Ci sono pervenute molte domande sull’ammissibilità, nell’italiano corrente, di indicazioni spaziali ridondanti, come salire su, salire su di sopra. Altri ci chiedono se espressioni come giù da basso, in ogni dove siano accettabili in italiano, oppure se debbano essere considerate forme dialettali settentrionali.
L’espressione linguistica dei riferimenti spaziali è un argomento che interessa molto coloro che chiedono consulenza alla Crusca. L’attenzione è rivolta in particolare alle espressioni ridondanti (come uscire fuori, salire su, scendere giù, giù di sotto, giù da basso) e alle differenze nell’uso riconducibili alle varietà regionali dell’italiano (come l’alternativa da basso / di sotto).
Risposte a tali argomenti sono state già fornite in questa rubrica in una nota del 22 aprile 2003 redatta da Raffaella Setti, in cui si fa riferimento anche a una precedente risposta pubblicata nella Crusca per voi n. 8, 1984, dove, con la consueta attenzione ai fatti di lingua viva e alla specificità della lingua italiana e della sua storia, Giovanni Nencioni definiva e inquadrava il fenomeno.
Ricordiamo anzitutto che la formulazione ridondante di riferimenti spaziali non sempre corrisponde a un inutile pleonasmo, ma può essere una conseguenza della opportuna distribuzione di tali indicazioni fra diversi elementi linguistici in diversi contesti.
Per esempio, in latino è non solo grammaticalmente corretto ma anche molto frequente che l’informazione codificata nel prefisso sia ripetuta anche nella preposizione che introduce il sintagma che esprime il punto di partenza del movimento (per es. Hostes item suas copias ex castris eductas instruxerant ‘I nemici ugualmente fatte uscire le loro truppe dall’accampamento le disposero per la battaglia’; Cesare, De bello gallico II.8.5). Una differenza importante fra latino e italiano consiste nel fatto che la nostra lingua utilizza molto più frequentemente rispetto al latino verbi che esprimono intrinsecamente la direzione (per es. salire, scendere, entrare, uscire), i quali o non esistono o sono comunque poco usati nella lingua latina, che preferisce i più trasparenti prefissati. La combinazione fra verbi direzionali ed espressioni preposizionali o avverbiali può provocare in italiano l’indicazione ripetuta di una stessa direzione (per es. uscire fuori di casa, entrare dentro casa).
A questo riguardo occorre prendere in considerazione due ambiti distinti ma tra loro collegati. Da una parte, le differenze tra le indicazioni spaziali nei dialetti italiani, che spesso trovano riflesso nell’uso di varianti nell’italiano contemporaneo più o meno connotate diatopicamente, dall’altra, l’espressività e la ridondanza tipica della modalità parlata rispetto a quella scritta.
I dialetti e le varietà di italiano al di sopra della linea La Spezia-Rimini usano più di quelli centrali e meridionali costruzioni formate da un verbo seguito da un avverbio o da una preposizione che indicano un riferimento spaziale (spesso determinando indicazioni ridondanti). Per esempio, secondo i dati ricavabili dall’AIS, l’espressione “mi è caduto sul viso (un ramo secco)” viene resa nei dialetti lombardi con espressioni quali me vgnǘda sgió sü nta la fèscia, me saltàdo giù sü ntra fàcia, in Piemonte con ma sàlta sgió sula facia, in Trentino con al me e vegnǘ gió sül müs, mentre i dialetti centrali e meridionali preferiscono espressioni come me kaskàto im fàcia (dialetti laziali), me kkadùte n golle (dialetti pugliesi). Nella Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (ROHLFS 1966-1969), Gerhard Rohlfs osservava che l’impiego di tali costruzioni nei dialetti settentrionali si estende anche oltre quello delle indicazioni spaziali: si pensi al milanese dà föra ‘spendere’, di sü ‘recitare la lezione’, al veneto dir fora ‘spifferare’, o al trentino basarse su lett. baciarsi su ‘baciarsi ripetutamente’.
È però opportuno ricordare che tali costruzioni sono presenti anche nel toscano e, seppur in minor misura, nei dialetti centrali e meridionali e nel sardo (cfr. napoletano scennere abbascio, siciliano nèsciri fora, sardo intrai a intru) fin dalle fasi più antiche. Sono attestate per esempio nel Contrasto di Cielo d’Alcamo, composto in Sicilia nella metà del XIII sec. (lèvati suso e vattene), in testi toscani dell’inizio del XIV secolo, come il Quaresimale fiorentino (1305-1306) di Giordano da Pisa (non può uscire fuori e sta legato nel letto), e sono ampiamente testimoniati in Dante: poi cadde giuso innanzi lui disteso (If XXV 87); Già montavam su per li scaglion santi (Pg XII 115); fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra (Pd XX 20).
Il carattere di novità e di interesse di tali formazioni consiste nel fatto che si tratta di usi vivi nell’italiano antico che «sono stati confinati ai margini della “buona lingua” da una censura avviata nel Cinquecento e sviluppatasi nei secoli seguenti, allorquando la lingua fu sottoposta alla riflessione razionalizzante e codificante dei grammatici. Molti dei fatti censurati si conservarono però nell’uso parlato, e anche nell’uso scritto di autori spregiudicati, sì che riaffiorano oggi alla superficie di un italiano agile e spedito, a cui sono funzionalmente idonei» (Nencioni 1989: 289).
Le costruzioni in cui una particella che esprime indicazioni spaziali segue un verbo, a lungo rimaste ai margini della lingua italiana, si sono affermate a partire dalla seconda metà del XX secolo (e ancor più negli anni recenti), periodo in cui la crescente diffusione della lingua italiana nei diversi strati della popolazione è stata accompagnata da un’integrazione nella norma di tratti substandard, di influssi dialettali e di caratteristiche proprie del parlato (si veda, a questo riguardo, la nozione di “italiano dell’uso medio” introdotta da Francesco Sabatini nel 1985: cfr. SABATINI 1985). È ormai frequente che anche per concetti lessicalizzati da un verbo specifico si usino verbi di valore più generico seguiti da una particella (per es. spingere dentro per ‘comprimere’, mettere dentro per ‘introdurre’, buttare giù per ‘demolire’, ‘inghiottire’, ‘avvilire’, ‘screditare’, ‘indebolire’). L’uso di queste costruzioni come lessemi unitari facilita la loro ulteriore determinazione spaziale tramite accumuli di indicatori spaziali, per es. scendere / correre giù di sotto.
Tali costruzioni sono ovviamente più diffuse nella modalità parlata, in cui si usano di preferenza lessemi di valore più generale ed è frequente il ricorso a indicazioni deittiche che fanno riferimento al contesto situazionale in cui si trovano gli interlocutori.
In conclusione, le indicazioni spaziali ridondanti non sono certo da raccomandare in una prosa scritta sorvegliata, ma è un dato ormai assodato che abbondino nell’italiano dell’uso medio nella modalità scritta e soprattutto in quella parlata, specialmente nei parlanti settentrionali.
Per quanto riguarda in particolare giù da basso, la locuzione è certamente meno usata di giù di sotto (così come da basso lo è rispetto a di sotto) ed è preferita nelle varianti settentrionali di italiano rispetto a quelle centrali o meridionali, ma è attestata nella narrativa contemporanea (preceduta e o meno da verbi: Posso benissimo tornare indietro prima di essere arrivata giù da basso (traduz. it. di La signorina Else di Arthur Schnitzler, Adelphi 1988); Giù da basso stava succedendo qualcosa (traduz. it. di La cruna dell’ago di Ken Follett, Mondadori 2012) e trova autorevole legittimazione nella prosa di Rigutini e Fanfani, che la usano nelle parti definitorie del Vocabolario italiano della lingua parlata (1875), per esempio nella definizione di budello: “il canale che con mille ravvolgimenti arriva giù da basso”.
Infine, l’espressione in ogni dove, che può essere benissimo sostituita da dovunque, ovunque, dappertutto, al di fuori delle espressioni colloquiali frequenti nell’italiano regionale settentrionale, ha una connotazione decisamente letteraria. È infatti attestata in opere di ambito toscano già nel XIV secolo, come per esempio nei versi del poema epico-didascalico Il quadriregio del vescovo di origine folignate e di formazione toscana Federico Frezzi (morto nel 1416). In ogni dove è anche il titolo di un album del 2009 del rapper piemontese Marco Richetto, meglio conosciuto come Rayden.
Per approfondimenti:
Claudio Iacobini
5 luglio 2016
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