Alcuni lettori ci pongono domande sul termine criticità, sul suo reale significato e sul suo frequente impiego in àmbito aziendale e finanziario.
Chiedendo conto delle frequenti e crescenti criticità in cui si imbattono nella lettura di qualche testo, nel linguaggio di aziende o enti, sentendo parlare amici o colleghi, alcuni nostri attenti lettori si e ci chiedono se si trovano di fronte a problemi, difficoltà ecc., e se la parola è corretta dal punto di vista della grammatica italiana.
Partiamo da questa seconda domanda e diciamo subito che formalmente è impeccabile: un sostantivo a suffisso -ità da un aggettivo, come logicità da logico o analiticità da analitico o formalità da formale, ecc. Niente da dire dunque sulla sua forma. Il problema è il suo significato, e, forse, il suo abuso.
Per rendercene conto, cominciamo con l’osservare che la parola è registrata nel GDLI, attribuita (e quindi databile entro il 1951, come del resto confermano il GRADIT e le ultime edizioni dello Zingarelli e del Devoto-Oli) a Benedetto Croce, nel significato (collegato più che all’aggettivo critico al sostantivo critica) di ‘disposizione, attitudine critica’, attribuita alla filosofia. Nelle pochissime altre occorrenze di criticità nello stesso dizionario il suo significato si è invece spostato in ambito scientifico, per segnalare aspetti, situazioni, momenti critici. Lo si nota alla voce reattività, nella metalingua del lessicografo e, sempre nella lingua del lessicografo, alla voce della fisica supercriticità, che nomina, in un congegno o fenomeno, il raggiungimento e il superamento dello stadio critico. In effetti, come ben riferisce il GRADIT, criticità è anche un termine del linguaggio scientifico, che indica la “condizione in cui un sistema fisico cambia comportamento nell’attraversare il valore critico di un parametro (temperatura, massa, pressione ecc.)”. Questo significato di criticità discende dal valore dell’aggettivo critico nel linguaggio della fisica e della chimica, dove si usa per una grandezza al cui raggiungimento si verificano cambiamenti importanti nell’elemento osservato: questa grandezza, che comporta una vera e propria svolta, e cioè letteralmente una crisi, è spesso detta punto critico.
Prima ancora che nelle scienze dure, il significato di critico legato a una crisi era apparso già nel linguaggio di un’altra scienza più antica, la medicina. Come tale lo registra infatti addirittura il primo Vocabolario della Crusca (1612), dove si parla di periodo critico e si ricorda che i giorni critici erano (come vorrebbe in effetti l’etimo greco della parola, che significa ‘idoneo a giudicare’), quelli in cui i giudici di una malattia, i medici, emettevano il loro temuto verdetto. Negli stessi anni della prima edizione del nostro Vocabolario, stante il GDLI, Michelangelo Buonarroti il Giovane, usa già il valore genericamente figurato di critico, come (GDLI) ‘difficile, grave, pericoloso’: un valore che, trasferito all’astratto, è proprio quello della criticità su cui ci interrogano i lettori.
Anche dal punto di vista storico non c’è quindi nulla da eccepire su questo uso figurato di criticità, collegato non alla critica (come in Benedetto Croce), ma a critico, in quanto annuncio, indizio, eventualità di una (possibile, temuta) crisi (per questa parentela con la crisi, sia detto tra parentesi e rispondendo a un’altra domanda, la critica di sé stessi è l’autocritica e non l’autocriticità, che è, dal punto di vista semantico, quasi una contraddizione in termini). Criticità, dunque, come possibilità di crisi, di danno, emergenza, rischio, a causa di difficoltà, problemi ecc.
Con una breve ricerca su Google libri possiamo imbatterci in questa specifica criticità, in quanto ‘situazione, carattere problematico, difficile di qualcosa’, ben prima del 1951 e retrodatare la voce al 1870, quando compare nel “Giornale del Genio Civile”, dove si parla (a proposito di opere collegate al Canale di Suez) di “criticità del caso” (per altro, se si guarda al significato medico di criticità si va cronologicamente anche più indietro, visto che Google la trova in una relazione del 1866 dedicata al “morbo migliare”, in Atti della Fondazione Scientifica Cagnola dalla sua istituzione in poi, vol. IV, Milano, Bernardoni, 1866, p. XIX).
I nostri lettori, però, non hanno preso un abbaglio a notare che qualcosa non convince in questa parola. Se il suo uso e valore sono a norma, il suo abuso è sintomatico di qualcosa che non va bene, se non nella grammatica, nella comunicazione. Intanto, come mostra il suo frequente impiego al plurale (pur morfologicamente invariato rispetto al singolare), c’è (come acutamente osservato da un lettore) una netta valenza eufemistica in criticità, specialmente nel linguaggio delle aziende, che mascherano dietro di essa problemi gravi e forse irrisolvibili. Se si dicesse, come in certi casi, sarebbe più chiaro e onesto, che “ci sono problemi, difficoltà, rischi”, anziché, come accade (ad esempio da parte di chi analizza e valuta bilanci societari) che “si evidenziano delle criticità”, forse sarebbe un più franco parlare e un più efficace reagire. Ma, poiché dalla trasparenza semantica, chi legge o ascolta potrebbe ricavare (giustamente) molta preoccupazione, ecco criticità fare da tenue schermo alle difficoltà incombenti o già in atto (credo che questa ricerca di attenuazione, di mitigazione, sia una ragione della recente fortuna della parola nel linguaggio aziendale, assai più della ricerca di espressività, anche fonica, ipotizzata dallo stesso lettore di cui sopra).
Per altro, non è questo gran male, se è vero, come osserva giustamente un altro lettore, che qualcuno, invece di sostituire le criticità con i problemi, potrebbe mettere al loro posto le ben più fastidiose problematiche, che sono, per opacità e imprecisione semantica, copertura eufemistica, esibizione intellettualistica, ancora peggiori delle criticità (che, semmai, è parola, non solo formalmente, più legata alla problematicità che alla problematica.) Entrambe però, problematica (inserito tra gli esempi della Lingua di plastica da Ornella Castellani Pollidori) e criticità (come pure difettologia per difetto e epidemiologico per epidemico), sono figlie di quell’attrazione morbosa per l’astratto propria della lingua delle amministrazioni (pubbliche e private), che non si accontentano di pur generici problemi o difficoltà, li sentono troppo concreti, diretti, minacciosi e inclinano volentieri a più generiche, opache, tranquillizzanti e pretenziose, problematiche e criticità. Noi dovremmo cercare di farne un uso moderato di entrambe.
Vittorio Coletti
24 maggio 2023
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