Alcuni lettori ci hanno chiesto se nell’espressione fare difficoltà non sia preferibile, nei casi che ci sottopongono, sostituire il verbo con avere.
In entrambi i casi i verbi sono a servizio di un sostantivo (difficoltà) che porta il peso maggiore del significato. Ma, nonostante la stretta vicinanza, i significati delle due parole polirematiche sono diversi: fare difficoltà implica che la difficoltà sia causata dal soggetto di fare, come in questi esempi di epoche assai diverse: “Se dovesse fare difficoltà, le dirai che devi parlarle di un sergente” (Giuseppe Berto, Il cielo è rosso, Milano, Longanesi,1947; citato da PTLLIN), “Il Governatore… fece difficoltà di rimettere questo posto nelle mani dell’elettore” (Gregorio Leti, Ritratti historici, politici, chronologici, genealogici della Casa Serenissima ed Elettorale di Brandeburgo, Amsterdam, Roger, 1687, cit. da GDLI). Anche nel più antico caso registrato dal GDLI, “nella primitiva chiesa, non solo non vi mettevano questi che vi si mettono oggi, ma si facevano difficultà che v’entrassino i corpi di santi” (Vespasiano da Bisticci, XV secolo), le difficoltà sono causate dal soggetto di fare, l’anonimo si. Il significato è ‘sollevare obiezioni, mostrare contrarietà, opporsi, contrastare’.
Avere difficoltà (ma lo stesso si potrebbe dire per trovare o incontrare difficoltà) introduce invece casi in cui l’origine della difficoltà è esterna o estranea al soggetto grammaticale del verbo, non voluta da lui, come negli esempi in cui giustamente i nostri lettori hanno dubitato dell’opportunità di fare, e avere è preferibile: “abbiamo difficoltà a trovare il numero”; “avevo difficoltà a mangiare quella torta”. Sostituire avere con fare in questi casi non è vietato, ma sarebbe impreciso, perché le difficoltà non sono prodotte dai soggetti del verbo, ma sono da loro subite. Si osservino a ulteriore dimostrazione questi due esempi: “Ho chiesto a Giorgio di andare a comperarmi il pane ma fa difficoltà” (è Giorgio che non può o non vuole andare) e “Ho chiesto a Giorgio di andare a comperarmi il pane ma ha difficoltà (sott. ad andare, qualcosa glielo impedisce o lo ostacola)”: fare introduce difficoltà avanzate da Giorgio, avere frapposte da terzi.
Per questo stesso motivo fare difficoltà ha una proprietà che gli altri verbi polirematici citati non posseggono, quella di accettare anche la valenza monoargomentale, di non esigere necessariamente un complemento, cioè di ammettere che si ritenga compiuto il senso dell’espressione anche senza completive che la integrino: “fa difficoltà la parola” (Senato del Regno, Tornata dell’11 marzo 1862, Rendiconti del parlamento italiano discussioni del Senato del Regno…(VIII Legislatura), Firenze, Cotta e C., 18702, vol. II, p. 1139) è una frase in cui fare non è ben sostituibile da avere o trovare o incontrare, perché in tal caso sarebbe necessario completarla con un’infinitiva (“La parola ha/trova/incontra difficoltà ad essere spiegata”).
Naturalmente la distinzione tra i verbi (fare, avere) che possono reggere difficoltà è sottile e non c’è da stupirsi e in fondo neppure niente di male a trattarli come intercambiabili. Ma se il costrutto è assoluto, senza frase argomentale, fare è più opportuno. Al contrario, quando viene esplicitato in una dipendente l’oggetto, l’argomento della difficoltà, è preferibile ricorrere ad avere o altri sinonimi. Siamo nel territorio della grammatica non delle forme (che è rispettata in tutte le diverse combinazioni di difficoltà qui esaminate), ma dei concetti, che è più elastica, flessibile. I significati tendono a slittare l’uno sopra l’altro nell’uso comune. Ad esempio, non è improbabile che gli impieghi imprecisi di fare difficoltà in luogo di quelli più opportuni di avere difficoltà si possono ben spiegare con la sovrapposizione a fare difficoltà di fare fatica, espressione non diversissima per forma e significato, che sarebbe un buon sostituto di avere difficoltà nei casi qui segnalati. Ma per chi, come i lettori che ci hanno scritto, ama lodevolmente la precisione, anche quella dei concetti è una grammatica che è bene conoscere e utile rispettare. Diciamo che se il mancato rispetto della grammatica delle forme produce errore, il mancato rispetto della grammatica dei concetti produce imprecisione. Peccato veniale ma fastidioso. A questo proposito, viene da ricordare, a poca distanza dal centenario della nascita, Italo Calvino, uno degli ultimi grandi artisti dell’italiano, per il quale la precisione era una virtù linguistica da praticare con estrema cura.
Vittorio Coletti
7 giugno 2024
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