Alcuni lettori ci chiedono se ci sia differenza tra salvataggio e salvamento, termine, quest’ultimo, la cui presenza è stata rilevata nel nuoto e anche in una puntata di SuperQuark andata in onda tempo fa dedicata ai pericoli del mare.
In italiano sono numerosi i sostantivi che indicano l’azione del salvare (o del salvarsi) oppure la condizione di chi si salva (o si è salvato), tanto che proprio con riferimento ad essi in un articolo di qualche anno fa ho parlato di “polimorfia derivativa” (cfr. Paolo D’Achille, Un caso di polimorfia derivativa nella storia dell’italiano: l’azione di salvare/salvarsi e la condizione di essere salvo, in “Studi di filologia italiana”, LXXII, 2014, pp. 239-252). In verità, non tutti sono direttamente derivati dal verbo salvare, visto che tra essi figurano anche latinismi e prestiti, ma tutti condividono la radice salv‑, che immediatamente li riconduce al verbo salvare. Oltre a salvamento e a salvataggio, ricordati dai nostri lettori, la lessicografia sincronica registra anche salvezza, che indica, se non un’azione, almeno una condizione, e non una qualità, come le altre formazioni deaggettivali in ‑ezza e che nel corso dei secoli è diventata la parola più diffusa (il GRADIT la colloca nel Vocabolario di base, nella sezione del lessico di “alto uso”, mentre salvataggio e salvamento sono fatti rientrare nel vocabolario comune), l’ormai obsoleto salvazione (con diverse varianti tra cui salvagione) e salvo (in uso solo nella locuzione in salvo). La lessicografia storica (GDLI) registra anche varie altre forme: salvanza (accolta anche nel GRADIT), salva, salvigia, salvità, nonché il desueto tecnicismo salvaggio ‘compenso offerto ai marinai che si sono adoperati per proteggere la nave o hanno recuperato attrezzi caduti in acqua’.
Per concentrarci sui due vocaboli al centro dell’attenzione dei nostri lettori, salvamento è il termine più antico, documentato già nella prima metà del sec. XII nel Conto navale pisano, dove – vista anche la semantica (si parla di “Salvamento di taule”, che può significare ‘custodia’ oppure ‘restauro’) – è ipotizzabile la derivazione per suffissazione da salvare e non dal latino (ecclesiastico) salvamĕntum, come viene generalmente indicato nella lessicografia. Ben documentato nei primi secoli, in cui era in concorrenza con salvazione, salvamento ha poi subito un progressivo declino e nell’italiano di oggi sopravvive nell’uso colto, specie con riferimento alla salvezza dell’anima (in particolare nell’espressione trarre a salvamento) ma anche come termine specialistico del nuoto, come “disciplina sportiva e agonistica che insegna tecniche e operazioni di salvataggio in acqua” (GRADIT). Anche secondo il Vocabolario Treccani online salvamento è “Ormai raro col sign. di salvataggio, fuorché nel nuoto”, nel cui ambito si citano la sezione salvamento della Federazione Italiana Nuoto, il nuoto per salvamento (o anche semplicemente salvamento), i brevetti di abilità nel salvamento. Quanto a salvataggio, si tratta di un francesismo entrato in italiano nell’Ottocento, modellato sul francese sauvetage, derivato dal verbo sauver ‘salvare’, in cui tra la base e il suffisso si è inserito il segmento ‑et‑, tratto da sauveté ‘salvezza’, per evitare l’omonimia con sauvage ‘selvaggio’.
I due termini sono equivalenti solo nel senso di ‘il salvare’, ‘il salvarsi’, in cui salvataggio prevale largamente (a parte l’uso specialistico nel nuoto di salvamento, rilevato da un lettore). Ma salvataggio non può essere usato, diversamente da salvamento, nel senso di ‘salvezza’, mentre ha sviluppato il senso figurato di ‘intervento per porre rimedio a una situazione gravemente compromessa’ (si parla periodicamente, sui giornali, del salvataggio dell’Alitalia) e ha assunto significati particolari (preclusi a salvamento) nel calcio (salvataggio del portiere, sulla linea, ecc.) e nell’informatica (‘operazione con cui si registrano nella memoria centrale del computer o su un supporto magnetico i dati presenti nella memoria di lavoro’; GRADIT), in cui l’unica alternativa possibile sembrerebbe salvata voce priva ancora, credo, di attestazioni lessicografiche, ma ben documentata in rete e usatissima almeno a Roma (nella cui parlata i deverbali e i denominali in -ata sono particolarmente frequenti).
Paolo D'Achille
4 giugno 2021
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