Quando Arianna fu piantata in asso (a Nasso)

Alcuni lettori ci scrivono in merito all’origine del modo di dire lasciare/piantare in asso e si domandano quale sia la forma corretta tra piantare in asso e piantare in Nasso.

Risposta

Indagare sui modi di dire di una lingua richiede spesso ampie conoscenze non solo di tipo linguistico ma anche antropologiche, storiche e talvolta relative alle tradizioni culturali presenti e passate di un popolo. Non stupisce dunque che siano diversi i modi di dire presenti nella nostra lingua ad avere una storia e un’origine discusse e spesso difficilmente rintracciabili. Tra questi vi è anche lasciare in asso - oggi in uso anche nella variante piantare in asso e nelle forme rimanere/restare in asso -, modo di dire assai comune che significa ‘abbandonare qualcuno bruscamente, lasciarlo solo’ (o naturalmente ‘essere abbandonato bruscamente, lasciato solo’ nel caso di rimanere/restare in asso) e anche ‘lasciare solo qualcuno nel momento della difficoltà’ (cfr. Lurati 2001). Secondo le indicazioni del DELI, la prima attestazione di lasciare in asso si trova nella commedia dei Lucidi del fiorentino Agnolo Firenzuola del 1543 (“che lasciarono la povera Signora in asso senza rendergli niente”), mentre la prima attestazione che troviamo sul GDLI della forma piantare in asso si trova nella novella La coda del diavolo di Verga, pubblicata in Primavera e altri racconti nel 1876 (“È padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la moglie o l’amante”). La forma rimanere in asso è datata 1586 e si rintraccia in una lettera di Filippo Sassetti indirizzata a Francesco Valori (“Può egli essere, che pure è, che voi non mi abbiate scritto, o pure non vi cadesse in pensiero di fare copiare la lettera che voi mi scrivevi, sì che io non mi rimanessi in asso?). Tuttavia, grazie al TLIO, possiamo retrodatare la forma rimanere in asso nel significato di ‘trovarsi in una situazione sfavorevole, essere abbandonati’, per la quale il dizionario riporta due attestazioni: la prima, in un testo anonimo bolognese del XIII secolo intitolato Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei (il cui significato proprio sembrerebbe però quello di ‘essere imprigionati’), e la seconda, appartenente all’area toscana occidentale, in un canzoniere italiano datato prima del 1369:

E a Ravenna mandòno un altro schaco: / doxento de Bologna ne romaxe in asso, / trexento cavagli ne menòn in un schasso / entro Faença.

per ch’io mi veggio rimanere in asso / e come pesce a secco, / et s’io apro di becco / per tencionar di non voler partire, / converrami per forsa d’obedire.

Se rimanere in asso è presente nella nostra lingua già dal XIII secolo, si potrebbe presupporre anche la presenza di lasciare in asso, almeno nell’uso orale, prima del Cinquecento. Quel che è certo è che dal XVI secolo l’uso, sia di lasciare sia di rimanere in asso, è rimasto costante nell’italiano, come dimostrano le ricche attestazioni letterarie (e non solo): dalla Tancia di Michelangelo Buonarroti il Giovane alle Novelle di Verga, dal Fu Mattia Pascal ai racconti di Alberto Moravia (basti guardare, per avere una panoramica esemplificativa, le occorrenze riportate nel GDLI alle voci asso e lasciare).

La sua derivazione, tuttavia, non solo è oggetto di dubbi da parte di molti nostri lettori ma è da secoli discussa anche dai linguisti che hanno espresso nel tempo diverse ipotesi etimologiche. Inoltre, fin dal XVI secolo si registra la presenza, al fianco di lasciare in asso, della variante lasciare in Nasso, dal mito di Arianna, oggetto delle domande dei nostri lettori e argomento di discussione in molti forum e blog in rete.

I dizionari sincronici contemporanei (Zingarelli 2020, Devoto-Oli 2018, Garzanti 2017, GRADIT) riportano solo la forma in asso; dunque, ad oggi, la forma più comune sembrerebbe lasciare/piantare in asso, e l’ipotesi etimologica più accreditata è che essa derivi dal gioco delle carte (l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”) o, più probabilmente, dal fare il punto più basso (cioè l’uno) al gioco dei dadi, come riporta, tra gli altri, il Migliorini-Duro 1958, ripreso a sua volta dal DELI. Tale teoria era ritenuta valida già nel XVIII secolo come ci conferma il testo settecentesco di Sebastiano Pauli sui Modi di dire toscani ricercati nella loro origine. L’ipotesi potrebbe essere avvalorata anche dal fatto che non è insolita la formazione di usi figurati e modi di dire formati con la parola asso che si rifanno al mondo ludico. Si pensi a essere un asso/sei un asso! nel significato di ‘persona che eccelle’, diffuso a partire dall’ambito militare e dell’aviazione (“lo si applicò all’aviatore audace e valoroso che aveva abbattuto dieci aerei nemici” cfr. Lurati 2001) durante la prima guerra mondiale e derivato dal gioco della briscola in cui l’asso è la carta con il valore più alto. Ma anche avere un asso nella manica, che rimanda all’azione scorretta di chi, barando durante il gioco, tiene nascosta nella manica la carta dell’asso per poterla estrarre e giocare al momento giusto. Altri ancora sono i modi di dire non più in uso come gettare i dadi in asso ‘imbattersi in una cattiva sorte’, o asso o sei ‘o nulla o tutto’, fare l’asso ‘non riuscire, fallire’, cadere dal sei nell’asso ‘passare dalla buona alla cattiva sorte’ (una rassegna interessante di modi di dire antichi costruiti con asso si trova in Lurati 2001, e ancora in Pauli 1740, pp. 88-92). E si vedano infine altri antichi modi di dire, affini al nostro, riportati dal TLIO come essere nell’asso ‘trovarsi in una situazione avversa’ e giungere all’asso ‘ridursi in miseria’. Da considerare inoltre l’etimologia stessa della parola asso impiegata all’interno del nostro modo di dire, che il DELI riconduce al latino asse(m) (prestito da una lingua straniera, forse l’etrusco), voce dotta che significava appunto ‘intero, unità’, da cui asse ‘moneta romana’. L’Etimologico specifica che “il significato del lat. assis come ‘unità monetaria’ è stato trasferito al gioco dei dadi per indicare il punto minore, e quindi al gioco delle carte”. Di tutt’altra idea è il DEI che ipotizza una derivazione, che il DELI definisce “molto ipotetica”, dalla voce latina āssus nel significato di ‘arrostito’, poi mutato in ‘senza acqua o liquido’, ‘senza mistura’, ‘puro’, e dunque ‘solo’. Infine il Tommaseo-Bellini, nella definizione di lasciare in asso, scrive: “vale Lasciar solo, Abbandonare. T. Dall’idea d’unità; Absus valeva, del resto, Campo incolto”.

La forma lasciare/piantare in Nasso (talvolta con la minuscola) deriverebbe invece, come detto, dal mito greco di Arianna, figlia del re di Creta Minosse, la quale si innamorò di Teseo, lo aiutò a uccidere il Minotauro e a fuggire dal labirinto grazie al famoso filo di Arianna, e infine scappò con lui. Ciononostante, una volta giunti a Nasso, l’isola più grande delle Cicladi, Teseo la abbandonò, lasciandola lì triste e sola, fino all’arrivo di Bacco (Dioniso per i Greci). Da qui, naturalmente, piantare in Nasso nel significato di ‘abbandonare, lasciare solo qualcuno’, proprio come Teseo fece con Arianna. Nel testo settecentesco di Sebastiano Pauli troviamo inoltre un’altra ipotesi etimologica attribuita al francese Gilles Mènage, detto il Menagio, autore delle Origini della lingua italiana (1669), il quale riconduceva nasso al latino nassum, ovvero la nassa, un particolare strumento utilizzato per catturare i pesci, ma questa ipotesi era già ritenuta poco verosimile dal Pauli stesso e non se ne trovano riscontri in nessun testo successivo.

L’origine greca invece è ancora riportata in diversi repertori di modi di dire, alcuni dei quali considerano la forma in Nasso come originaria. La troviamo, ad esempio, nel DEI e in Frase fatta capo ha: dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni, pubblicato da Zanichelli nel 1992, in cui si sostiene che all’origine la frase fosse piantare in Nasso, ma che poi “nel linguaggio parlato quella n si perdette e si scrisse piantare in asso”; la trattazione prosegue citando l’ottocentesco Vocabolario della lingua italiana del Fanfani che alla voce Nasso scrive: “Nome di un’isola, d’onde è forse venuto il modo di dire Lasciare in Nasso; e come oggi anche si dice Lasciar in asso (ed Asso fu già scritto per quel medesimo che Nasso isola; ed io posseggo un’antica carta topografica dove è battezzata così), e vale Lasciar uno ne’ pericoli senza ajuto e senza consiglio, preso dalla favola d’Arianna lasciata da Teseo nell’isola di Nasso”.

Altri invece, come Gian Luigi Beccaria (Il mare in un imbuto: dove va la lingua italiana, Einaudi, Torino, 2010) e Lurati 2001, considerano l’origine greca un’etimologia popolare (come nei casi di spa e cadavere), piuttosto suggestiva ma “poco probabile”. Dal punto di vista fonologico la locuzione in nasso è certamente più complessa di in asso a causa della vicinanza tra le due nasali n, e ciò potrebbe portare a ipotizzare, più che una semplificazione per assimilazione della seconda n da in nasso a in asso, un caso, come scrive Teresa Poggi Salani (cfr. Poggi Salani 1969, p. 27), di “variante ipercorretta dell’espressione popolare”.

In ogni caso, si registrano attestazioni di lasciare/rimanere in Nasso già a partire dal XVI secolo (non ve ne sono nel corpus TLIO), e la spiegazione paraetimologica è presente da secoli nelle teorie degli studiosi di lingua italiana e negli strumenti lessicografici. Secondo le indicazioni del Pauli, la prime attestazioni si ritrovano nel volgarizzamento del primo libro degli Annali di Tacito di Bernardo Davanzati, pubblicato nel 1596 (“La Nona che gridava, aspettinsi le lettere di Tiberio, lasciata in Nasso fece della necessità virtù”), e nel Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi, poema burlesco pubblicato postumo nel 1676 (“A Celidora poi restata in Nasso, / cioè da’ suoi vassalli rinnegata, / giacché tutti voltato avean mantello, / comandò che baciasse il chiavistello”). Tuttavia, troviamo alla voce lasciare del GDLI un’occorrenza della forma lasciare in Nasso nella commedia Il vecchio amoroso di Donato Giannotti, composta tra il 1531 e il 1536, che dunque consente di retrodatare la forma in questione e anticiparla rispetto alla datazione della variante lasciare in asso (ma non a rimanere in asso):

In vero, è gran crudeltà torre l’onore ad una povera giovane, di qualunque condizione ella si sia, e poi lasciarla in nasso (Donato Giannotti, Il vecchio amoroso, atto I, scena I, in Opere, 2 voll., Firenze, 1850).

Interessante è la posizione degli Accademici della Crusca, i quali inseriscono il proverbio lasciare in Nasso già dalla prima impressione del Vocabolario del 1612; nella terza impressione del 1691, alla voce lasciare, il Vocabolario riporta poi l’attestazione di Agnolo Firenzuola con la variante in Nasso, dove DELI e Pauli, come visto, riportano invece in asso:

[…] Onde il proverbio: Lasciare in Nasso: che è Lasciare uno ne’ pericoli, senza aiuto, e senza consiglio; preso dalla favola d’Arianna, lasciata da Teséo nell’Isola di Nasso. Lat. in periculo inopem consilij, et auxilij deserere.
Fir. Luc. [Agnolo Firenzuola, I Lucidi] Che lasciarono la povera signora in Nasso.

E ancora, alla voce asso della terza impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca leggiamo (il grassetto, come negli esempi precedenti, è nostro):

Lasciare in asso: vale Lasciare in abbandono.
Salv. Granch. 2. 2. [Lionardo Salviati, Il Granchio] Vi pianterò qui, e lascerovvi in asso.

Cecc. Esalt. 4. 13. [Giovanmaria Cecchi, L’esaltazione della Croce] Il riparo è, che io mi vadia con Dio, e lasci il vecchio, e loro, e tutti in asso, e in malóra.
§. Questa maniera di dire, rimasa oggi comunemente al Popolo nell’uso frequentissima, forse è l’istessa, od almeno trae origine dall’altra, Lasciare in Nasso, che vale l’istesso: presa dalla favola d’Arianna abbandonata in Nasso da Teséo.

Nella quarta impressione (1729-1738) si legge infine: “Lasciare in Nasso; o come oggi corrottamente anche si dice Lasciare in asso”. Dunque, fino al XVIII secolo, secondo gli Accademici della Crusca la forma corretta e originaria era lasciare in Nasso, dal mito di Arianna, mentre lasciare in asso, nonostante le attestazioni riportate e l’“uso frequentissimo”, rappresentava la variante popolare “corrotta”.

Infine, nella quinta impressione del Vocabolario (1863-1923), troviamo lasciare in asso alla voce asso senza alcuna specificazione, ma nella trattazione di lasciare si legge: “Lasciare in Nasso, si disse per Lasciare in abbandono; con maniera tolta dalla favola di Bacco e d’Arianna, lasciata da Teseo nell’isola di Nasso; oggi popolarmente Lasciare in asso” a cui seguono gli esempi di Giannotti e Davanzati.

 Il Tommaseo-Bellini alla voce nasso, riprendendo la definizione già vista del Fanfani, ipotizzava una differenza di significato tra lasciare in Nasso ‘lasciare nei pericoli senza aiuto e senza consiglio’ e lasciare in asso per semplicemente ‘lasciare solo’ “come l’asso è uno”; tuttavia, come già affermava Pico Luri di Vassano nella sua opera Modi di dire proverbiali e motti popolari italiani del 1875, gli esempi d’uso dimostrano che fin dal XVI secolo gli scrittori hanno impiegato tanto in asso quanto in Nasso per entrambe le sfumature di significato.

Venendo ad anni più recenti, se nel GDLI troviamo attestate entrambe le forme senza specificazioni di alcun tipo, i dizionari novecenteschi da noi consultati (lo Zingarelli 1917, il Dizionario della lingua e della civiltà italiana contemporanea di Emidio De Felice e Aldo Duro del 1974, il Dizionario della lingua italiana di Palazzi-Folena del 1992, lo Zingarelli 1994) riportano solamente la forma lasciare/rimanere in asso. Lo stesso avviene, come visto, per i dizionari sincronici contemporanei. Dunque al di là delle ipotesi etimologiche, a partire dal XX secolo la forma più popolare e comune è lasciare in asso (e oggi piantare in asso); su Google libri la maggior parte delle occorrenze di “lasciare in Nasso” e “restare in Nasso” risale al XIX secolo e in banche dati come BIZ e DiaCORIS, che raccolgono testi letterari e non solo di differenti epoche, non si trovano attestazioni per in Nasso, fatta eccezione per un’occorrenza settecentesca di “restar in Nasso” in una lettera scritta in francese che cita alcune espressioni italiane, riportata nel numero 13 della rivista “La frusta letteraria”. Il 10/2/2020, tra le pagine in italiano di Google, si trovano in totale 2.216 risultati per le forme all’infinito lasciare/piantare/rimanere/restare in Nasso (e come detto sono moltissime le discussioni in rete riguardo all’origine del detto), mentre per le rispettive forme con in asso si hanno in tutto ben 48.000 risultati.

In conclusione, lasciare in Nasso e lasciare in asso convivono da secoli nell’italiano e né l’una né l’altra forma possono oggi essere considerate errate. Ancora non siamo in grado di stabilire con certezza quale sia la vera origine del modo di dire, sebbene gli strumenti moderni sembrino prediligere la variante in asso, oggi più comune, mettendo spesso fortemente in dubbio la derivazione mitologica che avrebbe dato vita a lasciare in Nasso.


Nota bibliografica:

  • Bruno Migliorini, Aldo Duro, Prontuario etimologico della lingua italiana, Torino, Paravia, 1958.
  • Sebastiano Pauli, Modi di dire toscani ricercati nella loro origine, Venezia, “appresso Simone Occhi”, 1740.
  • Giuseppe Pittàno, Frase fatta capo ha: dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni, Zanichelli, 1992.
  • Dino Provenzal, Perché si dice così?: Origine dei modi di dire, delle locuzioni proverbiali, di tante frasi dell’uso comune, U. Hoepli, 1958.
  • Teresa Poggi Salani, Il lessico della “Tancia” di Michelangelo Buonarroti il Giovane, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1969.

Luisa di Valvasone

4 settembre 2020


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