Ci sono arrivate domande che chiedono se l’artista che si esibisce nel cabaret deve essere chiamato cabarettista o cabarettaro.
Cabaret è un francesismo, entrato in italiano in due diversi significati, già propri della lingua d’origine, che alcuni dizionari trattano come due lemmi distinti: indica un ‘vassoio’ oppure un “locale notturno in cui si rappresentano spettacoli anticonformisti costituiti da un alternarsi di scenette di satira, spec. politica e canzoni satiriche” (GRADIT) e, per estensione, appunto quel genere di spettacoli, caratteristico nella prima metà del Novecento soprattutto di Parigi e di Berlino (da ricordare il film di Bob Fosse del 1972, Cabaret, con Liza Minnelli e Michael York, ambientato appunto a Berlino, nel 1931), ma poi diffuso anche in Italia (specie a Milano e a Roma), tanto che, almeno in italiano, l’accezione di “spettacolo” prevale ormai largamente su quella di “locale”. Questi significati sono però entrati in italiano in momenti e con modalità diverse rispetto a quello di ‘vassoio’, che risale al sec. XVIII e che è stato variamente adattato sia in italiano sia nelle aree regionali e dialettali in cui è diffuso (cfr. LEI, che registra cabaret s.v. camera/camara/cammara ‘volta, soffitto fatto a volta’, vol. X, coll. 79-80 e 86).
Invece, nel senso di “locale notturno con spettacoli di varietà; gli spettacoli stessi”, il DELI data cabaret al 1927 (nella 5a edizione del Dizionario moderno di Alfredo Panzini), facendo notare che l’autore registrava il termine già nel 1905, ma nel senso di ‘osteria’, come aveva fatto, prima di lui, la Piccola enciclopedia Hoepli di Garollo (1892, citata anche nel Supplemento 2004 del GDLI). La datazione al 1927 è stata anticipata in ArchiDATA al 1920 grazie a un esempio di Dario Niccodemi che, come del resto il Panzini, fa esplicito riferimento ai locali parigini (“i cabarets di Montmartre”). Ma anche il significato di ‘osteria’ – che si ritrova, per esempio, nelle didascalie del libretto (di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica) della Bohème di Giacomo Puccini, andata in scena nel 1896 (e ambientata a Parigi) – può essere retrodatato grazie all’articolo di Luigi Chirtani, L’arte nelle birrerie (in “L’Illustrazione italiana”. XIII, 22 agosto 1885, pp. 152-153), in cui si legge: “Per secoli e secoli il cabaret era stato ritrovo geniale anche della gente civile e della nobiltà”. Ancora anteriori sono le registrazioni nei dizionari piemontesi di Casimiro Zalli (1815) e di Vittorio di Sant’Albino (1859) citate nel LEI. La forma adattata cabarè, usata spesso nel senso di ‘vassoio’, in questa accezione è molto rara. Posso citare però un esempio dal PTLLIN:
Mai come in Germania mi era capitato di sentir domandare per prima cosa a che partito si appartenga, dal barbiere all’ospite di riguardo, tra un atto e l’altro d’una commedia, al tavolo di una birreria. Mi sono sentito interrogare improvvisamente sulle mie idee in un cabarè, dall’attore sul palcoscenico che aveva distinto in me uno straniero. (Corrado Alvaro, Quasi una vita, Milano, Bompiani, 1950, p. 40)
Forse andrebbe meglio individuato il momento del passaggio da ‘locale’ a ‘genere di spettacolo’, che a mio parere si coglie già in questo passo:
Faccio fin d’ora gli schizzi del mio cabaret: voglio dotare Parigi anche di questo spettacolo. (Pietro Maria Bardi, 15 giorni a Parigi fra i fuorusciti, Milano, Istituto Editoriale Nazionale, 1932, p. 1121)
Proprio in quest’ultimo significato, cabaret ha prodotto in italiano diversi derivati, tra cui cabarettismo (‘il genere degli spettacoli di varietà’, 1965, Zingarelli), cabarettistico (‘relativo al cabaret’, 1942, GRADIT e Zingarelli) e anche, limitatamente ad alcune recenti presenze in rete, cabarettata ‘scenetta da cabaret’. Per venire alla domanda, sia il GRADIT sia lo Zingarelli (e così pure il Devoto-Oli), indicano l’artista che si esibisce in un cabaret solo come cabarettista, parola datata in entrambi i dizionari al 1985, ma che può essere facilmente anticipata:
Quale cabarettista e Bänkelsänger (poeta e canzonettista) furoreggiò dal 1900 al 1902, specie dal palco degli Elf Scharfrichter (Gli undici Carnefici). (Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, a cura di Carlo Pellegrini, Milano, Vallardi, 1958, p. 325)
[...] ha fatto di ogni pubblicista negli anni preagonici d’Europa un superuomo profeta, e di ogni cabarettista un genio. (Mario Apollonio, Ontologia dell’arte, Brescia, Morcelliana, 1961, p. 11)
I dizionari non registrano invece cabarettaro, ma – diversamente da altre formazioni possibili, come *cabarettaio, che non mi risulta attestato, o cabarettiere, di cui trovo qualche isolato esempio (ma anche nel senso di ‘cameriere’, da rapportare quindi a cabaret ‘vassoio’) – anche questo derivato (segnalato a volte tra i neologismi), è ben attestato sia in Google sia in Google libri, a partire dal seguente esempio:
Forse i dirigenti dell’ATER pensavano che con me, cabarettaro, stavano al sicuro: quattro piume sul culo, un bel po’ di canzonette ed ecco fatto un teatro facile e di consumo. (Dacia Maraini, Fare teatro: materiali, testi, interviste, Milano, Bompiani, 1974, p. 53)
Dunque, per indicare l’artista di cabaret vanno bene sia cabarettista sia cabarettaro (e, al femminile, cabarettara), con l’avvertenza che il secondo termine è più probabile che venga riferito a chi si esibisce nei cabaret di Roma che non in quelli di Milano e che ad alcuni potrebbe risultare spregiativo, come spesso avviene per i nomi di mestiere in -aro (cfr. qui, qui e qui). Ma anche cabarettista, talvolta, può assumere una sfumatura quanto meno ironica, per designare l’attore di varietà. In effetti, come nota acutamente un nostro lettore, in Italia si tende a confondere e a sovrapporre due generi di spettacolo tra loro alquanto differenti.
Paolo D'Achille
11 maggio 2022
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