Rispondiamo ad alcune domande che riguardano i termini scorcio e squarcio usati in rapporto alla visione del paesaggio: si dice “gli squarci o gli scorci di Roma?”; “Che bello squarcio!!” o “Che bello scorcio!”? Una domanda riguarda la locuzione di scorcio; infine una lettrice chiede se si debba dire bel o bello scorcio.
Dato che le domande arrivate in redazione vertono principalmente sulle possibili sovrapposizioni semantiche dei due sostantivi, scorcio e squarcio, iniziamo dall’analisi dell’origine delle due parole e dalle accezioni che ciascuna di esse ha assunto nel corso della storia, per vedere poi se ci siano effettivamente, nell’italiano contemporaneo, contesti e sfumature di significato in cui possano funzionare come sinonimi. La sinonimia, infatti, è una relazione sempre limitata da determinate condizioni; sono rarissimi i sinonimi perfetti (parole, cioè, che possono prendere il posto l’una dell’altra in qualsiasi contesto senza che il senso generale del discorso ne sia modificato, neppure parzialmente) e il loro grado di sovrapponibilità può variare a seconda del contesto, inteso in tutta la sua complessità di variabili (geografiche, storiche, di registro, di àmbito d’uso, ecc.); ciò significa che si possono avere casi di sinonimia che “saltano”, ad esempio, se una delle due parole assume un significato più specialistico: viso e faccia sono sinonimi in frasi del tipo “mi sono lavato la faccia/il viso”, ma la sinonimia non regge se faccia viene usata nella sua accezione geometrica “il cubo ha sei facce”; d’altro canto può accadere che un termine, preso dalla lingua comune e risemantizzato in un àmbito specialistico, si arricchisca di accezioni figurate e metaforiche che ne ampliano i suoi impieghi anche nella lingua corrente. Torneremo su questo aspetto perché una delle nostre due parole, nel corso della storia, ha avuto questo percorso.
Partiamo proprio da scorcio, derivato dal verbo scorciare ‘rendere più corto’, verbo attestato in italiano fin dal Duecento in questa accezione e, a sua volta, costruito sulla base del latino volgare *excŭrtīare, derivato da cŭrtus con il prefisso ex- (formazione romanza che si ritrova nel francese escórsier e nell’occitano escorsar). Il verbo ha mantenuto anche la forma scorcire, come notava ancora Tommaseo (cfr. Tommaseo-Bellini, s.v. scorciare), “segnatamente nelle campagne toscane... ma questo quasi sempre in senso materiale” (specialmente per indicare l’orlo agli abiti).
Il nome deverbale (ancora con una forte componente semantica di azione, quindi inteso come ‘l’atto, il procedimento dello scorciare’) inizia ad affermarsi in italiano in àmbito artistico già dalla metà del Quattrocento, in particolare nella trattatistica dedicata agli studi sulla prospettiva, in cui vanno definendosi le tecniche per rappresentare la terza dimensione nel disegno e nella pittura (quindi su superfici piane). La voce scorcio nel GDLI riporta come prima definizione proprio quella di “rappresentazione di un oggetto posto su un piano obliquo rispetto allo sguardo dell’osservatore, in modo che alcuni elementi si avvicinino e altri si allontanino nello spazio” (GDLI); per ottenere quest’effetto è necessario ridurre (scorciare) le dimensioni delle figure secondo la prospettiva, in modo che possano, appunto, “apparire di scorcio”. La prima attestazione (sempre dal GDLI) di scorcio, in questo senso di riduzione proporzionale delle dimensioni delle figure per rendere su un piano l’effetto della loro profondità, è contenuta già nei Commentari di Lorenzo Ghiberti (“ove son angeli cadenti in diverse forme e con grandissimi scorci sono fatti meravigliosamente”, metà XV sec.), ma il termine si estende anche al lessico dell’architettura e Sebastiano Serlio, nel suo imponente trattato, I Sette libri dell’architettura (scritti a partire dal 1537) parla degli “archi in iscorcio” ovvero modificati secondo le regole della prospettiva per poter essere rappresentati.
Nel Vocabolario degli Accademici della Crusca la voce entra nelle prime due edizioni (1612, 1623) solo con rimando a scorciare, mentre dalla terza (1691) scorcio è trattato come lemma autonomo e viene definito in prima accezione come “per vicino a fine” (ovvero ‘parte terminale di qualcosa’, sia in termini di spazio sia di tempo, come il lembo di una veste o la cima di una pianta, ma anche la parte terminale di un periodo, di una stagione); la seconda accezione registrata è quella relativa alla prospettiva (“Termine di prospettiva, il qual mostra la superficie esser renduta capace della terza dimensione, mediante essa prospettiva”); nella terza si introduce la locuzione di scorcio, che viene definita come sinonimo di “strana, orribil, torta, e stramba”. Nella IV edizione (1729-1738) è aggiunta la locuzione in iscorcio, spiegata come “contrario di vedere di faccia” e, per rispondere a uno dei nostri interlocutori, nell’italiano attuale è del tutto normale la locuzione di scorcio per intendere una visione ‘di sbieco, obliqua’ e, con valore temporale, anche ‘di sfuggita’ (la velocità non permette di indirizzare e fermare lo sguardo che resta laterale, con la coda dell’occhio).
Il termine trova la sua patente di tecnicismo nel Vocabolario toscano dell’arte del disegno di Filippo Baldinucci (1681), il primo vocabolario tecnico del lessico artistico italiano, in cui se ne tratta diffusamente. Leggendo la definizione risulta evidente il debito della Crusca a Baldinucci (la parte finale della definizione coincide sostanzialmente con quella che troviamo nel Vocabolario della Crusca):
Termine di Pittura, o di Prospettiva; ed è quell’operazione, che mostra la superficie esser renduta capace della terza dimensione, mediante essa prospettiva. Essere, o stare in iscorcio si dice a figura dipinta sù la superficie, che mediante la prospettiva vien capace della terza dimensione del corpo.
Ma Baldinucci definisce scorcio e anche
quello che fa apparir le figure di più quantità ch’elle non sono; cioè, una cosa disegnata in faccia corta, che non à l’altezza, o lunghezza ch’ella dimostra, tuttavía la grossezza, i dintorni, l’ombre, e i lumi, fanno parere ch’ella venga innanzi, o si tiri indietro.
In questo caso la visione prospettica non si ottiene con la riduzione delle dimensioni, ma con la maggiore e minore evidenziazione delle forme, delle luci e delle ombre. Sembra spingersi ancora oltre quando accenna alla “degradazione dei colori”, quindi all’uso delle sfumature, utilizzate per stabilire la sequenza dei piani prospettici, con colori più intensi in primo piano che vanno perdendo di intensità nei piani più distanti dal punto di osservazione.
Lo scorcio come ‘taglio dell’estremità di qualcosa’ ha attestazioni cinquecentesche anche in àmbito botanico: lo si trova nell’Herbolario volgare (edizione del 1526, rintracciata su Google libri) nella descrizione della pianta denominata catapucia [catapuzia], di cui si dice: “Ma quando si trova nelle ricette si debba ponere il frutto non la barba e levare il scorcio di sopra” (cap. XLV), intendendo che si deve tagliare l’estremità superiore della pianta prima di utilizzarla nelle ricette. Con lo stesso valore di ‘accorciamento’ è citato come sinonimo di accorcio da Girolamo Ruscelli nel suo trattato Del modo di Comporre in versi nella lingua italiana (1563): “Accorcio. Scorcio, benché essendo ambedue verbi d’uno stesso significato, il primo è più della lingua. Tuttavia il numero nel verso potrebbe aver bisogno d’una sillaba meno, alcune volte, ove servirebbe il secondo”. Scorcio dunque viene contemplato come possibile sinonimo del più “corretto” (“più della lingua”, nel caso specifico da intendersi come forma più adatta alla lingua poetica) accorcio, ma nella composizione del verso la scelta può cadere sull’una o sull’altra in base a esigenze puramente metriche. Sempre cinquecentesche (Annibal Caro, a. 1566) sono le prime attestazioni del significato temporale di scorcio, inteso come ‘parte finale di un periodo di tempo’ e ancora presente nell’uso attuale (in espressioni del tipo l’ultimo scorcio della notte, il primo scorcio di primavera, ecc.). Anche le distanze possono essere ridotte e da scorciare (scorciato, non direttamente da scorcio) si è formato scorciatoia che è la strada più corta per raggiungere una meta; un derivato questo che pare affermarsi a cavallo tra Seicento e Settecento, se Francesco Redi, portandone attestazione falsa, riuscì a farlo inserire nella terza edizione del Vocabolario della Crusca (1691) con la definizione di “tragetto, via più corta”. Derivato diretto di scorcio è invece scorcione, con lo stesso significato di ‘scorciatoia’, ma rimasto forma regionale toscana e attestato solo a partire da metà Ottocento (sul GDLI con citazione da Giuseppe Giusti).
Riepilogando, nell’italiano attuale, i principali dizionari dell’uso sono sostanzialmente allineati rispetto alla scelta e all’ordine delle accezioni di scorcio riportate: la prima, di àmbito specialistico (GRADIT la marca TS) è quella di ‘rappresentazione prospettica di una figura scorciata per renderne la profondità’, definizione che contempla la locuzione di scorcio nel senso tecnico di ‘di fianco, di sbieco, obliquamente’ e figurato ‘da lontano, di sfuggita’ (“l’ho visto di scorcio”), da cui l’uso estensivo di ‘spazio limitato di una visuale più ampia’ (“dalla finestra si vede uno scorcio di mare”); la seconda accezione, non specialistica, rimanda al concetto di ‘parte, ritaglio di qualcosa’ riferibile a un brano di un’opera (“il romanzo contiene scorci descrittivi molto dettagliati”) o a un tempo, più frequente con ultimo per indicare ‘la parte restante di un periodo’ (“l’ultimo scorcio d’autunno”), ma utilizzato, in senso più generico di ‘porzione’, anche con primo (“il primo scorcio del terzo millennio”). Per rispondere a un’altra domanda, che solo incidentalmente coinvolge la parola scorcio (“che bello o che bel scorcio?”), dirò solo che, come tutte le parole che iniziano con s implicata (cioè seguita da un’altra consonante) anche scorcio richiede la forma forte dell’articolo determinativo (quindi lo scorcio) e le forme non apocopate degli aggettivi come bello, buono, ecc. (quindi bello scorcio).
Squarcio è anch’esso un sostantivo deverbale, formazione romanza dal latino volgare *exquartiāre, composto da ex- ‘fuori da’ e da quartus ‘quarto’, quindi ‘tagliare qualcosa per ricavarne i quarti’ (in italiano resta il verbo squarciare e, con lo stesso etimo, squartare, usato in particolare per riferirsi alla macellazione degli animali); il sostantivo squarcio è attestato in italiano fin dal Trecento nel significato di ‘situazione rovinosa, strage’ (cfr. TLIO che lo attesta nella Fiorita di Armannino da Bologna), mentre dal Cinquecento ricorre nel significato ancora attuale di ‘ferita, lacerazione profonda’ (DELI, av. 1535). Dunque il concetto più ampio che sta sullo sfondo dello spettro semantico della parola è quello di ‘apertura’, ma un’apertura irregolare e profonda, originariamente prodotta sulle carni (animali, ma anche umane) tramite l’uso di strumenti da taglio non troppo affilati e precisi o addirittura con le mani. Lo squarcio è una lacerazione di carne strappata, sbranata, come emerge fin da una delle prime attestazioni tratta dalla traduzione dell’Eneide (1581) di Annibal Caro: “Trovandolo per le cosce e per gli omeri tutto sbranato, lo condussero alla fontana. Ivi, cercando degli squarci de’ denti, prima ne gli lavarono”. Come voce autonoma entra nel Vocabolario della Crusca a partire dalla terza edizione (1691, mentre nelle due edizioni precedenti si rimanda a squarciare) con la definizione molto generica di “taglio grande”, seppur con un corredo di esempi a illustrare tale accezione. Dal GDLI si ricava però che la parola è impiegata, già nello stesso XVI secolo, in accezioni affini, anche figurate e traslate: squarcio, proprio per la sua etimologia tanto concreta, si presta, soprattutto in scritture letterarie, a usi fortemente espressivi, dove i sinonimi ferita, taglio, strappo appaiano non altrettanto marcati e incisivi. In senso concreto lo squarcio può essere uno strappo prodotto su qualsiasi materiale, stoffa, carta, una spaccatura profonda di muri, monti, rocce e terreno. Dallo sbrano su un tessuto, per estensione, squarcio può arrivare a denotare il brandello stesso (una veste, uno straccio fatto a squarci) e da questo un qualsiasi frammento materiale di qualcosa, pezzo di carta o di cibo, un brano di una composizione musicale o estrapolato da un testo (così come inteso nella descrizione manzoniana di Don Abbondio: “Aperto poi di nuovo il breviario e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta”, cap. I) o da questo eliminato perché tagliato o censurato.
D’altra parte, l’immagine del taglio può focalizzarsi sulla fessura e su quel che si vede attraverso di essa: e allora, ad esempio, “uno squarcio di sereno” è la parte di cielo azzurro che si può intravedere nella spaccatura tra due nubi, quindi uno stralcio, uno scorcio di un panorama, di una veduta. Restando in ambito visivo, la luce filtra attraverso le fessure e rompe l’oscurità: un bagliore improvviso e di fortissima intensità, come quello di un lampo, ad esempio, fa l’effetto di uno squarcio, quasi producesse uno strappo su un fondale nero. La forza espressiva della parola è stata sfruttata anche per rendere la potenza di un rumore fragoroso che, sovrastando tutti gli altri, crea quasi un varco che dall’udito si estende alle altre esperienze sensoriali di chi lo ascolta: così Aldo Palazzeschi (nella novella Titì... e Totò, 1937), ad esempio, descrive una sequenza di colpi di tosse: “una teoria di colpi di tosse scaglionati così bene, che ora sembrano lo squillo dei corni e delle trombe, ora il tuonar dei tamburi e della grancassa, lo squarcio dei piatti”; e Corrado Alvaro lo scoppio di una mina: “Quando scoppia una mina sui monti Apuani [...] si vede la montagna gonfiarsi come un petto forte sotto un respiro poderoso, [...] dà uno squarcio atterrito, si lacera come un cratere” (Itinerario italiano, 1933). Confermano l’incisività espressiva di squarcio le occorrenze in rete (nelle pagine in italiano di Google, 1/10/2024) delle stringhe “squarcio di cielo” con 8.400 r. e “squarci di cielo” con 12.300 r. (presente anche come titolo di libri), così come “squarci d’azzurro” 64.700 r. (frequente titolo di libri e di quadri), insieme a “squarcio d’azzurro” (4.679 r.), traduzione del titolo A slash of blue di una celebre poesia di Emily Dickinson.
Un altro significato figurato è quello di ‘ritaglio di tempo’, molto frequente in rete nella stringa “squarcio di tempo” (89.000 r. nelle pagine in italiano 7/10/2024), benché registrato solo da alcuni dizionari contemporanei (GRADIT, DELI). Anche squarcio ha visto impieghi di ambiti tecnico-specialistici, caduti però in disuso: nella terminologia bancaria così veniva chiamato quello che oggi comunemente diciamo brogliaccio (o scartafaccio), quel quaderno in cui i mercanti annotavano le partite prima di trascriverle sui libri mastri; mentre solo il Tommaseo-Bellini, marcandola però come voce obsoleta, trae dal Dizionario marittimo militare l’accezione di ‘fuori squadra, in obliquo’ che mette in relazione alla locuzione avverbiale alla squarciona, detto del cappello portato pendente da una parte, quindi non dritto sulla testa.
Dopo questa carrellata dei valori che le due parole hanno rispettivamente accumulato nel tempo e che oggi ancora veicolano, possiamo provare a individuare le zone di sovrapposizione e quindi i limiti dei loro usi sinonimici. In prima battuta è necessario ribadire che scorcio non è mai sostituibile quando è utilizzato come termine tecnico della prospettiva: i tecnicismi, all’interno del loro settore specialistico, hanno infatti la caratteristica della univocità semantica e sono definiti in modo che il loro significato non possa essere né ambiguo né dotato di sfumature di espressività. Diversa la situazione nella lingua comune: abbiamo visto come i due sostantivi condividano il concetto del ‘taglio’, inteso più come ‘accorciamento’ in scorcio e più come ‘ferita, lacerazione’ in squarcio. Il processo di tecnicizzazione che ha subìto scorcio nei trattati rinascimentali sulla prospettiva, oltre ad attribuire un’accezione ben determinata al sostantivo, gli ha permesso, nei suoi impieghi esterni all’àmbito specialistico, di far diventare comune il concetto generico di ‘visione di sbieco’, angolo, spicchio di panorama incorniciato da limiti obliqui. E, benché questo sia uno dei “terreni” condivisi tra i due sostantivi, dobbiamo precisare che proprio i margini che incorniciano la porzione vista fanno la differenza: lo scorcio sarà inserito tra margini obliqui sì, ma tracciati da linee nette, mentre lo squarcio avrà contorni sfrangiati, irregolari, come i lembi strappati di un pezzo di stoffa. E quindi è necessaria un’avvertenza: le due parole, come abbiamo visto, hanno gradi di espressività diversi e non sempre questo le rende sinonimi del tutto compatibili. Dire “da qui si vede uno scorcio di Roma straordinario” trasmette l’emozione di una visione armoniosa, rasserenante, che assumerebbe maggiore drammaticità con la sostituzione di scorcio con squarcio. “Da qui si vede uno squarcio di Roma straordinario” sembra, infatti, mettere in risalto i contrasti (di luci e ombre o anche di accostamenti tra architetture dissonanti) o accennare a uno spaccato racchiuso da contorni irregolari (magari di rovine o scavi: “una volta ricoperto lo scavo, hanno avuto la bella idea di non coprirlo affatto ma di esaltarlo, magnificarlo, quello squarcio, renderlo glorioso”: Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Milano, Rizzoli, 2016, p. 629). Le due parole possono funzionare come sinonimi in contesti figurati riferiti a porzioni di tempo, anche in questo caso con analoghe considerazioni: “l’ultimo scorcio/squarcio di secolo” rimandano a percezioni diverse della stessa porzione di tempo, la prima certo più frequente e più neutra, la seconda più drammatica e decisamente meno ricorrente, come confermato anche dalla ricerca nelle pagine in italiano di Google (7/10/2024) che restituisce un rapporto molto squilibrato tra le due opzioni “squarcio di secolo” (2.000 r.) e “scorcio di secolo” (ben 21.800 r.).
Anche i dizionari dei sinonimi evidenziano un rapporto piuttosto marginale tra le due parole: soltanto il Devoto-Oli dei sinonimi e contrari (2013) registra una relazione biunivoca tra i due sostantivi per cui s.v. scorcio, nella prima accezione di ‘angolo’, insieme a pezzo, prospettiva, prospetto, veduta, visuale, è inserito anche squarcio, e s.v. squarcio, sempre nell’accezione di ‘angolo’ (che però in questo caso è la seconda dopo quella di ‘fessura, spacco’), contempla scorcio. Il Dizionario Treccani dei sinonimi e contrari offre invece un quadro asimmetrico dei due sostantivi, per cui s.v. squarcio inteso come ‘angolo’ è citato anche scorcio, ma non viceversa. Lo Zingarelli 2025, infine, tra i sinonimi di squarcio cita scorcio nell’accezione temporale di ‘affresco, spaccato di un’epoca’.
L’uso linguistico reale è naturalmente molto più variegato e creativo rispetto a queste maglie schematiche in cui i dizionari incasellano le parole e le loro relazioni semantiche, ma resta sempre valido l’invito a una riflessione consapevole e fondata di fronte alla scelta di un sinonimo.
Raffaella Setti
3 marzo 2025
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