In occasione della Giornata internazionale della donna, l’Accademia della Crusca e Zanichelli editore propongono una riflessione sul genere dei nomi di mestiere o professione

Oggi il problema di genere è piuttosto d’attualità, visti i grandi cambiamenti del ruolo delle donne nella società moderna. In passato, il maschilismo costitutivo della società rendeva così improbabili certi mestieri per una donna che non c’era bisogno di declinarli al femminile. Siccome nessuna donna faceva l’avvocato o l’ingegnere o il fabbro o il sindaco non si poneva la questione di questi nomi al femminile, come non si poneva per il maschile di massaia (massaro aveva e ha un altro significato) o di casalinga.

Il genere grammaticale non coincide col sesso: la sentinella e la guardia sono grammaticalmente femminili, ma i mestieri soprattutto per maschi; contralto e soprano sono maschili ma denotano ruoli vocali soprattutto femminili (tanto che si dice anche la contralto, la soprano). Altri nomi sono ambigeneri come collega o artista o mendicante. In teoria non c’è niente di più adattabile al genere dei nomi di mestiere, che variano a seconda che li faccia un uomo o una donna; da qui la doppia morfologia, maschile e femminile, di molti suffissi che indicano attività, professione: -aio/-aia (cartolaio, verduraia), -iere/-iero/-iera (salumiere, guerrigliero, parrucchiera), -ino/-ina (imbianchino, postina), -tore/-trice (direttore, direttrice). L’italiano ha ormai accettato le coppie di nomi in cui al maschile -e corrisponde un femminile in -a e quindi usa senza problemi infermiere/iera, cameriere/iera, ragioniere/iera, consigliere/iera ecc.; non è però altrettanto disponibile ad accettare ingegnere/ingegnera e men che mai (se non scherzosamente) carabiniere/carabiniera.

Oggi la questione del genere si pone con particolare risalto per i nomi di certi lavori in passato preclusi alle donne. Il tempo riesce ad acclimatare al femminile o al maschile, purché grammaticalmente corretto, qualsiasi nome. Facciamoci caso: non abbiamo nessun problema a dire la preside (nome ambigenere), ma c’è qualche ritegno a dire la presidente o la vigile o la giudice. Eppure nomi di mestiere da participi presenti al femminile ce ne sono molti in italiano (la badante, la dirigente, la cantante…) e quindi non dovrebbe esserci alcun imbarazzo per la presidente. E così dovrebbe essere per la vigile e la giudice, nomi che per forma ammettono tranquillamente il femminile.

La grammatica insomma è condizionata dalla cultura, e questa è maschile anche oggi. Succede per di più che il suffisso del femminile -essa sia avvertito come spregiativo in certe giunzioni, specie quando è disponibile grammaticalmente un femminile standard, come in deputato/deputata/deputatessa. Se non c’è (ormai) alcuna traccia di svalutazione in -essa di dottoressa (così detta «per ischerno» secondo il secentesco Vocabolario della Crusca) o professoressa, professioni molto o soprattutto diffuse tra le donne, e men che mai ce n’è in nobili parole antiche come baronessa, contessa, duchessa, principessa, il nome sindachessa suona spregiativo ed è perciò sconsigliabile; non parliamo di ministressa e, in parte, anche di soldatessa, tanto più che esistono alternative normali e non connotate (ministra è impeccabile linguisticamente e socialmente, esattamente come maestra, e non parliamo di soldata). Invece col suffisso -trice (variante femminile di -tore) non c’è rischio di svalutazione e quindi ambasciatrice, direttrice, scrittrice, pittrice, attrice non fanno problema.

La resistenza del maschile o la renitenza al femminile è tale, per certi mestieri, che non si forma un femminile neppure quando sarebbe semplice e normale formarlo: non si vede perché come da maestro si è fatta maestra senza scandalo, da soldato soldata, da sindaco sindaca, per non dire di magistrata (va un po’ meglio per avvocata, attributo della Madonna, insidiato nella professione da avvocatessa).

In effetti i primi segnali emergono anche dai dizionari che sempre più rendono conto di questa variazione nel genere dei nomi di mestiere o professione, come risulta bene dalla voce femminile dello Zingarelli.

È vero però che a volte si può esagerare nel ristabilire la parità tra i generi. Certi nomi sono riferiti alla persona e alla carica. Presidente della Repubblica può essere il titolo di chi ricopre questa carica, quanto la carica stessa. In questo secondo caso si usa il maschile come genere «non marcato» e quindi più adatto ad esprimere qualcosa che non è né maschile né femminile. Spesso però la distinzione tra titolo e carica è sottile: amministratore delegato individua una persona o una funzione e quindi è possibile l’amministratrice delegata? Più si è nei dintorni delle proprietà di una persona e più è intuitiva la concordanza al femminile; ad esempio, se dico che interviene a una cerimonia «Maria Rossi, AD dell’azienda XY», sarebbe meglio scrivere «Maria Rossi amministratrice delegata di XY» che non «amministratore delegato di XY». Ma non si usa. O solo con molta esitazione. Però qui il tempo porterà certo (buon) consiglio.


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