Quando verità e cronaca chiamano in causa l’onore

Sono arrivate in redazione alcune domande sull’uso e sul valore dell’espressione a onor del vero. Ci viene anche chiesto: è legittima la variante per onor del vero? E anche: è possibile usare l’espressione a onor di cronaca? Oppure si tratta di una sorta di “incrocio” tra a onor del vero e per la cronaca?

Risposta

Quello di onore è un concetto molto ampio e dai contorni difficilmente definibili almeno per due ordini di ragioni: la lontanissima e incerta origine della parola e, ancor di più la varietà dei significati che si sono stratificati nel corso della storia, in un processo di continuo modellamento sulle trasformazioni di usi, valori e criteri di giudizio dei più diversi strati sociali nei passaggi epocali della storia antica e moderna del nostro paese.

In merito alla questione etimologica, abbiamo poco da aggiungere rispetto a quello che ci dicono i più aggiornati dizionari etimologici e dobbiamo limitarci a segnalarne la diretta discendenza dal latino honor(em) (antico honos, in epoca repubblicana anche nome di un dio particolarmente venerato dai militari, con successivo passaggio da s a r, per rotacismo, in analogia con altri sostantivi della terza declinazione tipo dolor, -oris), da cui però non si risale a radici più antiche che ci avrebbero potuto tramandare il significato primigenio. Difficile spiegare invece la vocale radicale o in un tema in -es riscontrabile in poche altre parole latine, tra cui onestus, onus, -eris e derivati (con onesto e onestà la parola condivide la sfera semantica della ‘lealtà’, della ‘rettitudine morale’). Non si registrano neanche confronti sicuri con altre lingue antiche e sempre dal latino passano il francese moderno honneur (in antico francese e in occitano enor), il catalano onor e lo spagnolo honor (cfr. l’Etimologico di Nocentini).

Oltre a uno spettro fortemente polisemico, il concetto di onore mantiene una doppia visione prospettica a seconda se lo si guardi come interno al soggetto, che sarà quindi ‘dignitoso, onorevole’ o esterno ad esso e quindi come un omaggio tributato a qualcuno o qualcosa in quanto ‘degno di onore/i’: da un lato quindi una concezione che rimanda alle qualità di lealtà, coraggio, rettitudine, di un soggetto o di una comunità, che ne determinano, nel loro insieme, la levatura morale; dall’altro quella del riconoscimento ufficiale e sociale di tali doti, che si manifesta attraverso l’attribuzione di rispetto e celebrazione dall’esterno, con un conseguente accrescimento della dignità di chi appunto è oggetto di tali “onori” (da qui, solo per fare un esempio, l’onorario che si dà ai professionisti resta a testimoniare un riconoscimento per una prestazione che era anticamente resa a titolo gratuito). Questo circolo virtuoso così ampio e ricco di sfumature è magistralmente sintetizzato in uno dei primi esempi di attestazione del termine contenuto nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612: “onore non è altro, che rendimento di riverenza, in testimonianza di virtudi”.

La sua plasticità, che l’ha resa adattabile a situazioni e contesti diastraticamente e diacronicamente anche molto lontane, ha favorito l’impiego della parola onore in molte locuzioni ed espressioni idiomatiche. Nel suo Dizionario dei modi di dire (Lurati 2001), Ottavio Lurati nota che le molte locuzioni formatesi intorno al nucleo onore (come punto d’onore, posto d’onore, uomo d’onore, fargli il debito onore) iniziano a essere frequenti a partire dal Cinquecento. I dizionari storici, però, di impianto letterario e sulla scia delle prime edizioni della Crusca, appaiono molto contenuti nel registrare esempi anteriori alla fine del Seicento di questo genere di costrutti, più comuni nella lingua parlata o, eventualmente, in scritture meno controllate. Dal Settecento, anche per influsso del francese, la fraseologia intorno al nucleo onore occupa nuovi spazi ed entra in ambiti poco o per niente frequentati in precedenza. In Italia, è soprattutto nell’Ottocento che le questioni d’onore (spesso portate alle estreme conseguenze della sfida a duello, nonostante la sua illegalità) iniziano ad assumere grande rilievo per la borghesia emergente e a coinvolgere quindi politici, giornalisti, intellettuali, i quali, prima di tutto, sono chiamati a garantire, anche sul proprio onore, della veridicità e affidabilità delle loro affermazioni e del loro agire professionale. Le espressioni che ci propongono i nostri interlocutori, pur attraverso percorsi e da punti di vista diversi, rientrano in questa tipologia.

Ma vediamo nel dettaglio. La locuzione avverbiale a(d) onor del vero è usata, solitamente in incisi, per affermare l’onestà, la verità delle affermazioni che si stanno facendo e, seppur con maggior formalità ed enfasi, è analoga a forme quali in verità, per la verità, a dire il vero, in realtà o al più raro e ricercato, a lode del vero. Possiamo far risalire ad Aristotele il concetto di ‘onorare la verità’ anche a discapito dell’amicizia, collocando il Vero quindi al di sopra delle relazioni personali e affettive: l’idea è espressa, ancora senza riferirsi al concetto di onore, per esempio nell’Etica Nicomachea (1096a, 11-17):

Forse è meglio fare oggetto d’indagine il bene universale e discutere a fondo quale significato abbia, anche se tale ricerca è sgradevole per il fatto che sono amici nostri gli uomini che hanno introdotto la dottrina delle Idee. Ma si può certamente ritenere più opportuno, anzi doveroso, almeno per la salvaguardia della verità, lasciar perdere i sentimenti personali, soprattutto quando si è filosofi: infatti, pur essendoci cari entrambi, è sacro dovere onorare di più la verità” (Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Claudio Mazzarelli, Milano, Bompiani, 1979, Libro I.6).

In relazione a questa affermazione, con cui Aristotele si accingeva a esporre la sua critica all’idea platonica di Bene, la tradizione latina gli ha attribuito la sentenza “amicus Plato, sed magis amica veritas”, la stessa massima che, con sostituzione del nome (“amicus Socrates, sed magis amica veritas”), è stata riferita a Platone, forse sulla base di un passo del Fedone (XL: “[91c] E voi, se mi date ascolto, dovete preoccuparvi ben poco di Socrate e molto più invece della verità: e così, se vi pare che io dica il vero, e voi datemi il vostro consenso; se non vi pare, datemi contro con ogni vostro argomento, e state attenti che io, per troppo amore alla mia dimostrazione, non inganni me stesso e voi, e non me ne vada via di qui lasciandovi in cuore il pungiglione come fanno le api”), in cui viene attribuito a Socrate il richiamo agli amici che lo assistono nelle ultime ore di vita di preoccuparsi più della ricerca della Verità che di lui.

La prima formulazione dello stesso concetto che inserisce il verbo onorare e quindi il riferimento esplicito all’onore, al dovere di onorare la verità si ritrova in Lutero, De servo arbitrio (1525): “amicus Plato, amicus Socrates, sed prehonoranda veritas” (‘amico [è] Platone, amico [è] Socrate, ma al di sopra di tutto è da onorare la verità’). Sempre in rapporto all’amicizia, l’imperativo morale di onorare la verità è presente nella Sofonisba di Giovan Giorgio Trissino (pubblicata per la prima volta nel 1524, ma scritta tra il 1514 e il 1515): “Io dirò ’l vero a voi, sia che si voglia, / Che sempre si dee fare onore al vero”.

In epoca moderna l’espressione appare associata per lo più all’ambito del diritto (solo per inciso si ricorda il titolo del volume di Patrizia Bellucci, A onor del vero. Fondamenti di linguistica giudiziaria, Torino, Utet, 2005), propria delle strategie argomentative e retoriche impiegate nelle arringhe delle parti coinvolte nei processi, che, proprio per questo, quando sia trasferita in contesti comuni, assume una venatura ironica e dissonante. In merito alla costruzione della locuzione, il consiglio è di mantenere la a come preposizione reggente: dobbiamo infatti considerare che si tratta di un costrutto cristallizzato in questa forma in quanto ricalcato direttamente dall’espressione latina ad honorem (‘a/per onore’, presente anche nell’espressione che continuiamo a usare in latino laurea ad honorem), così come anche, ad esempio, per la formula a lode e gloria (dal latino ecclesiastico ad laudem et gloriam). Benché la possibile variante per onor del vero non ne comprometta il significato, la forma canonica è ben salda e decisamente prevalente nell’uso: per avere un quadro d’insieme, anche solo indicativo, in rete (nelle pagine in italiano di Google consultate l’11/12/2023) il rapporto è di 235.000 risultati per “ad onor del vero” (più 149.000 per la variante, preferibile, senza d eufonica “a onor del vero”) a fronte di 11.000 di “per onor del vero”. Tra le molte possibili attestazioni d’autore che vanno a confermare la prevalenza, anche nella lingua letteraria, della variante a onor del vero, riporto solo un passo tratto dall’Introduzione ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni (dall’edizione curata da Santino Caramella, Bari, Laterza, 1933, p. 6): “Né in questo sarebbe stata la difficoltà: giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano”: onorare la verità, o almeno garantire di farlo da parte di una persona degna di rispetto e quindi onorevole, è presentato come un dovere morale, una riprova dell’onestà e rettitudine del parlante o, in questo caso, dello scrivente.

La locuzione a onor(e) di cronaca, oggetto della domanda di un altro lettore, può essere spiegata, ed effettivamente così ipotizza anche lo stesso mittente del quesito, come il prodotto della sovrapposizione della formula per la cronaca (che nel Nuovo De Mauro troviamo classificata con la marca di CO[mune] e spiegata come espressione “per introdurre un’informazione attenuandone il rilievo e puntualizzando la propria obiettività: per la cronaca, oggi ho fatto due ore di straordinario”) col valore di ‘per dire la verità’, ‘per dare un’informazione veritiera’ all’altra espressione a onor del vero nel significato appena visto di ‘in verità’. A favorire questa ibridazione possono aver influito anche altre espressioni simili in cui si trovano associate le parole onore come ‘atto di rispetto e riconoscimento di valore e dignità’ e cronaca nel senso di ‘resoconto fedele di fatti accaduti’: in particolare credo si debba considerare il rilievo, positivo ma anche negativo, che può dare ai protagonisti la pubblicazione di un evento o di un’azione che li riguardi. Per esprimere questo tipo di raggiungimento della notorietà in italiano abbiamo un’altra espressione, salire agli onori della cronaca, in cui però la preposizione a è imposta dalla reggenza del verbo salire nell’accezione di ‘raggiungere una posizione prestigiosa, assurgere una posizione elevata’ (Cfr. Sabatini-Coletti 2024). Tale espressione, che significa ‘meritare la ribalta’, ‘distinguersi per meriti (o demeriti) tanto da fare notizia’, mette insieme, appunto, onore e cronaca e la si ritrova anche in ambito religioso nella versione salire agli onori della porpora e salire agli onori dell’altare per riferirsi al raggiungimento di alti incarichi nella carriera ecclesiastica oppure alla beatificazione. Da notare che, in tutti questi casi, viene usata la forma plurale onori nel significato di ‘riconoscimenti formali’, ‘onorificenze’ attribuite da un’autorità superiore a chi abbia dimostrato speciale dignità e onore nello svolgere i propri compiti. Come si fanno gli onori di casa accogliendo con le dovute attenzioni un ospite importante, così si dà rilievo a qualcuno rendendo pubbliche le sue azioni particolarmente meritevoli (oppure spregevoli: in tal caso la locuzione assume ovviamente senso ironico). Anche in questo caso possiamo, solo a titolo indicativo, considerare i risultati che Google restituisce per le diverse versioni (pagine in italiano consultate l’11/12/2023): “a onor di cronaca”: 12.300 risultati; “ad onor di cronaca”: 18.700; “per onor di cronaca”: 23.300; “salire agli onori della cronaca”: 3.760 (“salito agli onori della cronaca”: 22.900 risultati; “salita...”: 12.800; “saliti...”: 1960; “salite...”: 1590). Anche qui, seppur con uno scarto minore, appare prevalente la forma con la preposizione a, probabilmente attratta sia dalla presenza di onore (che ripropone la formulazione di altre locuzioni simili, del tipo a onor del vero e altre già citate) sia dalla reggenza del verbo salire, che, anche se non esplicitamente espresso, sembra sottostare al costrutto.

La scelta tra le varianti fin qui prese in esame dipenderà dal significato che si intende esprimere: se vogliamo ribadire la veridicità e affidabilità di quanto si sta dichiarando, in particolare sottolineando qualcosa di non scontato (analogo a: “a dire la verità, a essere sinceri”), è preferibile utilizzare a onor del vero, sempre tenendo conto della sfumatura ironica e scherzosa che può assumere in contesti non particolarmente formali; se invece l’intento è quello di fornire un’informazione mettendo in rilievo qualcosa che al destinatario sembra essere sfuggito nella sua piena oggettività (ad es.: “per la cronaca, è mezzora che ti aspetto”, come dire: “forse non ti sei reso conto, ma sei in ritardo!”), mantenendo però un tono attenuato, allora per la cronaca è senz’altro più adatta; l’unica formulazione che contempla la coesistenza di onore (o meglio onori) e cronaca è (salire) agli onori della cronaca con il significato di ‘fare notizia, raggiungere la visibilità pubblica per meriti (o demeriti) significativi’.


Raffaella Setti

7 agosto 2024


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