivi, il linguaggio politico europeo alla fine del secolo scorso. Da allora si sono diffuse, un po’ in tutte le lingue europee, formazioni come anglofobia e francofobia (con anglofobo e francofobo) nel senso di “ostilità irrazionale e pregiudiziale verso Inglesi e Francesi o verso tutto ciò che è inglese e francese”» (Serianni 1983, p. 351).
Grazie anche all’influsso dell’inglese -phobia, oggi il suffisso -fobia risulta ancora vitale e produttivo, soprattutto in questo significato estensivo di ‘avversione, intolleranza nei confronti di qualcuno o qualcosa’. Possiamo verificare tale tendenza grazie a un’analisi della distribuzione cronologica dei termini raccolti, con particolare riferimento a quelli formati più recentemente. Abbiamo considerato i 229 composti registrati dalla lessicografia italiana, più una decina di formazioni non censite dai dizionari ma segnalate dai repertori di Neologismi della Treccani (2008, 2018, 2022); nel caso in cui i dizionari abbiano riportato una diversa data di attestazione, si è presa quella più antica. La ripartizione cronologica delle 240 forme risulta la seguente:
Dei 27 vocaboli coniati nel periodo successivo al 2000, ben 17 designano ‘avversione, intolleranza’ nei confronti degli stranieri o di chi è diverso (aporofobia, mixofobia, turcofobia, turismofobia, russofobia), dei vari orientamenti sessuali (bifobia, transfobia, lesbofobia, omotransfobia, omolesbobitransfobia), di varie ideologie o credenze religiose (cattofobia, cattolicofobia, cristofobia, vegefobia, vegafobia) o in riferimento all’aspetto di altre persone (obesofobia, grassofobia).
Infine, una curiosità: per quanto riguarda i 167 composti attestati nella nostra lingua nel corso del Novecento, ben 93 risultano comparire nel 1976. Benché non sia possibile identificarne con certezza le ragioni, possiamo ipotizzare che sia dovuto almeno in parte al fatto che in tale anno si sia tenuto il secondo Congresso nazionale di Psichiatria democratica ad Arezzo o che siano state pubblicate traduzioni italiane di opere che trattano (anche) le fobie, come Gianni Donati, Giuseppe Zappone, Ossessioni e fobie: nuove prospettive terapeutiche, Milano, Geigy, 1976; Siegmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi (Opere, vol. VIII), Torino, Boringhieri, 1976; Elisabeth Zetzel, W. W. Meissner, Psichiatria psicoanalitica, Torino, Boringhieri, 1976. Un’altra fonte potrebbe essere la pubblicazione, sempre nel 1976 (ma in inglese), del volume The People’s Almanac, curato da Irving Wallace e David Wallechinsky, nel quale il lessicografo Robert Hendrickson stila un elenco di fobie, coniando tra l’altro il nome arachibutyrophobia (in italiano arachibutirofobia), cioè la ‘paura che il burro di arachidi possa attaccarsi al palato’.
Nota bibliografica:
Lucia Francalanci
30 settembre 2024
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Avvisiamo i visitatori che, a causa dei lavori di restauro in corso nella sede dell'Accademia, l'accesso alla villa di Castello è momentaneamente spostato al civico 48.