È giunta all’Accademia una domanda – che viene addirittura da un membro dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), da cui forse ci si attenderebbe piuttosto una risposta – riguardo all’alternanza, anche in testi ufficiali, tra corso di studio e corso di studi, che genera non pochi dubbi riguardo alla correttezza e al significato delle due varianti.
La locuzione corso di studio è un tecnicismo specifico dell’ambito universitario. All’interno delle direttive ufficiali che disciplinano il sistema degli atenei italiani, come il Decreto 3 novembre 1999, n. 509 e il Decreto 22 ottobre 2004, n. 270, troviamo all’articolo 1 (Definizioni, comma 1, lettera e) la seguente definizione: “per corsi di studio, [si intendono] i corsi di laurea, di laurea magistrale e di specializzazione”. In questi due decreti non viene menzionata la laurea magistrale a ciclo unico − il percorso di studi unico della durata di cinque o sei anni, durante i quali lo studente deve acquisire un totale di 300 o 360 crediti formativi universitari (d’ora in avanti CFU) – che si trova invece successivamente nella definizione riportata all’articolo 1 del Decreto Ministeriale 30 gennaio 2013, n. 47 e del Decreto Ministeriale 12 dicembre 2016, n. 987: “Corsi di studio: si intendono i corsi di laurea, i corsi di laurea magistrale e i corsi di laurea magistrale a ciclo unico”.
Fermandoci per il momento a queste prime definizioni, possiamo affermare che nella lingua delle università corso di studio ha funzione di iperonimo, ovvero ha un significato più ampio, in relazione ai suoi iponimi, generalmente corsi di laurea, di laurea magistrale e di laurea magistrale a ciclo unico. Si tratterebbe, cioè, dei cosiddetti corsi del Primo ciclo (la laurea triennale, che prevede l’acquisizione da parte dello studente di 180 CFU) e del Secondo ciclo (la laurea magistrale o specialistica, della durata di due anni, per un totale di 120 CFU). Fino a qui non sembrerebbero rientrare nelle definizioni di corso di studio date dagli atti legislativi i dottorati di ricerca, i master di primo e secondo livello o i corsi di formazione professionale. Anche nella Legge 30 dicembre 2010, n. 24, sebbene manchi una vera e propria definizione, si distingue nettamente tra “i coordinatori di corsi di studio o di dottorato” (art. 2, comma 2, lettera f).
Tuttavia, se guardiamo più attentamente all’interno dei testi legislativi notiamo diverse incongruenze nell’individuazione del referente di corso di studio. La prima si trova nella definizione del DM N. 47 del 2013 in cui, a differenza dei DM del 1999 e del 2004, sono esclusi i corsi di specializzazione (che insieme ai dottorati di ricerca fanno parte dei corsi del Terzo ciclo). Ancor più vistosa è l’anomalia presente nei DM n. 509 del 1999 e n. 270 del 2004: in entrambi i casi la definizione di corso di studio riportata nell’articolo 1 rimanda al successivo articolo 3 (“per corsi di studio, [si intendono] i corsi di laurea, di laurea magistrale e di specializzazione [che allora rientrano di nuovo tra i corsi di studio], come individuati nell’articolo 3”); tale articolo, il cui titolo è Titoli e corsi di studio, descrive e regola non solo i corsi di laurea, di laurea magistrale e di specializzazione (ovvero quelli esplicitati nella definizione di corsi di studio all’articolo 1), ma anche i corsi di dottorato e i master di primo e secondo livello.
Infine, per completare il quadro, va notato che, in realtà, tutte le definizioni viste finora non indicano tanto il “significato” proprio di corso di studio (ad esempio, ‘percorso di studi universitario, di durata pluriennale, al termine del quale si ottiene un titolo di studio’), ma piuttosto forniscono un elenco di referenti ai quali si decide, di volta in volta, di applicare l’etichetta; questo elenco, senza un significato esplicito a cui riferirsi, risulta inevitabilmente arbitrario e soggetto a cambiare da un documento all’altro.
La disomogeneità nel determinare che cosa rientri nell’etichetta di corso di studio si riflette, come prevedibile, nella comunicazione istituzionale degli atenei italiani. Una rapida ricerca nei glossari pubblicati nei siti di alcune università (non molte, a dire la verità: sia perché non tutti gli atenei dispongono di un glossario di termini universitari, sia perché in diversi casi nei glossari manca la definizione di corso di studio) mostra una situazione tutt’altro che uniforme. Troviamo naturalmente casi in cui corso di studio, in accordo con i DM del 2013 e 2016, comprende solamente i corsi del Primo e Secondo ciclo (Università di Roma La Sapienza), mentre talvolta resta esclusa, probabilmente per una svista o perché assente nell’offerta formativa dell’ateneo, la laurea magistrale a ciclo unico (Università di Firenze); in alcuni casi si inseriscono tra i corsi di studio i dottorati di ricerca e i corsi di specializzazione (Università di Udine), mentre solo occasionalmente vengono inclusi i master di primo e secondo livello (Università di Modena e Reggio Emilia). Rarissime sono le occasioni in cui le università precisano che la definizione di ciò che rientra nei corsi di studio è valida esclusivamente per un contesto specifico (un determinato documento o un certo dipartimento; come nella definizione dell’Università di Siena, in cui si circoscrive la validità della definizione a un “presente documento” che, peraltro, non è individuabile).
Veniamo ora alla questione delle varianti corso di studio e corso di studi, oggetto della domanda, e che non è una novità nel lessico italiano (la stessa alternanza tra singolare e plurale si ha, ad esempio, per convegno di studio e convegno di studi). Dal punto di vista della semantica non vi è particolare differenza tra l’una e l’altra forma. La variante con il plurale studi si riferisce all’insieme delle discipline che rientrano nel percorso che lo studente affronta per arrivare alla laurea, mentre quella con il singolare studio pone l’accento sull’omogeneità delle discipline stesse e sull’organizzazione coerente del percorso universitario. Al di là delle due differenti prospettive, entrambe valide, corso di studio e corso di studi condividono lo stesso referente (che però, come abbiamo visto, può variare da un ateneo all’altro). E infatti, all’interno del linguaggio delle università, le due forme spesso si alternano e si sovrappongono. I dati che emergono da una ricerca delle due varianti (al singolare e al plurale) nei documenti ufficiali di quindici atenei italiani, in vigore nell’anno accademico 2022/2023, permettono di formulare alcune considerazioni in merito all’oscillazione tra studio e studi (per ogni università abbiamo scelto lo Statuto e un altro documento, come il Regolamento didattico o il Manifesto degli studi; consultati in rete in data 28/1/2023).
Innanzitutto, si conferma l’alternanza tra corso/corsi di studio e corso/corsi di studi, soprattutto nei Regolamenti, probabilmente perché questi ultimi, rispetto agli Statuti, sono testi maggiormente soggetti a modifiche e rimaneggiamenti periodici. L’oscillazione è abbastanza contenuta: la maggior parte delle occorrenze di studi si trova nella locuzione al singolare, ovvero corso di studi è più frequente rispetto al relativo plurale corsi di studi. È possibile che nel declinare la locuzione al plurale si tenda a evitare l’effetto generato dalla ripetizione della i alla fine delle tre parole che formano la locuzione (corsi di studi; si vedano anche le schede sul plurale di parco giochi e sull’alternanza tra casa d’aste/case d’asta). Più in generale, la variante corso/corsi di studio è nettamente prevalente. Tale dato è influenzato anche dalla decisa preferenza per la forma con studio al singolare da parte della legislazione in materia: nelle cinque disposizioni ministeriali che abbiamo considerato, a fronte di innumerevoli esempi di corso/corsi di studio, ci sono in totale solo 6 occorrenze della variante con il plurale studi (una nel titolo dell’articolo 4, Classi di corsi di studi, del Decreto 3 novembre 1999, n. 509; nessuna occorrenza nel Decreto 22 ottobre 2004, n.270; una nella Legge 30 dicembre 2010, n. 24; tre nel Decreto Ministeriale 30 gennaio 2013, n. 47; una nel Decreto Ministeriale 12 dicembre 2016, n. 987):
[…] in tale conteggio sono inclusi i docenti di atenei stranieri in convenzione con atenei italiani per una durata pari almeno alla durata normale del corso di studi, ai sensi dell’articolo 6, comma 11 della legge 240/10. (Decreto Ministeriale 30 gennaio 2013, n. 47, art. 4, comma 12)
Con decreto del Ministro [...] sono disciplinate le modalità organizzative per consentire agli studenti la contemporanea iscrizione a corsi di studio universitari e a corsi di studi presso i conservatori di musica, gli istituti musicali pareggiati e l’Accademia nazionale di danza. (Legge 30 dicembre 2010, n. 24, art. 29, comma 21)
Si tratta di occorrenze sporadiche e occasionali. Nel secondo esempio riportato, a meno che il legislatore non intendesse differenziare tra corsi di studio e corsi di studi, intendendo i primi offerti dalle università e i secondi da altri enti (e in tal caso si tratterebbe di una scelta comunicativamente opaca e poco efficace, poiché non esplicitata), la presenza isolata nell’intero documento della variante con il plurale − dato il contesto e la vicinanza della forma al singolare − si potrebbe forse pensare a un refuso. Eppure occorre segnalare che una generica ricerca nei siti del Ministero dell’Università e della Ricerca, del Ministero dell’Istruzione e del Merito e dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) restituisce occasionali risultati anche per le forme con il plurale studi.
Se dunque la sovrapposizione delle varianti è presente nella lingua del legislatore, non deve stupire che la si ritrovi nella comunicazione universitaria, che ne dipende direttamente, fino a raggiungere la lingua comune (su Google Italia, il 5/2/2023: corso di studio 15.300.000 risultati; corso di studi 7.820.000; corsi di studio 13.000.000; corsi di studi 4.210.000).
Per quanto corso di studio e corso di studi abbiano lo stesso significato, la loro alternanza è solo apparentemente innocua, almeno nell’ambito del linguaggio giuridico e amministrativo. Legislatori e redattori di testi amministrativi dovrebbero ricordare che la coerenza terminologica è un criterio fondamentale per la chiarezza e l’efficacia di un testo: usare sempre lo stesso termine permette al destinatario della comunicazione di riconoscere immediatamente e senza equivoci ciò a cui ci si riferisce. All’alternanza fra le varianti, infatti, si somma l’incoerenza terminologica, ancor più grave e fuorviante, generata dalla mancanza di una definizione precisa del significato e, quindi, di una corrispondenza chiara e univoca fra significante e significato. Nel nostro caso la sovrapposizione tra corso di studio e corso di studi può comportare il sorgere di dubbi, non solo da parte di chi non è avvezzo al linguaggio universitario (si pensi a una matricola o a uno studente delle superiori che si stia informando per la scelta dell’università in cui iscriversi), ma anche, come dimostra la provenienza del quesito, da parte degli stessi addetti ai lavori. Spetterà dunque alla legislazione italiana prima, e alle università poi, uniformare la terminologia. Dal canto nostro possiamo solo incoraggiare a una maggiore attenzione nei confronti della comunicazione pubblica e segnalare, come abbiamo fatto, la prevalenza della variante che reca il secondo elemento della locuzione al singolare: corso/corsi di studio.
Elenco dei documenti delle università consultati:
Luisa di Valvasone
20 dicembre 2023
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
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