L'Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione

È recentemente giunta all'Accademia una domanda da parte del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione riguardante la parità di genere nella scrittura degli atti giudiziari. La questione, molto sentita e molto attuale, tocca la quotidianità di chi lavora nei settori del diritto, dell’amministrazione della giustizia, della burocrazia delle istituzioni pubbliche, e interessa tutti i parlanti attenti a un uso della lingua che sia rispettoso delle differenze di genere: per questo la pubblichiamo volentieri nella sua interezza.

Risposta al quesito sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari posto all’Accademia della Crusca dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione

Premessa

A chi opera nel settore del diritto e dell’amministrazione della giustizia (cfr. in maniera specifica l’art. 121 del rinnovellato codice di procedura civile), così come a chi opera nella burocrazia delle istituzioni pubbliche, a tutti i livelli, è oggi richiesto di scrivere in modo chiaro e sintetico, secondo regole che da tempo sono state indicate, per le quali è necessario un addestramento attento e continuo che ne renda naturale e automatico il rispetto.

Un analogo addestramento costante serve per un uso della lingua attento alla prospettiva di genere. Nei molti manuali compilati da varie amministrazioni centrali e locali vengono di solito indicate e ripetute, in forma sostanzialmente identica, regole ispirate al modello proposto nel 1986-87 da Alma Sabatini, che ha introdotto queste tematiche nella nostra lingua, rifacendosi a sua volta al modello anglosassone. Alma Sabatini proveniva dalla cultura femminista del suo tempo e faceva riferimento in maniera esclusiva al rapporto tra donne e linguaggio, mentre oggi le rivendicazioni e le richieste di intervento si sono fatto più ampie, provenendo anche da parte di chi nega la tradizionale sistemazione binaria dei generi.

I principi tradizionalmente invocati per stabilire le regole o raccomandazioni per un uso della lingua rispettoso della parità di genere sono i seguenti:

1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare perché a torto considerato non marcato (da alcuni definito inclusivo o, meno correttamente, neutro);
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili;
3) accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi che sono in maggioranza o più vicini all’aggettivo;
4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne.

Alla base di questi assiomi sta il principio base, che consiste nella volontà di rompere qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione. Secondo chi sostiene questi principi, l’operazione non solo sana un’ingiustizia storica e ripulisce la lingua dai residui patriarcali di cui sarebbe ancora incrostata, ma ha anche una finalità educativa rispetto alla popolazione presente e futura, perché la lingua condizionerebbe la percezione della realtà, cioè il modo con cui le persone colgono e interpretano il mondo. Una simile concezione della lingua non è universalmente condivisa, e anzi c’è chi vede il pericolo di un eccesso di intervento. Le moderne neuroscienze (si considerino in Italia gli studi di Andrea Moro, ad es. La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo, La nave di Teseo, 2019) hanno messo in discussione il fatto che la lingua costituisca di per sé un condizionamento e un filtro rispetto alla percezione dei dati empirici reali. Inoltre illustri esponenti della cultura del secondo Novecento, come Lévi-Strauss e Dumézil, hanno insistito sul valore puramente formale del genere grammaticale, in quanto meccanismo strutturale della lingua ai fini del suo elementare funzionamento, molte volte totalmente estraneo alla componente del sesso. I principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno dunque sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali. D’altra parte queste mode hanno un’innegabile valenza internazionale, legata a ciò che potremmo definire lo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata: si veda a questo proposito il libro pubblicato dall’Accademia della Crusca «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, con un saggio di Giuseppe Zarra e interventi di Claudio Marazzini, a cura di Yorick Gomez Gane, 2017. Da ultimo, si deve prendere atto della connessione tra il tentativo di definire le regole di un linguaggio che dovrebbe escludere ogni vera o presunta discriminazione di genere, e l’aspirazione più ampia a un linguaggio ‘politicamente corretto’, tale da restituirci una lingua edenica e immacolata. Anche questa aspirazione ha dato luogo a polemiche, specialmente quando ha imboccato la deriva che porta verso la cosiddetta “cultura della cancellazione”, la quale comincia a farsi sentire anche in Italia. Ovviamente va tenuta distinta la libertà della lingua comune nel suo impiego individuale, nella varietà degli stili e delle opinioni, dall’uso formalizzato da parte di organismi pubblici. Anche l’uso giuridico rientra in questa possibile regolamentazione che investe l’impiego della lingua da parte di istituzioni dello Stato, ben distinta da altre funzioni della comunicazione (familiare, scherzosa, artistica ecc.), alle quali occorre per contro garantire la massima libertà.

Alla luce di questa premessa, l’Accademia, sentito il parere del Servizio di consulenza linguistica e del suo coordinatore, e dopo approfondita discussione in seno al Consiglio direttivo, fornisce in forma sintetica le indicazioni che seguono. 

Indicazioni pratiche

Evitare le reduplicazioni retoriche. In base al principio della concisione ai quali si ispira la revisione generale attualmente in corso del linguaggio giuridico, sono da limitare il più possibile interventi che implichino riferimento raddoppiato ai due generi, espediente pur largamente utilizzabile in contesti di pubblica oratoria e di valenza retorica. Intendiamo riferirci al tipo “lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate” e simili. Per evitare questo allungamento della frase si possono scegliere altre forme neutre o generiche, per esempio sostituendo persona a uomo, il personale a i dipendenti ecc. Quando questo non sia possibile, il maschile plurale “inclusivo” (a differenza del singolare) risulta comunque accettabile.

Uso dell’articolo con i cognomi di donne. Nell’uso generale, non solo in quello giuridico, l’omissione dell’articolo determinativo di fronte al cognome si è negli ultimi anni particolarmente diffusa, non solo nel femminile, ma anche nel maschile, che lo ammetteva, nello standard, nel caso di personaggi celebri del passato (il Manzoni, il Leopardi ecc.). Oggi è considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile. Non entriamo nelle ragioni di questa opinione, che riteniamo scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto. Osserviamo ancora che, nel caso in cui si ometta l’articolo con preposto al cognome di persone celebri, non si verificano controindicazioni, ma in altri casi si manifesta un’evidente perdita di informazione (“La presenza di Rossi in aula” si riferisce a un uomo o una donna?); quando sia utile dare maggiore chiarezza al genere della persona, sarà sufficiente aggiungerne il nome al cognome, o eventualmente la qualifica (“La presenza di Maria Rossi” o “La presenza della testimone Rossi”).

Esclusione dei segni eterodossi e conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre. La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e ad esso la scrittura deve corrispondere il più possibile. Inoltre il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…»). Lo stesso vale per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola (nei quali peraltro non compromette sistematicamente la distinzione di genere tra maschile e femminile, così come quella di numero, tra singolare e plurale). La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare. Ugualmente si potrà usare il maschile non marcato quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta: «Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 89, II c., Cost.).

Si tenga presente che il maschile non marcato è ben vivo nella lingua, nell’uso comune: “Tutti pronti?”, “Siete arrivati tutti?”, “Sono tutti sani e salvi!”, “Scendete tutti da quella barca: sta per affondare!”. In casi come questi, la reduplicazione, ammissibile nel discorso pubblico di un ministro o una ministra, di un rettore o una rettrice universitaria, di un sindaco o una sindaca, avrebbe effetti comici e inappropriati, specialmente in situazioni familiari o di urgenza. Inoltre, il maschile non marcato è in questi casi inevitabile: se lo si volesse annullare interpretando il maschile in maniera assurdamente rigida, occorrerebbe rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici, occorrerebbe insomma riscrivere milioni di pagine, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, che parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, ma intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine.

Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile. Si deve far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile. Questi nomi possono essere ricavati con l’applicazione delle normali regole di grammatica (ingegnere > ingegnera, il presidente > la presidente...). Ecco alcune indicazioni in proposito.

 In italiano esistono diverse classi di nomi:

1) i nomi terminanti al maschile in -o hanno il femminile in -a: magistrato/magistrata; prefetto/prefetta; avvocato/avvocata; segretario/segretaria, segretario generale / segretaria generale; delegato/delegata; perito/perita; architetto/architetta; medico/medica; chirurgo/chirurga; maresciallo/marescialla; capitano/capitana; colonnello/colonnella.

2) i nomi terminanti in -e non suffissati (quindi per i nomi terminanti in -tore e -sore si veda più avanti) sono ambigenere, cioè possono essere sia maschili che femminili e affidano l’indicazione del genere all’articolo (e stabiliscono l’accordo di altri elementi: aggettivi, participi…): il preside / la preside; il presidente / la presidente; il docente / la docente; il testimone / la testimone; il giudice / la giudice; il sottufficiale / la sottufficiale; il tenente / la tenente; il maggiore / la maggiore; ess. con aggettivo: il consulente tecnico / la consulente tecnica; il giudice istruttore / la giudice istruttrice, NON la giudice istruttore. Fanno eccezione forme ormai entrate nello standard come studente/studentessa (per professore/professoressa, vedi più avanti).

3) i nomi suffissati:
3.1) i nomi terminanti in -iere: il suffisso -iere (pl. -ieri) al maschile, è al femminile -iera, (pl. -iere); ess: cavaliere (cavalieri) / cavaliera (cavaliere); cancelliere (cancellieri) / cancelliera (cancelliere); usciere (uscieri) / usciera (usciere), brigadiere (brigadieri) / brigadiera (brigadiere); nel caso di titoli onorifici come cavaliere del lavoro e commendatore va considerato che finora sono rimasti al maschile anche quando assegnati a donne;
3.2) i nomi o aggettivi terminanti in -a e in -ista: al singolare sono ambigenere, mentre al plurale danno al maschile -i e -isti, al femminile -e e -iste; ess: il/la collega, ma i colleghi / le colleghe; il pilota / la pilota, ma i piloti / le pilote; l’avvocato penalista / l’avvocata penalista, ma gli avvocati penalisti / le avvocate penaliste; l’avvocato civilista / l’avvocata civilista ma gli avvocati civilisti / le avvocate civiliste; fa eccezione poeta/poetessa:
3.3) i nomi terminanti in -tore: il suffisso -tore (pl. -tori) al maschile, è normalmente al femminile -trice (pl. -trici); ess: tutore/tutrice; rettore/rettrice; direttore/direttrice; ambasciatore/ambasciatrice; procuratore/procuratrice; istruttore/istruttrice; uditore giudiziario / uditrice giudiziaria;
3.3.1) eccezioni: hanno il femminile in -tora (pl. -tore) pretore/pretora; questore/ questora; e il femminile in -essa (pl. -esse) dottore/dottoressa;
3.4) nomi e aggettivi terminanti in -sore:   il suffisso -sore (pl. -sori) al maschile, è al femminile -sora (pl. -sore); ess: assessore/assessora; difensore/difensora; estensore/estensora; revisore/revisora; supervisore/supervisora; fanno eccezione femminili ormai acclimatati come professore/professoressa.
3.5) nomi e aggettivi terminanti in -one (pl. -oni): hanno normalmente i femminili in -ona (pl. -one): commilitone/commilitona; fa eccezione campione/campionessa.

4) nomi composti:
4.1) composti con vice-, pro-, sotto- e 4.2) sintagmi con vicario, sostituto, aiuto: conta il genere della persona che deve portare l’appellativo: se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria/vicario, sostituta/sostituto; ess. Prosindaco (anche se il sindaco è donna) / prosindaca (anche se il sindaco è un uomo); vicesindaco/vicesindaca; sottoprefetto/sottoprefetta; sostituto procuratore / sostituta procuratrice; prorettore vicario / prorettrice vicaria; aiuto cuoco / aiuto cuoca.

5) Pubblico Ministero: Pubblica Ministera.

Si manterranno senza problemi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia al servizio della potenza straniera, la sentinella, la guida turistica, nonché i nomi grammaticalmente maschili ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano (ma è accettabile anche la soprano).