Si finisce sempre il (da) mangiare nel piatto

Molti lettori ci chiedono se sia corretto usare il mangiare per indicare il cibo. Un lettore inoltre vorrebbe sapere se si possa usare la locuzione da mangiare con questo medesimo significato.

Risposta

I quesiti dei nostri lettori non sono affatto banali e anzi mettono in luce uno dei meccanismi tramite cui l’italiano (ma anche altre lingue) forma parole nuove: la conversione, ossia quel processo per cui una parola passa da una categoria funzionale (aggettivo, nome, verbo, ecc.) a un’altra, senza l’aggiunta di morfemi derivativi (suffissi o prefissi), cambiando di significato. In italiano si hanno alcuni esempi in cui si è avuta la conversione da verbo a nome, secondo un’evoluzione che spesso affonda le sue origini nel latino stesso: basti citare i participi presenti e passati ormai lessicalizzati (ossia sganciati dalla funzione di verbo, con autonomia lessicale) come il presidente o l’attentato, i participi futuri latini come il nascituro e il futuro, forme riconducibili al gerundivo come il laureando e voci verbali già coniugate come il credo. Tutte queste forme hanno perso qualsiasi caratteristica verbale e sono diventati a tutti gli effetti sostantivi, tant’è che possono essere vòlti al plurale (cfr. la risposta di Paolo D’Achille su credo, quelle di Miriam Di Carlo su presidente, su attentato e su (prossimo) venturo).

Il caso dell’infinito è molto particolare perché in italiano tutti gli infiniti verbali possono diventare sostantivi in una frase: “il vedere il mare mi tranquillizza”, “il tuo sorridere mi fa star bene”, “lo sbadigliare continuo di Piero mi induce sonnolenza”. Questo meccanismo, analizzato da molti studiosi (tra cui ricordiamo almeno i saggi di Vanvolsem 1983 e Salvi 1985) è stato spesso ricondotto alla sola presenza di un articolo (o di un qualsiasi tipo di determinante, Szilágyi 2008), mentre recentemente, attraverso un approccio più pragmatico, è stato evidenziato come coinvolga anche gli infiniti “nudi”: “girovagare per Roma mi rilassa” (esempio tratto da Cominetti-Piunno 2016, cfr. anche Egerland-Simone 2011). In tutti questi esempi l’infinito si comporta come un nome d’azione che, al pari dei suffissati in -mento e -zione (ma anche dei sostantivi convertiti da verbi, come affaccio e allaccio, la cui formazione è diversa dalla conversione dall’infinito), indica l’azione espressa dal verbo, sebbene, a differenza dell’infinito sostantivato, questi due prefissi «impongano una “chiusura” dell’evento denotato», che quindi non è ancora in corso (Gaeta 2002, p. 125). Inoltre l’infinito, benché usato come sostantivo, continua ad avere molte caratteristiche sintattiche verbali, tra cui quella di prevedere un soggetto, esprimibile attraverso un possessivo (il tuo sorridere = tu sorridi) o in maniera preposizionale, ossia come complemento di specificazione (e in questo caso si parla di genitivo soggettivo: lo sbadigliare di Piero = Piero sbadiglia, a cui si può accompagnare un modificatore aggettivale lo sbadigliare sereno di Mario), oppure come sintagma nominale immediatamente posposto all’infinito (anche con l’ausiliare l’aver Mario sbadigliato). Nel caso dei verbi transitivi, che prevedono un complemento oggetto, si esclude l’uso preposizionale per esprimere sia il soggetto sia l’oggetto (*il dimenticare di Mario i suoi obblighi / *il dimenticare Mario dei suoi obblighi), mentre il soggetto è esprimibile attraverso il possessivo e l’oggetto in maniera “diretta” (il vedere il mare, cfr. Koptjevskaja-Tamm 1993). C’è un altro limite sintattico che fa rientrare i casi in questione nella categoria di verbo piuttosto che in quella di nome, ossia l’associazione di modificatori avverbiali, propri dei verbi, e non aggettivali, propri dei sostantivi: posso dire il guardare serenamente il mare ma non *il guardare sereno il mare. Infine, morfologicamente, questi infiniti sono indeclinabili al plurale: in tutti gli esempi proposti è impossibile il plurale morfologico (*i vederi), a differenza di tutti i casi di conversione verbale sopra citati (presidenti, attentati, nascituri, ecc.).

Esiste però un ristrettissimo gruppo di infiniti sostantivati in cui il processo di lessicalizzazione, ossia di vera e propria conversione da verbo a sostantivo, si è pienamente concluso e soprattutto stabilizzato: si tratta di tutti quegli infiniti che hanno sviluppato un significato differente rispetto a quello di ‘azione del verbo all’infinito’ (tipico degli infiniti non lessicalizzati), che contemplano anche il plurale (i poteri, gli averi, gli esseri umani, i dispiaceri), che hanno reggenza nominale (es. i piaceri della tavola, D’Achille 2019, p. 134), e che in alcuni casi possono essere anche prefissati o suffissati (contropotere, superpotere, Thornton 2004, p. 522). Infiniti con tali caratteristiche erano molto più usati nell’italiano antico mentre oggi sono alquanto rari: ad esempio in Boccaccio (Introduzione alla IV giornata, par. 31, ediz. del Decameron a cura di Maurizio Fiorilla) si legge gli amorosi basciari e i piacevoli abbracciari e in Dante (Purgatorio, c. XIX v. 78, ediz. della Commedia a cura di Giorgio Petrocchi) drizzate noi verso li altri saliri (cfr. Thornton 2004, ivi). Serianni nella sua Grammatica (Serianni 1988, cap. 11, § 410) inserisce tra i casi di infiniti lessicalizzati ormai quasi del tutto non pluralizzabili nell’italiano contemporaneo parlare (gli antichi parlari) e anche mangiare e bere, riportando una citazione del critico carducciano Luigi Russo (1892-1961), che, a proposito del poeta, afferma “Carducci vittorioso, sanguigno aggressivo e beatamente soddisfatto dei buoni mangiari e dei buoni beri”.

Tornando ai quesiti dei nostri lettori, rispondiamo che l’infinito lessicalizzato mangiare vede il suo processo di conversione a sostantivo dal verbo mangiare (dall’antico francese mangier, a sua volta dal latino mandūcāre ‘masticare, mangiare’, attestato già nel XII secolo, l’Etimologico) già nell’italiano delle origini con attestazioni in testi settentrionali, toscani, anche mediani e meridionali; infatti, confrontando le attestazioni riportate dal TLIO, passa da ‘atto di nutrirsi’ [1] (e ‘appetito’ in perdere il mangiare), in cui non presenta mai il plurale morfologico, a ‘singolo pasto’ [2] e, in maniera estensiva ,‘banchetto, convito’, fino a riferirsi a ‘cibo, vivanda, portata’ [3] (in questi significati anche pluralizzabile):

[1] E intende questa pianta l’A. l’àrbore de la vita, lo qual fo contradiado ai primi parenti lo mançar del so frutto [...]. (Jacopo della Lana, Chiose alla Commedia di Dante, Purgatorio [1324-28, area bolognese], in La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, vol. II, a cura di Guido Biagi, G. Luigi Passerini, Enrico Rostagno, Torino, UTET, 1931, pp. 1-737, p. 691)

[2] E se adevenisse che, per alcuna iusta casione, el detto frate posto a tenere e a far tenere silenzio non potesse essere presente, al mangiar de li frati nel detto rifettoro, a fare il detto officio; sia tenuto e debbia dirlo innanzi al Rettore, innanzi la ora del mangiare, o vero al suo vicario [...]. (Statuti volgari de lo Spedale di Santa Maria Vergine di Siena scritti l’anno MCCCV, a cura di Luciano Banchi, Siena, Gati, 1864, p. 14)

[3] Li frati et sore sani mangiare et bevare debiano temperatamente con ciosiacosaké le evangelio se dica: guardateve ke li coraggi vostri non siano gravati de ebrietà né de soperchi mangiari. (Regola de li frati et sore de l’ordine de penetença per volgare [prima metà sec. XIV], in Giovan Battista Mencarella, Una regola in volgare dell’ordine di penitenza da un codice umbro del XIV secolo, in “Annali della Facoltà di Magistero di Bari”, 5, 1966, pp. 206-223: p. 210)

Nei secoli successivi questo processo di conversione si stabilizza, tanto che nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), il sostantivo mangiare è un lemma a sé stante rispetto al verbo: ne vengono riportati i significati di ‘atto del mangiare’, ‘desinare, cena’, ‘cibo, vivanda’. Tale situazione rimane pressoché invariata, con minime modifiche, fino alla V edizione (fine XIX sec.), in cui sono inserite alcune “maniere avverbiali” come dopo, dietro, appresso mangiare, che significano “dopo desinare, cioè nelle prime ore pomeridiane”. Per quanto riguarda le grammatiche prescrittive e normative di fine Ottocento, nella Grammatica italiana dell’uso moderno di Raffaello Fornaciari (1879, p. 149), il mangiare è inserito nella serie degli infiniti diventati dei veri e propri nomi, suscettibili di avere anche il plurale. A riprova del fatto che mangiare può essere un sostantivo indipendente dal verbo, vi è sia la forma derivata mangiarìno “pasto ammannito in piccola porzione” (registrato nel Vocabolario del fiorentino contemporaneo, e diffuso altrove, specie in Italia centrale), sia quella composta in cui compare in seconda posizione bianco mangiare (anche univerbato), che significava “vivanda composta da farina di riso, zucchero, polpe di cappone cotte nel latte”, ma oggi diffuso soprattutto in Sicilia e in Sardegna per indicare un dolce riconducibile presumibilmente al francese blanc manger cioè ‘mangiare bianco, cibo bianco’ (il GRADIT riporta anche il significato, diffuso in area meridionale di ‘bianchetti’ cioè ‘novellame di alici, sardine e acciughe’). A proposito di quest’ultimo composto, precisiamo che il Tommaseo-Bellini registra piano mangiare (con l’avverbio come nei sintagmi verbali) per indicare la vivanda con le polpe di cappone, mentre bianco mangiare (con l’aggettivo, come nei sintagmi nominali) con il significato di dolce composto da “mandole peste, di farina, di latte, d’acqua di rose, e zucchero”.

La situazione lessicografica contemporanea vede la lemmatizzazione del sostantivo mangiare in tutti i dizionari italiani, seppur con una differenza sostanziale tra alcuni, come il GDLI, il GRADIT, il Vocabolario Treccani e lo Zingarelli 2025, che continuano a riportare il significato di infinito sostantivato (ossia ‘atto di mangiare’), e il Devoto-Oli online, che registra la sola accezione di ‘cibo, pasto’. Confrontando le attestazioni di mangiare nell’archivio della “Repubblica” (unito all’articolo del tipo “il mangiare” oppure nella forma con plurale morfologico “mangiari”, escludendo le forme verbali dell’infinito tipiche delle varietà meridionali estreme), il sostantivo continua a essere impiegato con molta frequenza, sia con il significato di ‘atto del mangiare’ [4], sia con quello di ‘pasto’ [5], sia con quello di ‘cibo’ [6] (con cui compare più spesso) e ‘alimento’ [7], a cui si aggiunge quello di ‘alimentazione’ [8]:

[4] [il sedano] Va prima lavato, poi tagliato a metà e pulito al suo interno, raschiandolo con un coltello [...], in modo da eliminare tutti i filamenti, che renderebbero la cottura e poi il mangiare la zuppa assolutamente fastidioso. (Lara De Luna, La zuppa di sedano detox, repubblica.it, sez. Il Gusto, 13/9/2022)

[5] “Ragazza mia, il mangiare qua dentro fa veramente pena”, e l’altra: “Sì, è no schifo, ma poi che porzioni piccole!”. (Antonio Monda, Tutto quello che avreste voluto sapere su Woody Allen: “Io, il cinema e Mia Farrow: una donna che non perdonerò mai”, repubblica.it, sez. Robinson, 1/1/2023)

[6] “Un rifugio lo trovavamo perché c’erano rovine dappertutto, ma il mangiare era il vero assillo”. Come ve lo procuravate? “Lo rubavamo. Non ho mai chiesto l’elemosina”. (Paola Zanuttini, Mario Capecchi, la mia vita da Nobel ora è un film, “la Repubblica”, sez. Venerdì, 25/3/2022)

[7] Pago il mutuo, poco più di 500 euro, le bollette, il mangiare, qualche cosa per vestirsi e le spese. (Diego Longhin, “Con 1.300 euro al mese non possiamo nemmeno permetterci una gita”, “la Repubblica”, sez. Economia, 2/7/2022, p. 4)

[8] Quanto conta l’alimentazione di un tempo, quella del pastore? «Il mangiare bene, per come lo intendiamo oggi, non c’entra niente con il mangiar bene dei centenari, calati in una cultura agropastorale, in un periodo post bellico, con una situazione economica e sociale difficile. La loro alimentazione era correlata a quello che poteva offrire il territorio. (“Nell’Italia dei centenari l’anziano è una risorsa Serve un nuovo welfare”, “la Repubblica”, sez. Cronaca, 9/4/2023, p. 21)

Notiamo due differenze sostanziali rispetto al passato, messe in evidenza già da Vanvolsem (1983, p. 72). Anzitutto il fatto che mangiare, seppur con il significato di ‘cibo’, spesso può essere modificato da avverbi (come avviene con i verbi) e non da aggettivi (come avviene con i nomi):

Se c’è una cosa che mi mette davvero fastidio, è il classificare il mangiare bene sotto la categoria “costa tanto”. (Monica Campaner, Mangiare bene spendendo il giusto, monicacampaner.it, 14/5/2024)

Il mangiare bene e il buon bere è la nostra filosofia. [...] Comunicare delle emozioni tramite il cibo e farvi sentire coccolati e un po’ viziati, è l’unica cosa che ci prefiggiamo di realizzare. (Cosa pensiamo..., ristorantelabottepietralcina.it)

L’altra differenza riguarda il plurale morfologico, che è ormai quasi del tutto assente rispetto al passato, se non in nomi di esercizi commerciali e marchionimi (e anche in titoli di sagre), che, riproponendo una forma avvertita come obsoleta, cercano di far riferimento alla genuinità di prodotti e proposte gastronomiche: tra i nomi di ristoranti, diffusi un po’ in tutta Italia, troviamo Mangiari toscani, Ai mangiari di Romagna (qui con il significato di ‘pasto’), La Bottega dei Mangiari (con lettera maiuscola, a Napoli), Mangiari di Strada (a Milano). Leggiamo anche molti titoli di libri del genere, in cui si fa riferimento ai cibi e ai pasti dei secoli passati (Antichi “mangiari” lungo la via Francigena, Antichi mangiari dal Trecento al Settecento, I magné d’una volta: antichi mangiari romagnoli del territorio dell’Urgòn-Rubicone). Nei pochissimi esempi in cui il plurale non compare all’interno dell’onomastica, si fa comunque riferimento all’italiano antico usato ancora come una sorta di “indice di genuinità” (in questo esempio addirittura tra virgolette, che dimostrano un senso di estraneità rispetto alla forma):

Solo il racconto può conservare la memoria e portare fino a qui, e anche oltre, quei frammenti di vita vissuta che da tempo si sono perduti. Come la quotidianità all’interno delle fabbriche, con i suoi riti. E i suoi pranzi. Anzi, i suoi “mangiari”. Se n’è parlato in un incontro a Prato, un salto all’indietro nell’immagine un po’ sbiadita di un’Italia che non c’è più, quella che dagli anni Trenta è arrivata fino ai Settanta attraversando passioni e cambiamenti. (Giuseppe Calabrese, Il mangiare della fabbrica, “la Repubblica”, ediz. Firenze, 22/12/2012, p. 19)

Infine esiste la locuzione da mangiare, con cui si indica ‘cibo’, ‘vivanda’ (anche con valore collettivo), registrata già nel Tommaseo-Bellini sotto il sostantivo mangiare: “col Da, dice quel che suole o può servire a uso di nutrimento”. Anche il GDLI riporta la locuzione con valore sostantivale (insieme a che mangiare), con il significato di “ciò che è necessario per il proprio sostentamento; quantità più o meno cospicua di vivande”, nonché le espressioni fisse dare da mangiare (a qualcuno) “mettergli a disposizione il necessario per pranzo o per la cena; far da pranzare o cenare a proprie spese, invitare e pranzo e a cena” (anche “mantenerlo a proprie spese”); e fare da mangiare “preparare e cuocere le vivande”. Il GRADIT, invece, registra la locuzione con la marca di uso comune attribuendole valore aggettivale e non sostantivale, pur riportando l’espressione colloquiale fissa fare da mangiare ‘cucinare’, in cui da mangiare assume invece valore sostantivale.

I dizionari dell’uso più recenti come il Vocabolario Treccani online, Devoto-Oli online e lo Zingarelli 2025 non registrano da mangiare, che invece continua ad essere utilizzato nei testi attuali:

L’attore ha lasciato il nido di mamma e papà ed è andato a vivere per conto suo. E così, preparare da mangiare, impostare la lavatrice, fare la raccolta differenziata, stirarsi i vestiti e accendere il riscaldamento diventano veri e propri incubi. (Lo Show: Ora Canini vive da solo, “la Repubblica”, sez. Weekend, 27/6/2024, p. 22)

Digitale che ha anche creato qualche disagio – insieme al rischio pioggia sventato da una sfilata di impermeabili colorati – con difficoltà a connettersi a internet data l’altra concentrazione di persone impegnate a immortalare il momento, organizzarsi per gli spostamenti o ricaricare il proprio braccialetto per acquistare da bere o da mangiare. (Cristina Palazzo, Centomila Kappa il popolo del festival cresce e balla “Qui siamo liberi”, “la Repubblica”, sez. Cronaca, 8/7/2924, p. 4)

Dell’argomento si è occupata Skytte (1983, pp. 236-237), che afferma che “daInf, alla pari dell’aggettivo vero e proprio, può apparire in funzione sostantivale”, tant’è che si ha la possibilità di aggiungere l’articolo (il da mangiare, il da bere). Dobbiamo anzitutto distinguere i casi in cui la preposizione da funge da modificatore di nomi con valore finale (quello che Serianni 1988, cap. VIII, § 63, definisce “finale-destinativo”, evidente in costrutti del tipo arma da fuoco, tazzina da caffè, camera da letto, crema da barba, a cui possiamo aggiungere un esempio con l’infinito, macchina da scrivere (a questo proposito si legga la risposta di Maria Cristina Torchia), dall’uso lessicalizzato che vogliamo analizzare (il da mangiare ‘il cibo’). Nel primo caso la costruzione è molto comune e prevede, nell’ambito degli infiniti, l’uso del riflessivo (l’accordo da concludersi entro la fine del mese). Nel secondo caso, non esclusivo dell’espressione da mangiare (basti pensare a il da fare/il da farsi), è avvenuto un processo di lessicalizzazione ossia, in questo caso, una struttura che aveva valore prevalentemente sintattico (con valore deontico, se pensiamo a un sostantivo d’appoggio, omesso per ellissi: (cose) da mangiare), ha assunto valore lessicale, divenendo a tutti gli effetti una parola con un referente ben preciso, ossia ‘cibo’. In molte varietà centrali (tra cui alcune toscane) il da mangià/il da magnà è attualmente vitale e la sua progressiva lessicalizzazione è ravvisabile nei numerosi esempi rilevati in internet in cui risulta univerbato: siccome il damangiare che avete portato era buonissimo (mikafanclub.com, 27/10/2008), non si butta il damangiare (iscrittiaparlare.it, 9/2/2009).Il genere grammaticale, in questo caso ma anche per tutte le strutture da+infinito, per lo più lessicalizzate, il genere grammaticale è il maschile, ossia quello che in italiano viene attribuito di default.

Nota bibliografica:

  • Cominetti-Piunno 2016: Federica Cominetti, Valentina Piunno, Patterns of infinitives. A comparative analysis of Italian and Spanish, in “Faits de Langues”, 48, 2016, pp. 227-246.
  • D’Achille 2019: Paolo D’Achille, L’italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2019 [I ediz. 2003].
  • Egerland-Simone 2011: Verner Egerland, Raffaele Simone, Infinito sostantivato, in Enciclopedia Treccani, 2011 [ultimo accesso 8/7/2024]
  • Fornaciari 1979: Raffaello Fornaciari, Grammatica italiana dell’uso moderno, Firenze, Sansoni, 1979.
  • Gaeta 2002: Livio Gaeta, Quando i verbi compaiono come nomi, Milano, Franco Angeli, 2002.
  • Koptjevskaja-Tamm 1993: Maria Koptjevskaja-Tamm, Nominalizations, London, Routledge, 1993.
  • Salvi 1985: Giampaolo Salvi, L’infinito con l’articolo, in Sintassi e morfologia della lingua italiana d’uso. Teorie e applicazioni descrittive. Atti del XVII Congresso Internazionale di Studi della SLI, a cura di Annalisa Franchi De Bellis, Leonardo M. Savoia, Roma, Bulzoni, 1985, pp. 243-268.
  • Skytte 1983: Gunver Skytte, La sintassi dell’infinito in italiano moderno, 2 voll., København, Munksgaards, 1983 [“Etudes Romanes de l’Université de Copenhague. Revue Romane numéro supplémentaire”, 27].
  • Szilágyi 2008: Imre Szilágyi, L’infinito preceduto da un determinante in italiano, “Cuadernos de Filología Italiana”, XV, 2008, pp. 31-44.
  • Thornton 2004: Anna Maria Thornton, Conversione, in Grossmann-Rainer 2004, pp. 499-554, p. 522.
  • Valvolsem 1983: Serge Vanvolsem, L’infinito sostantivato in italiano, [Quaderni degli “Studi di grammatica italiana”, 9], Firenze, Accademia della Crusca, 1983.


Miriam Di Carlo

14 marzo 2025


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