L'influsso dello spazio linguistico italiano sull'area balcanica: diacronia e sincronia

di Emanuele Banfi

Per gentile concessione dell'autore pubblichiamo la relazione che Emanuele Banfi (Università degli studi di Milano-Bicocca) ha tenuto a Tirana il 16 ottobre 2008 in occasione del Convegno Italicità e media nei Paesi dell'Europa Sud - Orientale promosso dalla Comunità Radiotelevisiva Italofona ospite della Radiotelevisione Albanese RTSH.

Nel suo contributo Emanuele Banfi offre un'ampia trattazione in chiave storica e sociolinguistica dell'influsso dell'italiano sull'area balcanica, una zona che è stata scenario di "dinamiche linguistiche intercorrenti" in cui l'italiano ha svolto il ruolo di uno dei molti "attori" partecipanti

0. Il tema che mi è stato affidato prevede un qualche chiarimento iniziale, di ordine metodologico, a riguardo, in particolare, di un termine - chiaro per chi fa parte della tribù dei linguisti, quorum unus ego... - ma non necessariamente esplicito per coloro che - e sono naturalmente i più - di questa tribù non è parte. Mi riferisco al concetto di 'spazio linguistico' italiano: nozione che prende a prestito, dalla terminologia delle scienze della terra e del cielo, il termine 'spazio', inteso nella straordinaria complessità che gli è sottesa e còlto nella ricchezza degli elementi che lo costituiscono, applicando questa nozione alla realtà sociale e linguistica della penisola italiana.


Con 'spazio linguistico italiano' si deve intendere, quindi, in prospettiva sincronica, l'insieme delle varietà linguistiche che formano la realtà linguistica della penisola italiana (italiano standard, italiani regionali, italiano popolare, dialetti italo-romanzi, lingue 'altre') e, in prospettiva diacronica, l'insieme delle varietà linguistiche che, nel corso dei secoli, hanno caratterizzato la storia linguistico-culturale della nostra penisola, baricentro del Mediterraneo.

0.1. È bene tenere in conto che l'Italia linguistica è sempre stata - e pur lo è ancora - tutto tranne che una realtà omogenea, esattamente come, del resto, tutto, tranne che omogeneo, è stato (ed è) il quadro socio-culturale d'Italia: quando parliamo di 'italiano'/'lingua italiana' intendiamo naturalmente quella varietà dialettale italo-romanza che, per il prestigio che ne ha connotato la vicenda storia, è divenuta 'lingua' e ha rappresentato (e rappresenta) - non senza qualche fatica, sia in passato che attualmente, in un clima di non sopiti 'particolarismi', anche linguistici - il punto di riferimento 'ideale' di chi si sente 'italiano': mi riferisco, ovviamente, al fiorentino cólto, a quel sistema formatosi 'di slancio' - come ben ricordava Francesco Sabatini, presidente dell'Accademia della Crusca, nella sua magnifica lectio magistralis tenuta, proprio lo scorso anno, presso la sua Università, Roma Tre. Sorto 'di slancio' tra i secc. XIII e XIV, grazie alla prodigiosa triade rappresentata dalla Tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio), vivificato dall'uso costante, via via crescente in ambiti diversi (e precedentemente affidati esclusivamente al latino), e divenuto, dopo l'Unità nazionale - per scelta politica (anche questa, non incontrastata, come ben ha più volte ricordato Tullio De Mauro nella sua Storia linguistica dell'Italia unita, edita da Laterza una prima volta nel 1963 e ripetutamente aggiornata) e per l'impeto sotteso al 'farsi' del crogiuolo di genti e favelle che è l'Italia - strumento identitario della nazione.

Ed è bene ricordare che l'italiano è stato, per secoli e si può dire fino ad un sessantennio fa, tranne che per limitate fasce della popolazione italiana, una lingua quasi esclusivamente scritta, connessa con le sfere alte, formali/formalizzate della comunicazione. E che, di contro, la stragrande maggioranza degli abitanti la penisola italiana ha avuto - e ancora ha, per altro - come lingua 'madre' o una delle innumerevoli varietà italo-romanze (dialetti italiani) o una delle - numericamente certamente assai inferiori ma, non per questo meno importanti - varietà alloglotte distribuite, a macchia di leopardo, su tutto quanto il territorio della penisola: dal franco-provenzale all'occitanico, dal francese al tedesco e allo sloveno, dal ladino al friulano e al sardo, dal croato-molisano all'arbërësh, dal neogreco al catalano, per ricordare solo alcuni casi.


Infine, non mi pare fuori luogo richiamare il fatto che alcune delle varietà italo-romanze sono state, a lungo (e, in parte, ancorché limitatamente, lo sono ancora) - per prestigio e per forza dell'uso - 'concorrenziali' rispetto alla varietà del fiorentino cólto: tralasciando il caso del siciliano illustre - preziosissimo tassello del quadro linguistico italiano del basso medioevo ma, di fatto, limitato ad usi esclusivamente poetici, fortemente settoriali (la produzione della celeberrima 'Scuola siciliana') - non va dimenticato che il veneziano, il piemontese, il genovese, il milanese, il napoletano ed evidentemente anche il friulano e il sardo hanno rappresentato, anche negli usi scritti della lingua, esperienze non secondarie e, in certi momenti storici e per certe singole aree della penisola, neanche troppo velatamente 'concorrenziali' rispetto al modello del fiorentino illustre: ciò è provato, tra l'altro, dalla importante tradizione poetico-letteraria e dalla tradizione delle scriptae civili 'altre' rispetto a quella fiorentina-toscana: tradizioni sviluppatesi come un fiume parallelo al grande corso dell'italiano, e studiate in modo magistrale (particolarmente per gli aspetti poetico-letterari) da un grande linguista svizzero-newyorkese, Hermann Haller nel suo bel volume, pubblicato nel 2002 dal romano editore Carocci, La festa delle lingue

In questo contributo cercherò di delineare - ancorché in forma necessariamente schematica e a grandi linee - il contributo e il ruolo che diverse (diatopicamente) e varie (diastraticamente) esperienze/realtà linguistiche provenienti dalla penisola italiana hanno esercitato sulle genti dell'area balcanica, territorio, certamente più ancora che quello d'Italia, complesso per ricchezza e varietà di popoli, di culture, di lingue.

 0.2. Un geografo francese, grande esperto di cose balcaniche, André Blanc, nel suo aureo volumetto, Géographie des Balkans, apparso a Parigi nel 1971 per i tipi delle Presses Universitaires de France, e dedicato alla illustrazione del quadro geo-antropico dell'area balcanica, nel riconoscerne la complessità, si poneva, in primo luogo, il problema di definire 'che cosa' si debba intendere sotto l'etichetta di 'Balcani'. Il termine balkan, di origine turca e significante semplicemente 'catena di montagne', fu attribuito - come è noto - dai geografi e dagli amministratori della Sublime Porta, ai tempi del loro insediarsi in buona parte del Sud-Est europeo (quindi, dal sec. XIV/XV in poi), ad un'area limitata della penisola, la Stara Planina bulgara. E poi, per estensione, tale termine fu utilizzato per indicare altre parti del territorio. Anche in questo caso, non senza contraddizioni ché - come osservava il Blanc a proposito dei problemi 'identitari' delle popolazioni balcaniche - essendo che il termine è risultato a lungo negativamente connotato, "personne ne veut être balkanique...". Non è un caso, tra l'altro, che una delle più prestigiose Istituzioni scientifiche che si occupano di cose balcaniche, l'anglicamente etichettato Institute for Balkan Studies di Salonicco, nella sua versione 'nazionale', è definito, in greco, come Idryma Meleton Hersonisou tou Aimou (Fondazione per gli studi sulla penisola dell'Emo) e come un'altra gloriosa istituzione (già) operante a Bucarest e dedita agli studi relativi alla penisola balcanica, si chiama ufficialmente Institut d'Études Sud-Est Européennes. Un bell'esempio di 'tabù' linguistico: 'balcanico' suona male alle orecchie di molti, e per molte ragioni; non ultima poiché esso rievoca il passato turco-ottomano di una vasta area d'Europa che, dal sec. XV e fino all'inizio del sec. XX, fu orientata in buona misura verso la Sublime Porta istanbuliota.

Prescindendo comunque da questioni di 'sensibilità' identitaria e sulla scorta dei dati che la storia offre e documenta - anche la storia linguistica, riflesso della 'storia' senza aggettivi - e dei dati che utilizzerò all'interno di questa relazione, considero 'balcanici', a pieno titolo, i segmenti del territorio del Sud-Est europeo costituenti le attuali repubbliche nate dalla dissoluzione della ex-Yugoslavia; poi la Bulgaria, l'Albania, la Grecia, e, per ragioni cui solo cursoriamente accennerò in questa relazione, anche la Romania e, in parte, l'Ungheria.

1. Tratterò dell'influsso sull'area balcanica esercitato dallo 'spazio linguistico' italiano: infatti l'influsso dell'italiano - inteso come la singola, fortunata varietà diatopica italo-romanza riconosciuta e fissata dal Bembo, all'inizio del Cinquecento, nella varietà del fiorentino cólto e sorvegliato, fonte dell'italiano letterario - altro non è se non un attore (e, per certi aspetti, neanche il più importante) sulla scena delle dinamiche linguistiche intercorrenti tra penisola italiana e area balcanica. Un attore, uno tra i tanti, non certamente 'il' protagonista.

Dal punto di vista metodologico mi pare utile definire una serie di macro-periodizzazioni che, per spessore storico e storico-linguistico, varranno quale filigrana di un quadro linguistico-culturale che va dall'alto-medioevo al pieno medioevo e poi dall'età rinascimentale al quadro moderno e contemporaneo: una sorta di filo d'Arianna, necessario, a mio parere, per cogliere l'insieme dei fatti intercorsi tra Italia e Balcani. Insomma, una sorta di utile bussola, funzionale alla navigazione.

 1.1. La storia dei rapporti tra la penisola italiana e l'area balcanica è complessa e, per capirne tutti i risvolti, bisogna addirittura risalire ai rapporti tra Roma repubblicana e i territori dell'Illirico, per passare poi alle conquiste romane nel Sud-Est europeo, alla formazione del quadro imperiale romano, bicipite (con due capitali: Roma e Costantinopoli), alla formazione di una intensa latinità/romanità balcanica e alla sua dissoluzione/metamorfosi in età alto-medievale determinata dalle presenze slave-meridionali, per arrivare, in età basso-medievale al ruolo di Venezia (ma anche di Genova, Pisa, Napoli) come tramiti tra l'Italia e segmenti diversi dell'area balcanica. Dal secc. XIV e soprattutto dal sec. XV, in particolare, l'area balcanica fu sottoposta poi e progressivamente alle conquiste turco-ottomane: la turchizzazione di buona parte dei Balcani ebbe come conseguenza, in quelle parti del territorio balcanico non toccate da tale fenomeno, l'accelerazione del loro orientamento culturale verso l'Italia e la formazione di quadri intellettuali balcanici che guardavano a Venezia, a Roma, a Napoli. Tale condizione sarà di lunga durata e continuerà per tutto l'Ottocento e buona parte del Novecento, il secolo che ha visto, da un lato, l'effimera 'italianizzazione' del Dodecanneso e dell'Albania e, insieme, negli ultimi decenni, la potente 'italianizzazione' delle coste dalmatiche e dell'Albania, grazie al mezzo radio-televisivo.

2. I primi contatti, con risvolti linguistici non secondari, tra Italia e Balcani datano almeno dal III sec. a.C., ovvero dal momento in cui Roma repubblicana guardò al di là dell'Adriatico e diede avvio alla serie di guerre note come 'guerre illiriche' i cui episodi più significativi furono la sottomissione delle genti illiriche e, infine, la conquista delle Grecia (146 a.C.) ridotta a provincia romana con il nome di Achaia; due secoli dopo tale evento, per opera dell'imperatore Traiano, le secolari campagne illiriche si conclusero con la conquista della Dacia, regione strategicamente importante per la difesa del limes danubiano. Dal III sec. a.C. almeno si avviò quindi il processo di latinizzazione/romanizzazione dell'area balcanica, processo rafforzato, dal sec. IV d.C., con la fondazione, sul sito dell'antica colonia greca di Byzantion, della nuova capitale imperiale, Costantinopoli, città bilingue, greco-latina almeno fino a tutto il sec. VII e centro di diffusione dell'elemento latino in tutta l'area balcanica. Nei Balcani - come mostrano i dati storico-documentari e quelli linguistici - si formarono almeno tre aree di forte latinizzazione/romanizzazione: il limes danubiano (da cui origineranno i dialetti rumeni: danubiani e sud-danubiani), l'area dalmatica (ove si formerà la tradizione linguistica dell'antico dalmatico, varietà romanza abbastanza bene attestata fino a tutto il sec. XIX), l'area della via Egnatia, proseguimento ideale nei Balcani della italica via Appia, raccordo tra Roma, Thessalonica e Costantinopoli e fulcro di una romanizzazione fortemente coesa con la romanizzazione dell'Italia meridionale e via di penetrazione di numerosissimi elementi latini e italo-romanzi attestati in albanese, in greco medievale e neogreco, nelle lingue slave meridionali. La latinizzazione e la successiva romanizzazione dei Balcani furono spezzate (ma non annullate), tra i secc. VI e VIII, dall'insediarsi in tutto il Sud Est Europeo (fin in Grecia, persino fino a Creta!) delle componenti slavo-meridionali: sloveni, croati, serbi, bulgari, macedoni. L'alto medio evo disegna il profilo di ciò che sarà il successivo quadro balcanico: un'area plurilingue e pluriculturale ove il greco e il latino fungevano, per singoli e diversi segmenti del territorio, da lingue-tetto e ove, dalla fine del sec. IX, per opera dei due fratelli tessalonicensi Costantino-Cirillo e Metodio, macedoni ma di cultura bizantina e formatisi alle lettere greche, si diffuse - e da loro 'inventata a tavolino' - una terza lingua-tetto, l'antico slavo ecclesiastico (o antico bulgaro, o paleoslavo), strumento di unificazione linguistico-culturale per le élites di tutte le genti slave: dai Balcani alla Rus' kieviana, dai Balcani al centro dell'Europa, fino alla rive della Moldava.

2.1. In età basso-medievale, tra i secc. X e XV, gli influssi dello spazio linguistico italiano sull'area balcanica interessano - grazie soprattutto al ruolo di Venezia, emergente potenza marinara (ma non andrà trascurato anche il ruolo di Genova e, in parte, di Napoli) - tutta la costa adriatica (dall'Istria alla Dalmazia: a Zara, a Spalato, a Dubrovnik/Ragusa, ecc.), quindi l'Albania, buona parte delle isole greche (Eptaneso e alcune Cicladi); quindi, segmenti strategicamente importanti del territorio della Grecia storica e, ancora, i grandi scali del Bosforo e del Pontos Euxinos. Venezia fu la fonte di una messe notevole di italianismi nel greco medievale, in dalmatico, in albanese; Genova, attraverso Chios e la sua mahona, veicolò genovesismi che si ritrovano, oltre che nel neogreco, anche sulle rive del mar Nero (ove, appunto, Genova aveva i suoi banchi: a Caffa, a Tana). Alle due capitali dei traffici marini d'Italia si deve la prima diffusione, in tutto il Levante, di elementi salienti di quella che sarà, per secoli, la cosiddetta lingua franca, un idioma semplificato nella struttura grammaticale e variabile nella composizione del lessico, tale, comunque, da essere facilmente compreso dagli Europei (i mediterranei, specialmente) che frequentavano i porti del Levante. Una sorta di 'imitazione dell'italiano' in bocca orientale, destinata a durare a lungo, e ancora vivace nel sec. XVIII: tracce significative se ne trovano ancora in due commedie goldoniane (Lugrezia romana in Costantinopoli, 1737 e L'impresario delle Smirne, 1760). Tra l'altro, echi divertenti di tale tradizione linguistica e culturale si hanno nel mozartiano Così fan tutte e nei rossiniani Il turco in Italia e nella Italiana in Algeri.

Le flotte veneziane, dominanti l'Adriatico, contribuirono alla diffusione di tale particolarissima realtà linguistica e, insieme, del veneziano coloniale (o veneziano 'de là da mar', la lingua diffusa nel vastissimo veneziano 'Stato da mar'): sui vascelli della Serenissima, segretissimamente allestiti nell'arzinà dei Veneziani, la lingua di bordo era naturalmente il veneziano e, anzi, i primi documenti che riflettono tale situazione risalgono ai secc. XIII e XIV, anche se le ciurme erano miste come ancora ricordava, nell'anno 1558, Christofolo da Canal nel suo trattato Della milizia maritima: "Hor venendo al caso della ciurma in Dalmatia (...) sono un corpo misto di 4 nationi, due parte del quale son schiavoni, una greca et una tutta insieme de Venetiani et Istriani".

In molte città di Dalmazia e d'Albania, per evitare l'influsso delle famiglie e dei partiti locali, le autorità (il conte, il podestà) ma anche i cancellieri e i notai erano generalmente italiani: a Spalato e a Traù venivano generalmente da Ancona e dalla Marche; a Ragusa/Dubrovnik la cancelleria era governata da italiani e i medici e i maestri erano ugualmente italiani. Ciò spiega il peso degli italianismi dei documenti antico-dalmatici provenienti da quella città.

All'ultimo segmento del basso medioevo - dal sec. XIV in poi - data un fatto di enorme rilievo nella vicenda storica dei Balcani, destinato a condizionarne pesantemente il quadro linguistico: il riferimento è alle già menzionate conquiste turco-ottomane di buona parte del territorio balcanico: Adrianopoli, l'attuale turca Edirne, chiave di volta del sistema difensivo bizantino dell'area balcanica, cadde nel 1330, un secolo abbondante prima della caduta di Salonicco, di Atene e, infine, di Costantinopoli. Tali conquiste ebbero, sul piano linguistico, due conseguenze: da un lato, ovviamente, il processo di turchizzazione delle lingue balcaniche (del lessico, in particolare, del bulgaro, del serbo, del macedone, dell'albanese, del neogreco); dall'altro, in quelle parti del territorio balcanico non soggette alla dominazione ottomana (Dalmazia, Eptaneso), una vistosa polarizzazione verso Venezia, Roma e, più in generale, verso l'Italia (Padova, ma anche Bologna, Pavia, Pisa furono città universitarie aperte ai rampolli delle famiglie balcaniche).

Si precisò e si acutizzò, in quella fase temporale, una vera e propria tripartizione dell'area balcanica: una Balcania orthodoxa, rappresentata dal mondo greco, serbo, bulgaro, macedone, rumeno e albanese-tosco che guardava verso Costantinopoli e verso la cultura del Patriarcato costantinopolitano; una Balcania catholica, rappresentata dal mondo croato, sloveno, dalmatico, albanese-ghego, rivolta verso l'ambiente romano e romano-germanico; una Balcania turco-islamica, sovrapposta alle e intersecantesi con le due precedenti.

2.2. In età rinascimentale e fino a tutto il sec. XVIII Venezia ebbe ancora un ruolo decisivo nella mediazione di vistosi elementi linguistici-culturali diffusi in buona parte dell'area balcanica: lungo tutta la costa dalmata, in Albania, in Grecia, il ruolo della Serenissima, scudo della cristianità contro l'aggressivo, coriaceo 'interlocutore' turco - tra il 1468 e il 1718 Venezia ebbe a sostenere ben sette guerre contro i turchi! - rimase indiscusso, anche quale tramite tra il mondo romano della Controriforma e alcuni centri di formazione superiore (l'università di Padova, soprattutto), meta di giovani provenienti dall'area balcanica. Ma, anche, porta aperta per le élites intellettuali balcaniche verso Milano, Pavia, Pisa e Bologna.


Nelle città balcaniche ove arrivava il segno del leone marciano, si parlava 'italiano': lo testimonia, tra gli altri, per il sec. XVII, Georges Guillet riferendo, nella sua celebre descrizione di Atene, la presenza tra i notabili della città di un certo "bon homme Capitanakis, riche marchand, qui parle fort bien l'italien..."; lo prova una relazione anonima del sec. XVIII ove, in relazione a Ragusa/Dubrovnik, appare scritto che là "i nobili [...] parlano italiano, un misto di dialetto romano corrotto dalla pronunzia e da qualche termine napoletano, che misti insieme formano un linguaggio che ha una certa grazia sua propria e particolare"; lo prova, ancora, la situazione linguistica delle isole Ionie durante la Venetocrazia ove il veneziano era 'la' lingua e ove la nobiltà si distingueva dal popolo perché sapeva (e voleva) parlare veneziano, ritenendo il dialetto neogreco (eptanesico) locale lingua di cui vergognarsi... Chi studiava andava in Italia, soprattutto a Padova. Anche l'alto clero cattolico, nel clima della Controriforma, era generalmente formato da prelati italiani: ancora nel 1694 i cittadini di Traù pregavano il papa romano di inviare a loro, finalmente, un vescovo che sapesse il croato... In Dalmazia le lingue letterarie erano il latino e l'italiano, specialmente nelle opere in prosa; lo slavo compare nella poesia, ma non mancano davvero poesie di autori croati in italiano: Girolamo Papali, spalatino (nato nel 1460); Nicola Naljeskovic (ca. 1510-1587) e Nikola Gucetic (1549-1610), entrambi di Ragusa, scrivono di filosofia in italiano.

È l'ambiente in cui formarono, tra i molti altri, due campioni delle sacre lettere rispettivamente italiane e neogreche: Ugo Foscolo e Dionisios Solomos, esempi interessanti e quanto mai autorevoli di tale clima: il Foscolo, zantiota, grecofono e venezianofono (e dalmatofono), scrive notoriamente in toscano illustre; il Solomos, corfiota, vate della Grecia moderna, scrive pure in toscano illustre e, paradossalmente, poi tradurrà in greco i suoi componimenti 'italiani', cosicché il suo Se gnorizo apo tin kopsi, divenuto poi l'inno nazionale greco, fu, all'inizio, poesia tutta italiana. È il clima in cui si formarono scienziati dalmati quali gli zaratini Alessandro Paravia (1797-1857) professore di eloquenza e Anton Maria Lorgna di Tenin (1736-1796), insigne matematico.

In tale contesto si capisce perché il documento - un firman emesso dalla Cancelleria della Sublime Porta nel 1801 - che fornì a Lord Elgin base legale della proprietà delle sculture del Partenone, oggi (ancora, malgrado le pressanti richieste del governo greco) al londinese British Museum, fu redatto in turco e in italiano: la redazione turca non è, almeno fino ad ora, emersa dagli archivi istambulioti, mentre la versione italiana è stata pubblicata esattamente dieci anni or sono (nel 1998) ed è stata commentata da Francesco Bruni. Secondo il Bruni, la stesura di tale documento di cancelleria era da attribuirsi ad un estensore greco che aveva studiato in Italia. E se, accanto alla redazione turca, come lingua occidentale si scelse l'italiano, il motivo è da ricercarsi nel fatto che l'italiano era, a quei tempi, lingua corrente nei Balcani e nel Mediterraneo. Né il firman istambuliota in questione è da considerarsi documento isolato: negli anni della Rivoluzione dei greci contro i turchi, i filelleni di Germania e d'Inghilterra, di Francia e d'Italia venivano informati degli avvenimenti in corso grazie a Il Telegrafo greco, un giornale stampato a Missolungi negli anni '20 del sec. XIX, scritto quasi completamente in italiano con traduzioni di articoli pubblicati inizialmente in greco sugli Hellenikà Khronikà, foglio glorioso della Epanàstasi greca.

È l'ambiente in cui crebbe e si formò Niccolò Tommaseo (Sebenico, 1802-1874), il padre della moderna lessicografia italiana. Tommaseo scoprì ciò che Foscolo non aveva visto, e cioè il tesoro della poesia popolare (orale): greca, illirica (serba, nello specifico), còrsa, toscana, tutte tradizioni viste in alternativa alla concezione retorica della letteratura propria del Foscolo, portatore - come ebbe a scrivere il Tommaseo a Cesare Cantù in una lettera del 1834 - di "tre peccati addosso, inespiabili: era retore, era bugiardo, era vile". Va segnalato il fatto che il Tommaseo scrisse in illirico (cioè in serbocroato) alcune prose liriche destinate alla Dalmazia e agli slavi, nelle quali auspicava l'amorevole collaborazione tra i popoli (e quindi tra italiani e illirici).

Quando, dopo l'Unità d'Italia, le tesi del Tommaseo iniziarono ad essere contraddette dai fautori della annessione della Dalmazia alla Croazia-Slavonia (il Tommaseo sosteneva la formazione di una Dalmazia autonoma, dove slavi e italiani convivessero e collaborassero), il dibattito si svolse su giornali che, come Il nazionale, di Natko Nodilo era, dalla fondazione (1862) al 1868, scritto in italiano (dopo il 1868 l'italiano fu abbandonato a favore del croato): segno del fatto che l'italiano era serenamente accolto sia come lingua di cultura e sia come lingua di un Paese da cui non giungeva alcuna minaccia di egemonia né, tanto meno, di dominazione diretta o indiretta. E ciò valse fintanto che, formatasi l'Italia unita e acutizzatosi il 'senso di nazione', le cose non ebbero a mutare, e radicalmente, anche in forza del concomitante emergere di altri e ben noti nazionalismi aggressivi.

3. Il sec. XIX rappresenta, per tutti i popoli balcanici, il momento del riscatto nazionale e della concomitante fondazione, in un clima di acceso romanticismo e di forti tensioni nazionaliste, dei nuclei portanti delle nuove identità nazionali: identità complicatissime, come si sa e fonti di drammi tremendi, non ancora malauguratamente conclusi. Gli intellettuali del Sud Est europeo guardavano, diversamente secondo i Paesi, prevalentemente ora alla Russia (i serbi, i bulgari, i macedoni), ora alla Francia e all'Italia (i romeni), ora alla Germania e all'Austria (gli ungheresi e gli sloveni). Ma, quando si dovettero discutere, nei diversi Paesi, i criteri sui quali fondare le norme per la fissazione delle nuove lingue, il modello della italiana 'Questione della lingua' diventò punto di riferimento per un dibattito che interessò tutte le nazioni balcaniche, dalla Grecia alla Bulgaria, dalla Serbia alla Croazia. Paradigmatico, a questo proposito, il caso della 'Questione della lingua' neogreca, del Glossikòn Zìtima, i cui maggiori attori guardano all'Italia e al modello manzoniano: con l'ipoteca, tuttavia, di una tradizione linguistica 'locale' talmente illustre - quella del greco classico -, da soffocare, di fatto, per quasi un secolo e mezzo, molti buoni tentativi di mediazione. Inoltre, a livello di lingua d'uso, l'uso dell'italiano (e del veneziano) come lingua familiare, a cavallo tra Ottocento e Novecento è ampiamente documentato per buona parte della costa dalmata. Matteo Bartoli, grande linguista dalmata, di solidissima formazione viennese, indagatore dei parlari popolari di Veglia e di Cattaro si sentì rispondere da un dalmata dell'isola di Krk (Veglia) cui aveva chiesto "Come si parla oggi a Veglia?": "Se parla talian, sior, anzi venezian".

E, ancora, a riprova del ruolo dell'italiano (e del veneziano) come lingua della comunicazione marinara, nella Imperial Regia Marina austriaca, la lingua d'insegnamento era l'italiano. Lo stesso ammiraglio Tegethoff, che vi studiò tra il 1840 e il 1845, usava ancora moltissimi italianismi nei telegrammi inviati a Vienna durante la campagna del 1866; campagna che, dopo Lissa, restituì Venezia all'Italia. Del resto le navi da guerra austriache avevano generalmente nomi italiani: Costanza, Danae, Delfino, Fulminante, Galatea...

3.1. Alle soglie del sec. XX, definiti gli assetti politici e, soprattutto, i quadri socio-culturali delle singole nazioni balcaniche, è comprensibile il progressivo venir meno, in area balcanica, di elementi provenienti dallo spazio linguistico italiano. Nella prima parte del secolo andranno però messi in conto da un lato l'effimero processo di italianizzazione del Dodecaneso greco, ove l'italiano fu, dal 1911 al 1947, lingua diffusa e ove, ancor oggi, molti anziani a Rodi, a Simi o a Kos ricordano l'italiano, appreso a scuola, accanto al greco e, dall'altro, il miserabile tentativo di 'italianizzare', rendendola fascisticamente 'romana', la nobile terra d'Albania.

La fine della Seconda guerra mondiale ha rappresentato per l'Italia - anche e fortunatamente - la fine di avventure espansionistiche e, conseguentemente, la fine di politiche di diffusione dell'italiano in casa d'altri e mediante mezzi davvero non commendevoli. Se mai andrebbe studiato il processo di diffusione dell'italiano in area balcanica mediato, negli ultimi decenni, da alcune 'centrali' atipiche: la prima, il ruolo delle università italiane come richiamo 'forte' per i giovani di Grecia e la conseguente formazione di (buona) parte della moderna classe dirigente greca nelle università italiane. Ciò non è avvenuto, ovviamente, nelle altre aree del territorio balcanico, poste più o meno decisamente sotto il controllo sovietico (e quindi, se mai, russificate) o - caso specialissimo - non è avvenuto per l'Albania, dibattentesi la terra degli eredi di Skanderbeg tra Mosca e Pechino (e, ove, per un certo periodo, subentrò al russo il cinese...; ma non a livello generalizzato e solo per ristrettissimi gruppi). La seconda, il ruolo della televisione italiana (o, meglio, delle televisioni italiane) come diffusori, a livello di massa, soprattutto in Albania (ma non solo là), dell'italiano e del connesso 'mito-Italia'. Anche questo, un caso che meriterebbe di essere indagato a fondo, soprattutto in previsione di una politica di 'corretta' diffusione della nostra lingua e della nostra cultura in un territorio, strategicamente importante, che rischia di essere completamente monopolizzato da Germania e Stati Uniti e di vedere quindi trionfare indisturbate le grandi lingue di quei grandi Paesi.


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