Sono giunte in redazione alcune domande riguardanti il sintagma dei miei stivali usato con valore spregiativo riferito a cosa o persona di poco valore. In particolare se ne domanda l’origine e a quale epoca risalgano le prime attestazioni.
Come altri sintagmi stereotipati che cominciano con o senza una preposizione (acqua e sapone, terra terra, di fegato), dei miei stivali, o da stivali, ha la proprietà di caratterizzare un nome assumendo la funzione sintattica di un aggettivo. Per questo, anche a proposito di dei miei stivali, si parla di locuzione aggettivale riferita a persone o cose vantate come importanti, di cui però non si ha stima alcuna: dei miei stivali significa ‘di poco conto’, ‘da nulla’, ‘di nessun rilievo’. L’espressione va riferita al sostantivo (x) che di volta in volta le si accompagna: dottore, sonatore, maestro, seccatore, rimedio sono gli esempi ottocenteschi che si leggono nel Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana (Milano, F.lli Treves, 1912) di Policarpo Petrocchi alla voce stivale. Per restare alla lessicografia ottocentesca, Giuseppe Meini registra “compenso de’ miei stivali” nel Tommaseo-Bellini (s.v. stivale); mentre “chirurgo dei miei stivali” è marcata dal GRADIT come locuzione comune. Numerosissimi sono gli esempi reperibili sul web: avvocato, capitano, impero, imprenditore, lettore, liberale, medico, ministro, mobilità, nobildonna, nobilicchio, principe azzurro, principessa, provvedimento, re, regina, saputello, scienziato, signorino, sovranista, tradizione, solo per citarne alcuni; né mancano sostantivi-testa stranieri, dati da anglicismi come veggie town, performer e recruiter. Una menzione a parte merita intellettuale dei miei stivali, locuzione entrata nel linguaggio della politica dopo l’impiego polemico, da parte di Bettino Craxi, nei confronti di Ernesto Galli Della Loggia che lo aveva criticato in merito alla gestione della cosiddetta “crisi di Sigonella” (comunicazioni del governo, IX legislatura, assemblea n. 373, seduta del 6 novembre 1985; cfr. Acquaviva 2007 p. 361). Preceduto dall’aggettivo ironico e allitterante illustre, il citatissimo epiteto di craxiana memoria ha ispirato i titoli di articoli di noti politologi e giornalisti, come Gianfranco Pasquino (Intellettuali dei miei stivali, “Nuova informazione bibliografica”, VII, 2, apr.-giu. 2010, pp. 215-222) e Marco Valerio Lo Prete (Intellò dei miei stivali, “Il Foglio”, 13/8/2014, nel quale si discute del parallelismo, evocato dal sociologo Luciano Pellicani, tra Craxi e Renzi, in merito ad alcune dichiarazioni rilasciate dall’allora presidente del Consiglio al quotidiano “la Repubblica”).
Abbandonando i nostri giorni e venendo al valore fortemente spregiativo della locuzione x dei miei stivali, esso si deve all’antica metafora della calzatura che ricopre la parte più bassa del corpo umano, il punto più ignobile, collocato al livello del terreno. Ci si riferisce al piede, naturalmente, benché lo stivale copra anche il polpaccio, e talora la coscia, poiché in questo, come in altri usi idiomatici (ad esempio lustrare, o il più antico ugnere, gli stivali nel senso di ‘adulare’; o girare gli stivali a qualcuno, noto anche come voltare i tacchi, ‘andarsene indispettiti’), la parola stivale assume il valore sinonimico di ‘scarpa’ (GRADIT).
Oggetto di numerosi modi di dire e proverbi, che arricchiscono il lessico della cultura materiale, lo stivale è metafora di qualcosa di vile che ben si adatta a vari contesti. Ad esempio è ‘la vivanda più vile’ nel proverbio olio, aceto, pepe e sale farebbe buono uno stivale, che si è soliti pronunciare quando si voglia valorizzare la funzione dei quattro condimenti base della cucina rustica; oppure è indice di ‘vile condizione’ nell’antica espressione essere in stivali ‘condurre una vita misera e rozza’; e ancora simboleggia la parte più bassa del corpo in tenere qualcuno negli stivali (’essere più abile di qualcuno’): qualcosa di vile, dunque, e anche di rumoroso (solo “gli stivali del diavolo non fanno rumore”).
Non è questa la sede opportuna per dilungarsi sul valore figurato – metaforico, certo, ma anche antonomastico – del termine stivale, con riferimento alla forma della penisola italiana (per le attestazioni letterarie, da Goldoni in poi, v. GDLI; ma cfr. anche il recente saggio di Edoardo Camurri, L’Italia dei miei stivali (Milano, Rizzoli, 2007); o la commedia musicale degli anni Settanta, scritta da Dino Verde, con Alighiero Noschese, Lo stivale dei miei stivali, [1974]).
Per comprendere meglio la locuzione x dei miei stivali, vale la pena soffermarsi sulla varietà degli impieghi idiomatici, specchio dei vari usi quotidiani della celebre calzatura (in guerra, a caccia, a pesca, da bosco e da riviera, nei lunghi viaggi, in occasioni cerimoniali, nella vita di tutti i giorni come parte dell’abbigliamento di nobili e borghesi dei secoli XVII e XVIII). La varietà d’impiego del referente giustifica un sia pur minoritario valore semantico positivo, soprattutto a livello denotativo, in detti ritmati che ne evidenziano la funzione protettiva da serpi, pietre, terreni melmosi e altre insidie (pastrano e stivali preservano da molti mali). In virtù, poi, della sua diffusione tra i ceti più alti della società, lo stivale è entrato nella storia del costume europeo come simbolo di potere (così vanno intese espressioni come rompere gli stivali a qualcuno ‘infastidirlo’ e portare gli stivali ‘comandare’); fino ad assumere una valenza magica nella tradizione favolistica popolare e letteraria (Pollicino e gli stivali delle sette leghe, Il gatto con gli stivali; e si ricordi anche Lo stivale ingioiellato, fiaba di origine siciliana, tra le Fiabe italiane raccolte e trascritte da Italo Calvino [Torino Einaudi, 1956]).
Resta tuttavia prevalente la connotazione spregiativa, riferita non solo a cose, ma anche a persone di scarso valore, goffe (parere uno stivale è espressione riferita a persone dai modi sgraziati) e sciocche: uomini stivali, secondo l’antico valore aggettivale attestato fin da Michelangelo Buonarroti il Giovane (GDLI) per dire ‘uomini dappoco, inetti e incapaci’. Lo stivale infatti “dove si mette sta, prende la forma che gli si dà, e si fa calzare senza sbraito alcuno” (Passarini, a proposito di essere uno stivale). A questo specifico uso spregiativo, volto a colpire le persone, si legano esclamazioni ingiuriose (Stivale! per dire ‘minchione’; e il femminile Sora Stivala!, v. Petrocchi, cit., s.v. stivale), espressioni idiomatiche come restare uno stivale (‘restare di stucco’) e antiche frasi proverbiali come poi che io ho a esser lo stivale, voglio che siate il cordovano. Quest’ultima, registrata alla lettera P (P959 nell’edizione in corso di pubblicazione presso l’Accademia della Crusca) da Francesco Serdonati nella sua raccolta di proverbi illustrati e disposti in ordine semialfabetico (XVI-XVII secolo), giustappone di fatto due sinonimi, stivale e cordovano, che qualificano un ‘minchione’, un ‘sempliciotto che si lascia gabbare’; per cui il senso – per citare la glossa del Serdonati – è il seguente: “Poi che io ho da restare di sotto, voglio che voi ne patiate le pene”.
La frase è significativa non solo dal punto di vista linguistico, ma anche culturale, poiché ci dà informazioni sulla moda del tempo e rivela i rapporti commerciali intercorrenti con la Spagna, in particolare con la città andalusa di Cordova (in spagnolo Córdoba), da cui l’Italia importava il famoso cordovano, cuoio estremamente duro che veniva conciato nella lavorazione degli stivali, documentato già alla fine del sec. XIII secondo il DI Deonomasticon Italicum di Wolfgang Schweickard (Tubingen, M. Niemeyer, 1997-2006), s.v. Còrdova; donde il valore metaforico del deonimico in locuzioni come far cordovano (‘burlare qualcuno’) ancora nei detti del Serdonati, che cita l’Hercolano di Benedetto Varchi (e si veda, di nuovo, il DI). La Spagna stessa era produttrice di un singolare tipo di stivaletti, i borzacchini (ma esiste anche la variante con la consonante liquida laterale, bolzacchini, da annoverare tra la lunga serie sinonimica di parole italiane indicanti gli stivali: usatti, osatti, usolieri, uose ecc.). I borzacchini erano calzari strettissimi e alquanto ridicoli, molto diffusi in Italia tanto da dar vita alla discussa moda dei borzacchini spagnuoli, dileggiata da scrittori del XVII secolo come Girolamo Brusoni, Carlo Celano e Traiano Boccalini. Quest’ultimo in particolare, nei suoi Ragguagli di Parnaso (1612), ricorda l’episodio di Francesco Beccuti detto il Coppetta che volle provarsi i borzacchini di Giovan Battista Marino con esiti comici e allusivi: “Giovambattista Marini faceva lavorar borzacchini spagnuoli, de’ quali il Coppetta volendosi provar uno, perché li riuscì molto stretto, egli tal violenza usò nel calzarlo, che lo sgarrò” (I 101). Il riferimento è all’osceno capitolo dello Stivale, dove il cavalier Marino elenca le qualità dello stivale a detrimento del borzacchino, ossia della pratica eterosessuale rispetto alla sodomia.
Tuttavia, per quanto riguarda lo specifico problema delle prime attestazioni di da stivali e dei miei stivali, va detto che non vi è alcuna documentazione della locuzione italiana anteriore al Seicento. È nota l’attestazione di da stivali nell’Eneide travestita di Giovanni Battista Lalli da Norcia (1632), dove, parlando del greco Sinone, celebre ingannatore, e parodiando il verso di Aen. II 145, il poeta umbro scrive: “Con tante cantafavole, che noi [scil. Troiani] / Non pensavamo già, che fusser tali: / Ci commosse a pietà de’ casi suoi / (Cordovani, che fummo da stivali)” (II 36, 1-4).
Nel caso di x dei miei stivali, si parte quasi dalla metà del XVII secolo, precisamente dal 1643-1644 (“av. 1665”, DELI), anni a cui risale la prima elaborazione del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi, dove troviamo dipintor de’ miei stivali (IV 10, 4) e dottor de’ miei stivali (VI 106, 7), oltre alla frase “tu resterai quivi uno stivale” (VII 58, 4). Alla fine del Settecento la locuzione memoria dei miei stivali ricorre nella commedia Il saggio cavaliere, ossia Ernesto conte di Crevant (atto II, scena VI, p. 45), decimo capriccio pubblicato in Dei capriccj teatrali di Giovanni Greppi, socio della Reale Accademia Fiorentina; mentre nell’Ottocento, in una delle lettere inviate alla moglie (Pesaro, 27 settembre 1847), Massimo d’Azeglio inveiva contro i tribuni dei miei stivali (“E questi tribuni de’ miei stivali, se non son pagati da lei (che non credo) la servono gratis, ch’è peggio”; cfr. Carcano 1870, p. 301), i populisti del tempo che, se non pagati dall’Austria, servivano gratis il nemico. Ancora, nel famoso capitolo IV del Mastro-don Gesualdo (1889), nella furibonda lite con donna Sarina Cirmena, Verga fa esplodere di rabbia il protagonista in un’invettiva che vede l’anziana donna offesa prima con l’appellativo di mezzana e poi con l’espressione donna Sarina dei miei stivali. La letteratura siciliana offre vari altri spunti, tra cui il pirandelliano “signor Hindenburg, grande stratega delle tenaglie dei miei stivali!” (corsivo mio, citazione dal Frammento di cronaca di Marco Leccio in Berecche e la guerra, 1919). Le citazioni letterarie si sprecano e si potrebbe continuare a lungo, fino al conte dei miei stivali di Riccardo Bacchelli (Il mulino del Po, 1938-1940), e molto oltre ancora.
Nota bibliografica:
Paolo Rondinelli
28 aprile 2025
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Avvisiamo tutti i frequentatori che la sede dell'Accademia della Crusca resterà chiusa il 2 maggio, il 23 giugno e dall'11 al 22 agosto 2025.