Un giovane lettore ci chiede se il termine sdigiunino, che compare spesso in rete negli interventi dello chef Giorgione, costituisca una sua invenzione o se non si tratti invece di una parola italiana, a cui il cuoco potrebbe aver dato un nuovo significato.
Uno spuntino, una merenda, uno spezzafame, in poche parole... uno sdigiunino. Con questa parola lo chef Giorgione (pseudonimo di Giorgio Brachiesi, ristoratore, gastronomo e conduttore televisivo) indica un piccolo pasto, spesso dedicato ai bambini (ma anche agli adulti), da introdurre per lo più a metà mattinata o a metà pomeriggio:
“[I bambini] [n]on vengono educati al sapore. I genitori non hanno più il tempo per fargli quei panini con il pomodoro ‘sfracagnato’, burro e sale, gli danno quelle merendine che gli foderano la bocca di sapori non veri... Io sui social faccio gli ‘sdigiunini’ proprio per dire: ‘Signori, tiriamo fuori qualcosa che abbiamo in casa, mangiamo bene’. Le merendine vengono trattate con l’alcol, vogliamo fare di questi bimbi dei piccoli alcolizzati?”. (Massimo Balsamo, Nemesi dei vegani, il chilometro buono, il successo: parla Giorgione, ilgiornale.it, 10/7/2023)
Chiariamo subito che non si tratta di una parola nuova, anzi, tutt’altro. Secondo una prima interpretazione, sdigiunino può essere spiegata come la forma diminutiva, ottenuta attraverso il suffisso -ino, di sdigiuno, voce ben attestata nell’italiano dell’Ottocento, derivante per conversione dal verbo sdigiunarsi (derivato a sua volta dal verbo digiunare con il prefisso privativo s-), che indica ‘pasto che rompe il digiuno’. La parola sdigiuno, registrata già come obsoleta dal Tommaseo-Bellini e poi inserita nel GDLI con un’attestazione di Antonio Bresciani (letterato gesuita, attivo tra il XVIII e il XIX secolo), poteva avere diversi referenti a seconda di quale fosse il digiuno che veniva interrotto attraverso questo particolare pasto. Nei testi di ambito religioso, lo sdigiuno era il pasto che rompeva il digiuno prescritto dalla Chiesa [1], in altri casi, un piccolissimo pasto prima della colazione (a volte intesa come ‘colazione’ altre volte come ‘pranzo’) [2], in altri casi ancora la colazione stessa; poteva essere anche uno spuntino [3] o un vero e proprio pasto, spesso consumato a mezzogiorno [4] e [5] (sulle denominazioni dei pasti si veda la risposta di Annalisa Nesi):
[1] Da qualche tempo però si anticipa di qualche ora la refezione; ma il digiuno è sì completo, che l’astinenza è prescritta fino dal bere e dal fumare; e venuta l’ora dello sdigiuno, cioè finito il vespro, si comincia per una piccola refezione di caffè, pane e frutta, e per fare la fumata; il pasto poi è protratto fino alla sera. (Teodoro Dalfi, Viaggio biblico in Oriente, tomo II (Egitto), Torino, Tipografia Carlo Pavale e Compagnia, 1876, p. 347)
[2] La giornata d’uno studente pertanto è distribuita così: alzata da letto alle 7 ½; alle 8 servizio religioso [...]; alle 9 sdigiuno; dalle 10 all’una lezioni; quindi una piccola colazione; dalle due alle sei studio od esercizi ginnastici; alle sei pranzo; la sera in Collegio od al club. (Descrizione del collegio inglese, in Antonio Rolando, L’educazione in Italia in ordine alla vita pubblica, Napoli, Antonio Morano, 1878, p. 109)
[3] Una sera al cader del sole, mentre l’apostolo orava sollevato in alta contemplazione, ed ecco Claudia Sabinilla bussava alla sua celletta secreta, ed avvertirlo dell’ora dello sdigiuno. (Giuseppe Franco, Simon Pietro e Simon Mago, Roma, Tipi della Civiltà Cattolica, 1868, pp. 65-66)
[4] Benissimo, i nostri vecchi d’accordo co’ Romani chiamavano cena il pasto serale; pranzo si diceva, o più modestamente desinare, il meridiano, gallicamente illeggiadrito nel degiuné; colazione, il rifocillamento mattutino. Da’ contadini quel mangiare sul mezzodì è anche detto sdigiuno; ma è cosa diversa da’ nostri degiuné abbondanti. (Augusto Conti, Nuovi discorsi del tempo o Famiglia, Patria e Dio, parte I, Famiglia, Firenze, Scuola Tipografica Salesiana, 1896, pp. 148-149)
[5] Mezzogiorno! Esclamò l’ospite sorpreso. Oh come vola il tempo, passato in compagnia dei dotti! Ma Padre Guardiano, ho accettato lo sdigiuno appena giunto quassù; adesso non posso permettere... (L’Arnia Marchigiana e l’Arnia Poliforme, in “L’apicoltura razionale risorta in Italia” IV, 7, luglio 1888, p. 106)
La diffusione del termine nel corso dell’Ottocento si deve all’influsso del francese déjeuner (da cui petit-déjeuner ‘colazione’), con cui si indica ‘pasto quotidiano la cui natura e orario variano a seconda dell’epoca, della regione o una particolare cultura’ (traduz. mia di “repas quotien dont la nature et l’horaire sont variables suivant l’époque, la région ou une culture particulière” dal Trésor de la Langue Française informatisé):
Credo dunque che sì vicino non le fosse da poterla vedere anche inferma; e codesta baja sarà quindi una zuppa in bocca ch’egli si fece da sé, e non un déjeuner, ossia uno sdigiuno di Madonna. (Giampiero Pietropoli, Il Petrarca impugnato dal Petrarca, più maturi riflessi del dottore Giampietro Pietropoli, Venezia, Tipografia Alvisopoli, 1818, pp. 219-220)
Oggi la parola sdigiuno ha pochissime occorrenze; la ritroviamo in testi di ambito religioso in relazione al pasto che rompe un digiuno sacro, come per esempio quello proprio degli ebrei:
Alle 16, arriva l’altra parte della famiglia, mio cognato con i due figli e si mettono insieme in salone a studiare e pregare fino al tramonto, ogni anno si sa esattamente al minuto spaccato quando si può ricominciare a mangiare e bere. Ci dirigiamo verso casa di mia suocera dove tutto è pronto per la cena dello sdigiuno. E qui, si potrebbe parafrasare l’incipit di Anna Karenina dove ogni famiglia prende digiuno nello stesso modo (polpetta non spezza digiuno dicono gli ebrei romani) mentre ogni famiglia sdigiuna a modo suo. Per gli ebrei romani, la cena principale è quando inizia Kippur, mentre per i tripolini è quella quando finisce. L’unica caratteristica in comune è il brodo. (Elisabetta Fiorito, Amori e pandemie, Milano, Gruppo 24 Ore, 2021 [versione digitalizzata])
Tornando alla forma diminutiva sdigiunino, portata in auge dallo chef Giorgione (nato a Roma ma cresciuto in Umbria), dobbiamo precisare che si tratta quasi sicuramente di una voce che ha avuto particolare fortuna nelle varietà dialettali umbre o comunque di area mediana o perimediana: tutte le attestazioni (compresa la prima, risalente al 1906) rilevate sul web o su Google libri sono contenute in testi che fanno riferimento all’area umbra o i cui autori hanno origini umbre:
Il vitto è uguale per uomini e donne essendo sempre i pasti in comune. Per la mietitura i pasti sono cinque: sdigiunino a punta di giorno, colazione verso le 9, pranzo verso mezzodì, merenda verso le 5, cena a notte. (Emanuele Sella, Le condizioni economiche dei contadini dell’Umbria, in “La Riforma Sociale”, XIII, 16 (1906), pp. 581-601, a p. 600)
In questo testo, che tratta, non a caso, dei contadini umbri, lo sdigiunino corrisponde al primissimo pasto dopo il digiuno notturno, addirittura prima della colazione. Ritroviamo la parola in diversi testi che trattano ricette tipiche umbre [6] e in un recentissimo romanzo [7], che ha come protagonista il Perugino, pittore umbro:
[6] La rocciata con l’erba o fojata (così è chiamata nelle zone di Sellano). Una specialità umbra, dalle origini antichissime. Una torta salata, un modo gustoso per spezzare la fame, un ottimo “sdigiunino” (così è detto lo spezza-fame folignate) con un buon bicchiere di vino. (La rocciata con l’erba o fojata, helloumbria.it, 25/9/2018; da notare la glossa con il composto verbo + nome spezza-fame, registrato nei Neologismi Treccani, nella forma univerbata, senza trattino, con data appunto 2018).
[7] Mentre erano a fare il solito sdigiunino dall’oste, Menco andò ansioso all’orto dato che non vedeva la ragazza da qualche mese e la trovò che non voleva mostrarsi se non voltandogli la schiena. (Mariangela Menghini, Pietro mio, Padova, Ciesse edizioni, 2023)
Le attestazioni, che fanno riferimento a pasti di diversa natura, registrano un cambiamento semantico del termine: da ‘pasto che rompe il digiuno di prima mattina’ a ‘merenda’. Confrontando i vocabolari dialettali dell’Umbria e della Tuscia (zona affine dal punto di vista dialettale) e i dizionari di base toscana, notiamo che il verbo di partenza, sdigiunare / sdigiunarsi non è considerabile “italiano” a tutti gli effetti, visto che è registrato in dizionari che documentano l’uso nella Firenze tardo-ottocentesca (come il Giorgini-Broglio e il Vocabolario dell’uso toscano di Pietro Fanfani, Firenze, G. Barbèra, 1863) ma non nei dizionari italiani più recenti, come per. es. il De Felice-Duro, la cui prima ediz. è del 1974; anche il verbo sdeggiunasse ‘sdigiunarsi’ (in tutte le varianti fono-morfologiche) è ben attestato in area umbra e viterbese non solo con il significato registrato dalla maggior parte dei dizionari di ‘mangiare qualcosa per la prima volta nella giornata’ (Tommaseo-Bellini, GDLI, GRADIT, Devoto-Oli 2023, Zingarelli 2024, Vocabolario Treccani online), ma anche con quello di ‘mangiare voracemente’, ‘ingozzarsi’ (come conseguenza di un periodo di digiuno prolungato, cfr. Petroselli 2010, s.v.): s’è sdiggiunato! significa ‘quanto ha mangiato!’; la diffusione, oltre alla forma sdiggiuno con significato di ‘prima colazione (durante i lavori campestri)’ (cfr. Mattesini 1992, s.v.), anche di quelle diminutive sdiggiunarellu (a Foligno e a Spello, in provincia di Perugia) ‘prima colazione consumata dai mietitori la mattina presto’, che spesso “[c]onsisteva in una fetta di pane, una fetta di capocollo e un bicchiere di vino” (cfr. Bruschi 1980 e Pasquini 1993, s.vv.), e sdigiunino (nel Perugino) “prima colazione a base di fave, formaggio e prosciutto (durante i lavori campestri)” (Moretti 1973, s.v.).
Osservando da una parte la scarsa fortuna della parola sdigiuno nell’italiano contemporaneo, dall’altra la diffusione della forma sdigiunino in area umbra, e considerando che il suffisso diminutivo preferito in quest’area è -ellu/o, anche preceduto dall’infisso -er/-ar, potremmo considerare una seconda ipotesi derivativa: sdigiunino potrebbe essere interpretato come un nome d’agente, derivante direttamente dal verbo sdigiunare, con l’aggiunta del suffisso agentivo -ino, che troviamo in altri paradigmi derivativi per indicare l’oggetto/la persona che serve a compiere o che compie l’azione del verbo; così come stendino da stendere, colino da colare, imbianchino da imbiancare, sdigiunino vale ‘ciò che serve a rompere il digiuno’. Questa seconda ipotesi, tuttavia, appare meno convincente di quella esposta precedentemente. La preferenza del suffisso -ino, a discapito di -ello (con l’interfisso -ar-: sdiggiunarellu), infatti, si può spiegare sia col modello fornito da spuntino, sia con l’influsso delle varietà toscane: le inchieste di ALT-web registrano per ‘merenda’, prevalentemente per il Grossetano, ma anche in area aretina, senese e livornese (una sola attestazione nel Lucchese) la forma merendino, al maschile.
Possiamo finalmente tirare le fila: dal verbo sdigiunarsi, la cui prima attestazione letteraria, di area senese, risale al XV secolo, con il significato di ‘mangiare per la prima volta durante la giornata’, deriva il sostantivo sdigiuno, che ha trovato largo impiego nel corso dell’Ottocento per indicare diverse tipologie di pasto atte per lo più a rompere il digiuno. La diffusione di sdigiunarsi e sdigiuno è stata facilitata non solo dall’assonanza del verbo con desinare (dal lat. volg. *disjejunare ‘rompere il digiuno’ attraverso l’antico francese disner) ma anche, nel corso del XIX secolo, dal francese déjeuner (sia verbo sia sostantivo).
Verbo e deverbale hanno trovato fortuna nelle varietà dialettali centrali, e in particolar modo quelle umbre, con i significati, rispettivamente, di ‘mangiare voracemente’ e ‘primo pasto della giornata lavorativa dei contadini’. L’abbandono progressivo dei lavori campestri e della realtà contadina ha portato inevitabilmente a uno slittamento semantico del termine, soprattutto nelle sue forme diminutive: da primissimo pasto contadino a merenda, spezzafame.
Leggendo le definizioni delle forme diminutive di sdigiuno dei vocabolari dialettali umbri, notiamo che gli sdigiunini di oggi mantengono vivo il legame con il passato; le merende di Giorgione, lungi dall’essere degli amuse-bouche, sono pasti che ben ricordano le antiche colazioni contadine fatte di pane, formaggio, capocollo e ogni sorta di prelibatezza locale.
Nota bibliografica
Miriam Di Carlo
31 gennaio 2024
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