Valeria Della Valle risponde a Leonardo Calà che ci scrive citando l’uso di endorsement, ricorrente nel linguaggio giornalistico, come esempio della “sistematica sostituzione del nostro patrimonio lessicale a tutto vantaggio di equivalenti anglofoni” e auspicando che il fenomeno riceva la “dovuta attenzione da parte degli organi di stampa”.
La lettera del signor Calà riguarda un argomento molto dibattuto: la presenza invadente di termini stranieri nella lingua italiana. Nel caso della parola inglese endorsement si tratta, come scrive il lettore, di una delle tante “scivolate esterofile”. Il termine deriva dal verbo inglese to endorse, che in origine, nel linguaggio bancario, significava ‘firmare a tergo, girare’, passato poi al valore di ‘appoggiare, sostenere’. Il sostantivo endorsement ha cominciato a comparire nelle pagine dei giornali italiani a partire dal 2004 (se ne trovano già esempi nel “Corriere della Sera” del 25 ottobre 2004, in un articolo di Ennio Caretto, e del I° luglio 2005, in un articolo firmato da Francesco Verderami). In quegli scritti la parola veniva ancora tradotta tra parentesi come ‘investitura’, o posta tra virgolette, per metterne in evidenza l’origine straniera. A partire dal 2006 il termine ha cominciato a essere usato sempre più spesso, inserito nel testo senza più nessuna spiegazione né segnali grafici. Tullio De Mauro ha accolto endorsement nel Dizionarietto di parole del futuro, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 32, avvertendo che «la parola manca anche in buoni dizionari italiani o, se c’è (Zingarelli, GRADIT, Paravia), c’è solo nel senso bancario di “girata” di un assegno»). Da allora endorsement si è conquistato maggiore spazio nei dizionari. Nelle edizioni 2012 dello ZINGARELLI e del Devoto-Oli al significato di ‘girata’ sono stati aggiunti quelli di ‘autorizzazione da parte di una compagnia aerea di sostituire il proprio biglietto con quello di un’altra’ e di ‘dichiarazione di sostegno a un candidato o a una posizione politica’. Con quest’ultimo significato endorsement è usato spesso nel linguaggio del giornalismo politico, soprattutto in tempo di elezioni. Come sostiene il signor Calà, si tratta di una parola della quale si potrebbe tranquillamente fare a meno, visto che disponiamo di numerosi termini italiani dotati di una grande ricchezza di sfumature: ‘investitura’, ‘sostegno’, ‘appoggio’, ‘aiuto’, ‘approvazione’, ‘schieramento’. Quanto alla dovuta attenzione al problema da parte della stampa, invocata dal signor Calà, temo che il lettore sarà deluso: nonostante i ripetuti inviti, anche dall’Accademia della Crusca, a evitare parole straniere inutili, usate solo per provincialismo, i mezzi di informazione e i quotidiani continuano a fare largo uso di anglicismi (da segnalare questo esempio, tratto da un articolo di Lucetta Scaraffia nell’“Osservatore romano” del 18 dicembre 2012: «Essere cattolici è molto di più che abbracciare una posizione culturale alla moda, e i responsabili di “Témoignage chrétien” — nonostante questo endorsement verso il matrimonio omosessuale — lo sanno bene», nel quale la parola straniera è un vezzo superfluo). Solo il tempo potrà dirci se l’espressione inglese entrerà davvero nell’uso comune o se continuerà a vivere, come è più probabile (e desiderabile) esclusivamente nel linguaggio giornalistico di ambito politico.
Valeria Della Valle
Piazza delle lingue: Media
22 febbraio 2013
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