Pucciare e puciacca: una questione etimologica tutt’altro che morbida

Alcuni lettori chiedono se il verbo pucciare ‘intingere, inzuppare’, noto in tutta la Penisola anche perché recentemente impiegato in trasmissioni televisive, sia da considerarsi dialettale o regionale. Alcune domande riguardano anche il significato e l’origine di puciacca, che in certe zone del Settentrione indica la neve prossima allo sciogliersi.

Risposta

Farina, zucchero, burro, uova, un cucchiaino di lievito: per preparare dei perfetti “biscotti da pucciare” bastano pochi ingredienti e alcuni semplici passaggi. Così, almeno, assicura la conduttrice di un noto programma televisivo di cucina, inzuppando – proprio questo vuol dire, infatti, pucciare – il goloso risultato in una tazza di latte caldo. Attenzione, però, ai minuti in forno, che possono compromettere la giusta consistenza del nostro biscotto: un fattore evidentemente cruciale, assieme alla temperatura del liquido prescelto (latte, tè, cioccolata), per il calcolatissimo tempismo del “pucciatore” finale. La durata del tuffo dev’essere infatti di pochi istanti, sapientemente determinati: “se troppo pochi, il biscotto si offrirà ancora arido e friabile alle fauci, se troppi, la parte immersa si sfalderà, precipitando irrimediabilmente al fondo della tazza in una pappa immonda: troppo tardi arriverà il cucchiaino”. A scriverlo è l’autore di una bella pagina del blog Una parola al giorno (20/1/2022) dedicata proprio al verbo pucciare. Come osserva ancora lo stesso autore, l’azione appena descritta accomuna ogni giorno milioni di persone; eppure il verbo che la identifica non è univoco, come del resto spesso accade al nostro vocabolario dell’ordinario, com’è quello domestico, in particolare, o quello gastronomico. E in effetti quel pucciare – cui la conduttrice ricorre con molta naturalezza, senza avvertire in alcun modo la necessità di chiarire o di affiancare un sinonimo – rappresenta una voce di provenienza settentrionale, diffusa soprattutto nelle aree piemontese e lombarda (ma non solo) e pressoché sconosciuta al resto d’Italia. Almeno fino a qualche tempo fa. Il suo impiego sempre più frequente in numerose trasmissioni televisive e in rete, infatti, ne ha determinato la fortuna anche fuori del suo naturale habitat linguistico. Se si trascurano i testi e i vocabolari dialettali – questi ultimi infatti, come vedremo, registrano il termine sin dalle edizioni più antiche –, le prime testimonianze di un uso più esteso di pucciare affiorano alla stampa nazionale a partire dagli anni Settanta del Novecento (es. “con l’intingolo in cui pucciare il pane, ma quello di campagna, perché i cosiddetti ‘panini’ non sono all’altezza di questo nobile compito”: “L’Espresso”, 1979, p. 140) e si accrescono esponenzialmente nei decenni successivi, conquistando anche la narrativa. Tra i tanti esempi offerti dal motore di ricerca di Google libri, citiamo da un recente romanzo di Barbara Fiorio: “Irene è una dei pochissimi non genovesi che ho convinto a pucciare la focaccia nel caffellatte” (Vittoria, Milano, Feltrinelli e-book, 2018). L’attuale successo sovraregionale del termine ha indotto i primi segnali di reazione anche nella lessicografia italiana più recente. Non c’è ancora traccia di pucciare nel GDLI o nel GRADIT, e neppure nelle ultime edizioni del Devoto-Oli; tuttavia prende atto della sua fortuna lo Zingarelli, che registra l’uso del verbo proprio a partire dall’edizione del 2022, precisandone la provenienza dialettale: pucciare è infatti presentato come un settentrionalismo che vale ‘inzuppare’ e, per estensione, ‘immergere, bagnare’. L’entrata lessicalizzata è proprio “pucciare”, forma adattata alle norme fonomorfologiche dell’italiano standard con la quale, come già visto, la parola è impiegata in contesti non dialettali. Sul piano etimologico, lo Zingarelli propone un legame con puccia: tale sostantivo, che anticamente poteva indicare un tipo di pane povero a base di cruschello, identifica oggi, notoriamente, un pane dalla forma rotonda tipico della tradizione pugliese, in particolare di quella salentina. Per puccia, poi, lo stesso vocabolario suggerisce una derivazione dal lat. buccĕlla(m) ‘tipo di pane povero’, a sua volta originatosi da bŭccea ‘boccone’. Il collegamento è tuttavia preceduto da un “forse” che lascia immediatamente sospettare un quadro etimologico più complesso ed evidentemente ancora aperto.

Eccoci dunque al quesito principale posto dai nostri lettori: da dove nasce pucciare? Una risposta univoca e dirimente da parte degli etimologi – sarà bene precisarlo subito – non c’è (ancora). Nel tempo si sono stratificate molteplici ipotesi, più e meno percorribili, che hanno alimentato una bibliografia piuttosto estesa e non facilmente districabile. Per scongiurare il rischio di restare disfatti, come un biscotto troppo lungamente pucciato, in questa sovrabbondanza di proposte, limitiamoci a raccogliere le soluzioni che appaiono oggi dotate di maggior credito.

In larga parte, la lessicografia dialettale più recente sembra convergere verso una soluzione onomatopeica, che giustificherebbe pucciare – o, meglio, le forme dialettali che ne sono all’origine – a partire dalla base espressiva *poc-/*puc-, imitativa del suono “che si fa sentire nell’andar per il fango” (così già Prati 1922, p. 427; cfr. anche Biella et al. 2001, s.v. pucià; Bondardo 1986, s.v. pòcio; Cornagliotti 2015, s.v. pocia; Membretti-Bracchi 2011, s.v. pocér, pucér). A questa radice onomatopeica, correlata alla più ampia sfera semantica del ‘molle’ e del ‘soffice’ (cfr. REW e REW Postille, § 6138b; DEI, s.v. puccia), vengono ricondotti non soltanto il verbo e la sua famiglia morfologica – e dunque i sostantivi e gli aggettivi da esso derivati, sui quali ci soffermeremo tra breve – ma anche altri esiti apparentemente lontani per significato o per diffusione geografica. In particolare, deriverebbero da tale radice pure la già ricordata forma puccia ‘panino, focaccia’, propria dell’area centro-meridionale della penisola, il calabrese pùcidu ‘fradicio’, nonché l’espressione salentina pùcciu pùcciu, che vale ‘soffice, cedevole’ (cfr. DEI, s.v. puccia). Una simile proposta vedrebbe così pucciare e puccia come due esiti collegati ma indipendenti, frutto di due sviluppi paralleli di una stessa base onomatopeica e caratterizzati da una diversa distribuzione geografica.

Godono di buon credito anche le soluzioni che guardano al latino, tra le quali sarà anzitutto da ricordare quella proposta da Salvioni nelle sue Postille al REW (§ 6177), che accosta le forme dialettali pucià ‘bagnare, intingere’ e pùcia ‘intingolo’ al latino parlato *palta(m) ‘fango, palude’, da cui anche l’italiano pantano. Si richiama a una base latina non attestata anche Emanuele Banfi in un saggio sul lessico giovanile di Milano e Trento, suggerendo una connessione tra pucciare e *punctiāre ‘intingere’ e ricordandone il facile riferimento all’atto sessuale (cfr. Banfi 1992, p. 129). Risulta generalmente esclusa, invece, la derivazione da pŭteu(m) ‘fossa, buca’, da cui le forme italiane pozzo, pozza e, con qualche incertezza, pozzanghera (cfr. DELI, s.vv.): sarebbe infatti inusuale, nei dialetti settentrionali, la formazione di un’affricata palatale sorda -c- [ʧ] dal nesso t + semivocale (cfr. Rohlfs 1966, § 290; Bondardo 1986, s.v. pòcio).

A prescindere dall’etimo, in ogni modo, nei dialetti settentrionali il verbo conosce una molteplicità straordinaria di esiti alternativi (non sempre equivalenti, sul piano del significato), capaci di generare, a loro volta, un ricco ventaglio di derivati. Cerchiamo, di nuovo, di limitarci ai casi più rappresentativi. In Lombardia predominano le forme pucià o pocià, talvolta registrate dai vocabolari con la doppia (come nello storico Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini: “Poccià: intingere, immollare”; Cherubini 1839-1856, s.v.). Sono segnalate, specie nella provincia di Sondrio, anche le varianti pocér e pucér (cfr. Antonioli-Bracchi 1995; Membretti-Bracchi 2011, s.vv.). Il senso prevalente è quello di ‘intingere’ in un contesto alimentare, benché risulti altrettanto diffuso quello di ‘bagnare, immergere (i piedi, in particolare, in una pozzanghera, nel fango, in un fiume ecc.)’. In tutti i casi, il valore del verbo può precisarsi anche attraverso una preposizione: per esempio, pucià gió ‘immergere (pane, polenta) nell’intingolo’; pucià sü ‘portare alla bocca quanto si è intinto’; pocér int o pocér ó ‘inzuppare (in un liquido), immergere’; in particolare, pocér ó i pè i la néf / i la pàlta ‘immergere i piedi nella neve / nel fango’ (cfr. Biella et al. 2001; Giorgetta-Ghiggi 2010; Membretti-Bracchi 2011, s.vv.). Troviamo ancora pucià in Liguria (dove, come già ricordato, s’inzuppa volentieri anche la focaccia nel latte e nel cappuccino) e pociàr a Trento, mentre i piemontesi si avvalgono generalmente delle forme pocé e pucé, talora in concorrenza con mojé ‘ammollare’ (cfr. Cornagliotti 2015; Fox 2014; Gribaudo 1996, s.vv.). Il nostro verbo ha poi una certa fortuna in Veneto e in Emilia-Romagna; per quest’ultima i vocabolari ricordano anche espressioni ormai in disuso, come puccià la penna in dal caramàl ‘intingere la penna nel calamaio’, e certi usi figurati, come puccià al nàz ‘ficcare il naso (in affari altrui)’ (cfr. Tammi 1998, s.v.). Nelle ultime due regioni citate, e segnatamente in Veneto, sono tuttavia ben radicate le alternative tociàr e tucér (cfr. Bondardo 1986; Durante-Turato [1975]; Gherardi-Moretti 2009; Lepri-Vitali 2009; Naccari-Boscolo 1982; Zanette 1980, s.vv.), di analogo significato, che condividono con pucciare una certa oscurità etimologica. Senza deviare troppo dal nostro percorso, ci limiteremo a segnalare che i dizionari di riferimento si appellano per lo più al latino tardo *tŭcciu(m), derivato di tŭcca ‘massa di grasso, strutto’, quindi ‘salsa, intingolo, brodo’, oppure, ancora una volta, a una base onomatopeica *tuc-, con la probabile influenza degli esiti di *poc-/*puc- (cfr. Doria 1987; Prati 1968; Durante-Turato [1975], s.v. tòcio; Plomteux 1975, s.v. tuku). Accanto al verbo si rilevano anche il sostantivo tòcio e il nome d’azione tociàda, che a molti richiameranno immediatamente alla memoria una strofa della celebre canzone popolare La mula de Parenzo (cioè ‘La ragazza di Parenzo’), notissima a tutto il Veneto e largamente diffusa in buona parte dell’Italia settentrionale – con numerose varianti – fino alle zone italofone della Slovenia e della Croazia. Nelle parole dell’innamorato dirette alla bella bottegaia si accumulano riferimenti a specialità gastronomiche locali (come i bigoli, la luganega, la polenta con il baccalà) che, nell’affamata immaginazione di quest’ultimo, raggiungono proporzioni colossali: “Se il mare fossi de tocio / e i monti de polenta / oh mamma che tociade / oh mamma che tociade / polenta e bacalà / perché non m’ami più”.

Anche pucciare, naturalmente, ha il suo sostantivo. I vocabolari di riferimento registrano per lo più la forma femminile pùcia (anche pócia e pòcia), con la quale si identifica un intingolo di vario genere (un brodo, un sugo ecc.) oppure una fanghiglia. Anche nel caso del sostantivo è possibile disegnare una mappa indicativa della varietà degli esiti disponibili; le alternative femminili già menzionate (pùcia, pócia e pòcia) sono diffuse soprattutto in Lombardia e in Piemonte, fino all’Emilia-Romagna; in area veneta, forse per analogia col più usato tòcio, predomina il maschile pòcio (cfr. Bondardo 1986; Prati 1968, s.v.). Dal verbo vengono poi le forme puciàda o pociàda (talora pocéda), analoghe alla già ricordata tociàda (per esempio, a Sondrio, fér una pocéda vale ‘fare una scorpacciata’; cfr. Membretti-Bracchi 2011, s.v.). Del resto, in altre versioni della canzone La mula de Parenzo si distendono mari di pucia (o di pocio) e si immaginano pantagrueliche puciade.

Pucciare e i derivati costituiscono dunque una famiglia morfologica condivisa da un’area linguistica notevolmente estesa (che, di fatto, arriva a comprendere quasi tutta l’Italia settentrionale). È tuttavia soprattutto il verbo – come abbiamo visto – ad aver conquistato negli ultimi tempi spazi ulteriori, irradiato dalla televisione e dai nuovi media. Diffusamente impiegato in accezione propria o in modo estensivo, oggi pucciare può senz’altro definirsi uno dei tanti “dialettismi” del nostro vocabolario: una voce cioè di origine dialettale che, sulle ali di una ricetta di successo nazionale o di uno scandalo politico, è divenuta progressivamente familiare anche ai parlanti di altre regioni. Così è accaduto, del resto, anche a tanti meridionalismi ormai storici (come mafia o guaglione) o di più recente fortuna (come inciucio o cazzimma).

Sulle nostre tavole ogni giorno c’è insomma chi intinge, chi inzuppa e chi preferisce pucciare: la sostanza non cambia (purché, naturalmente, siano stati ben calcolati i tempi).

Saltando di pucciare in puciacca

Se si accoglie l’ipotesi di una convergenza degli esiti fin qui ricordati verso una medesima base – sia essa latina oppure onomatopeica –, non è difficile associare a questi ultimi anche altre forme simili, semanticamente connesse al fango e a liquami melmosi in genere. In particolare, potrebbe avere una vicenda etimologica comune a pucciare un altro settentrionalismo, ossia puciacca, che in buona parte delle aree citate indica una fanghiglia molto liquida (come quella che si raccoglie in una pozzanghera) o, più spesso, quella poltiglia che si genera con il discioglimento della neve (e che è, pertanto, priva di terra). Anche questa parola – puciacca, al solito, è forma italianizzata – conosce diverse realizzazioni dialettali, come pociàca o pociàcca, puciàga, pocìca o anche puciàcu; quest’ultima variante è registrata nella Liguria orientale (cfr. Plomteux 1975, s.v.). In Lombardia risultano dominanti le forme puciàc(c)a e puciacch, ma è ben radicata anche l’alternativa pociàcchera (cfr. Biella et al. 2001; CFM 2018; Cherubini 1839-1856; Monti 1848, s.vv.). Assieme al sostantivo, naturalmente, è diffuso anche il verbo puciacà (anche pociagà, puciagà, pucegà), che vale ‘sguazzare nel fango, nelle pozzanghere (per gioco)’ o ‘calpestare la neve che si scioglie’, e che ammette talora anche sensi estensivi e figurati, come ‘imbrattarsi, sporcarsi inutilmente’ e dunque ‘pasticciare, lavorare grossolanamente senza concludere nulla di concreto’ (cfr. Giorgetta-Ghiggi 2010; Monti 1848, s.vv.). Di qui le forme pociagàda ‘lavoro mal fatto’ e pociagón ‘pasticcione’, rilevabili, per esempio, nel comasco (cfr. Monti 1848, s.vv.). E tante altre ancora sono le parole – e quindi i significati e i modi proverbiali – che potrebbero verosimilmente gravitare nella medesima orbita etimologica. Tentarne una rassegna completa non sarebbe un’impresa facile: il vocabolario cui appartengono queste forme affonda infatti le sue radici in un sommerso di convivialità domestica, di consuetudini e di giochi senza tempo, disegnando un reticolo espressivo ricchissimo, che si modifica di paese in paese, persino di famiglia in famiglia. Ciascuno dei nostri lettori ricorderà senza troppo sforzo qualche altra forma o accezione diffusa nella propria zona e ignota, o quasi, a poca distanza.

Nota bibliografica:

  • Antonioli-Bracchi 1995: Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, Dizionario etimologico grosino. Con annotazioni di carattere etnografico e storico e repertorio italiano-grosino, Grosio, Biblioteca Comunale, Museo del Costume, 1995.
  • Banfi 1992: Emanuele Banfi, Conoscenza e uso di lessico giovanile a Milano e a Trento, in Il linguaggio giovanile degli anni Novanta. Regole, invenzioni, gioco, a cura di Emanuele Banfi e Alberto A. Sobrero, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 99-148.
  • Biella et al. 2001: Angelo Biella, Virginia Favaro Lanzetti, Luciana Mondini, Gianfranco Scotti, Vocabolario italiano-lecchese, lecchese-italiano, preceduto da una grammatica essenziale e da un saggio di toponomastica lecchese, Oggiono (Lecco), Cattaneo, 2001.
  • Bondardo 1986: Marcello Bondardo, Dizionario etimologico del dialetto veronese, Verona, Centro per la formazione professionale grafica San Zeno, 1986.
  • CFM 2018: Dizionario milanese: milanese-italiano, italiano-milanese, con etimologie, note di grafia e pronuncia, morfologia e sintassi, a cura del Circolo filologico milanese, Milano, Vallardi, 2018.
  • Cherubini 1839-1856: Francesco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Stamperia reale, 1839-1856 (5 voll.).
  • Cornagliotti 2015: REP: Repertorio etimologico piemontese, diretto da Anna Cornagliotti, Torino, Centro studi piemontesi (Ca dë studi piemontèis), 2015.
  • Doria 1987: Mario Doria, Grande dizionario del dialetto triestino, storico, etimologico, fraseologico, con la collaborazione di Claudio Noliani, Trieste, Il meridiano, 1987.
  • Durante-Turato [1975]: Dino Durante, Gianfranco Turato, Dizionario etimologico veneto-italiano, Padova, Erredici, [1975].
  • Faggin 1985: Giorgio Faggin, Vocabolario della lingua friulana, Udine, Del Bianco, 1995 (2 voll.).
  • Fox 2014: Elio Fox, Vocabolario della parlata dialettale contemporanea della città di Trento [...], Trento, Temi, 2014.
  • Gherardi-Moretti 2009: Giacomino Gherardi, Mirko Moretti, Il dialetto di Argenta. L’Arzantàn: vocabolario, glossario etimologico, fonetica, grammatica, sintassi e curiosità del dialetto argentano, Bologna, Pendragon, 2009.
  • Giorgetta-Ghiggi 2010: Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi, Vocabolario del dialetto di Villa di Chiavenna, Grosio, IDEVV – Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca, 2010.
  • Gribaudo 1996: Gianfranco Gribaudo, Ël neuv Gribàud. Dissionari piemontèis, Tèrsa edission, Torino, Daniela Piazza, 1996.
  • Lepri-Vitali 2009: Luigi Lepri, Daniele Vitali, Dizionario Bolognese-Italiano, Italiano-Bolognese / Dizionèri Bulgnais-Itagliàn, Itagliàn-Bulgnais, Bologna, Pendragon, 2009.
  • Membretti-Bracchi 2011: Emanuele Mambretti, Remo Bracchi, Dizionario etimologico-etnografico dei dialetti di Livigno e Trepalle, Grosio, IDEVV – Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca, 2011 (2 voll.).
  • Monti 1848: Pietro Monti, Vocabolario dei dialetti della città e diocesi di Como, con esempi e riscontri di lingue antiche e moderne, Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1848.
  • Naccari-Boscolo 1982: Riccardo Naccari, Giorgio Boscolo, Vocabolario del dialetto chioggiotto, Chioggia, Charis, 1982.
  • Plomteux 1975: Hugo Plomteux, I dialetti della Liguria orientale odierna: la Val Graveglia, Bologna, Pàtron, 1975.
  • Prati 1922: Angelico Prati, Raggranellando, “Archivio glottologico italiano”, XVIII, 1922, pp. 395-471.
  • Prati 1968: Angelico Prati, Etimologie venete, a cura di Gianfranco Folena e Giambattista Pellegrini, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1968.
  • REW Postille: Paolo A. Faré, Postille italiane al “Romanisches Etymologisches Wörterbuch” di W. Meyer Lübke, comprendenti le “Postille italiane e ladine” di Carlo Salvioni, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1972.
  • Tammi 1998: Guido Tammi, Vocabolario piacentino-italiano, Piacenza, Banca di Piacenza, 1998.
  • Zanette 1980: Emilio Zanette, Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, Vittorio Veneto, De Bastiani, 1980.


Barbara Fanini

8 dicembre 2023


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