Sono giunti vari quesiti a proposito dell’espressione e rotti, usata per indicare la parte eccedente in una quantificazione approssimativa: in particolare, qualcuno dubita della corretta segmentazione – e quindi grafia – della locuzione (e rotti, oppure erotti, oppure errotti?), altri si chiedono quale sia il suo significato originario.
In espressioni come duecento euro e rotti (‘poco più di duecento euro’), oppure lungo due metri e rotti (‘poco più di due metri’), la locuzione e rotti eredita un termine comune nel linguaggio della matematica medievale e poi progressivamente uscito dall’uso, cioè rotto nel senso di ‘numero frazionario’, ‘frazione’. Esempi di questo uso si trovano già nei Libri d’abaco del Trecento, cioè negli antenati dei moderni manuali di aritmetica e d’algebra: è ad esempio il caso delle Regoluzze di Paolo dell’Abbaco, un testo trecentesco conservato dal codice 2511 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (edito da Gino Arrighi per i tipi della Domus Galileiana di Pisa, nel 1964); o ancora, del Libro d’abaco pisano del primo Trecento pubblicato da Andrea Bocchi negli “Studi linguistici italiani” del 2006 (XXXII/1, pp. 15-77: p. 42), in cui si legge: “quando li rotti del numero sono piùe che sana parte” (cioè quando la parte frazionaria è più complessa di quella intera). Ma la distinzione tra interi e rotti (oggi diremmo piuttosto: interi e frazionari, o meglio razionali) si ritrova ancora in trattati e manuali ottocenteschi, anche scolastici: ad esempio, fin nel titolo delle Regole ragionate dei rotti, decimali, denominati, ad uso dei fanciulli (Napoli, pei tipi del Cirillo, 1840) di Michele Geremicca.
Indicare una quantità numerica aggiungendo l’espressione e rotti significava dunque, in origine, riferirsi alle frazioni o ai decimali di cui non si tiene conto esattamente. Per questa via, rotto (soprattutto al plurale) è stato impiegato nella storia dell’italiano anche nel senso di ‘spicciolo’, o ancor più generalmente di ‘sottomultiplo’. Esempi, anche letterari, di questi usi si ritrovano nel Grande dizionario della lingua italiana GDLI fondato da Salvatore Battaglia, alla voce rotto, accezione n. 68: “Per lo più al plur. Quantità di denaro che eccede la cifra tonda di una somma; parte frazionaria di un insieme”, con attestazioni che vanno dal cinquecentista Vincenzio Borghini allo scrittore novecentesco Alberto Moravia (“Gli altri sei milioni e rotti dove stanno?”, Nuovi racconti romani, Milano, Bompiani, 1959, p. 499).
Poiché rotto nel senso di ‘frazione’ è in origine maschile (essendo sottointeso numero), l’espressione e rotti è corretta anche in presenza di unità di misura femminili (quindi: camminammo per tre miglia e rotti), ma è frequente, anche in testi letterari, trovare formule come “seicentomila lire e rotte” (così Aldo Busi, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, Milano, Mondadori, 1995, p. 32), che mostrano come il sintagma e rotti tenda comunque ad accordarsi nel genere con l’elemento cui si riferisce, specie quando si trova fra il numerale e l’unità di misura (ecco dunque “cento e rotte miglia” nella bella traduzione di Susanna Basso di Troppa felicità di Alice Munro, Torino, Einaudi, 2011, p. 3). Rotto recupera qui l’originario valore aggettivale equivalente a diviso, fratto: e si noti che anche questi participi passati hanno tutt’oggi un uso verbale ellittico nel linguaggio della matematica (si pensi a espressioni come cinque fratto due, cinque diviso due).
Il fatto che in italiano esista anche il participio passato erotto (da erompere), e il fatto che nello standard di base toscana e in molte varietà regionali d’italiano il cosiddetto raddoppiamento fonosintattico provocato da alcuni monosillabi, tra i quali la congiunzione e, faccia pronunciare e rotti con r- rafforzata possono dare luogo a interpretazioni errate della sequenza e rotti, che è l’unica corretta.
Lorenzo Tomasin
17 marzo 2025
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