L’officina musicale dei libretti: indizi dai carteggi, tra Verdi e Puccini

di Alessandro Roccatagliati

Pubblichiamo qui gli atti della terza Tornata accademica Lingua italiana e musica tra Otto e Novecento, tenutasi all'Accademia della Crusca il 20 maggio 2024.

Parlare di "officina musicale" in relazione a quegli artefatti poetico-letterari che denominiamo “libretti” presuppone una distinzione, su cui è capitato di soffermarmi più volte (per cui qui vi ritorno rapido). Attiene alla loro natura di componimenti di destinazione drammaturgica, che esistono e vengono fruiti – al contempo – sia come “testi autonomi”, sia come “testi d’uso”. Da un lato, a sé e di per sé, il libretto d’opera è testo da leggere, comprendere in ciò che narra, pubblicare, vendere, discutere, studiare sul piano linguistico, valutare stilisticamente, o simili. Dall’altro, è manufatto che innesca altri e diversi processi artistici o creativi connessi con la sua finalità teatrale, di palcoscenico: anzitutto appunto quello della sua messa in musica, per canto e strumenti; ma anche – non di rado direttamente, senza passare per il tavolo del musicista compositore – la creatività scenografica, dei costumi, delle luci, della recitazione attoriale individuale e di gruppo (tra gesti espressioni e movimenti) per non dire di quella, oggidì, più complessivamente registica1. Ciò che sono personalmente chiamato a tematizzare su queste prestigiose pagine, perciò, è la principale valenza “d’uso” di quei manufatti: quella del loro impiego a fini di composizione musical-drammatica, in relazione sia a Verdi sia a Puccini. E, nello specifico, a soffermarmi su come e in che misura quella loro fondante finalità di elaborazione/rielaborazione si lascia ricostruire o almeno intravvedere nei carteggi che andiamo pubblicando come istituti di ricerca consacrati ai due grandi operisti.

Quanto all’ultimo nato dal lavoro congiunto di Edizione nazionale Verdi e Istituto Nazionale di Studi Verdiani – il Carteggio Verdi-Ghislanzoni – in queste pagine già scrive parecchie cose significative e interessanti, sulle tracce della costruzione dell’opera Aida, l’amico Marco Spada (insieme ai co-curatori Bonomi e Buroni). Riguardo invece all’insieme degli epistolari dei due compositori, editi in epoche più lontane o recenti, tratteggia il quadro Fabrizio Della Seta. Ma molto più in generale mi pare utile evidenziare come i cosiddetti «indizi dai carteggi» si lascino categorizzare, grosso modo, in quattro tipologie. Per prima e più macroscopica cosa, ritroviamo in essi tracce documentali sulle strutture ricorrenti dei processi produttivi, ossia sulle consuetudini relative alle vere e proprie fasi di lavoro che presiedevano alla costruzione dei libretti, più o meno sviluppate e complicate a seconda dei casi. Secondo e importantissimo elemento, ne traiamo più e più elementi che concernono tanto le scelte più generali (anzitutto quelle dei soggetti drammatici da far divenire opere) quanto le messe a punto macro o micro – tramite le verseggiature poetiche da configurare ad hoc – sul piano della “prefigurazione strutturale” dei pezzi musicali a venire (o, più raramente, della loro rispondenza al già musicato). Terzo aspetto, complementare ma comunque di rilievo, ne deriviamo consapevolezze sulle forme della comunicazione tra musicisti, letterati e chi altro fosse coinvolto in quella costruzione librettistica; forme di comunicazione che trovano l’espressione più sintetica nelle terminologie tecniche d’uso, che naturalmente mutarono nel tempo. Quarto e ultimo, indicazioni consistenti se ne traggono circa le posizioni di autorevolezza artistica rispettiva, cangiante pur essa a seconda delle condizioni produttive e delle fasi di ciascuna carriera, che sussistevano caso per caso nei vari rapporti di collaborazione letterato/i-musicista.

Lascio da un canto qui volutamente gli ultimi due aspetti, sia perché entrambi meno attinenti alla destinazione drammatico-musicale dei libretti, sia perché le questioni terminologiche meriterebbero ben altri approfondimenti (tantopiù in questa sede…), mentre l’ultimo tema ci condurrebbe lontano, in campo prettamente storico-musicale. D’altra parte, la distanza di un cinquantennio tra i decolli rispettivi delle carriere di Verdi e Puccini – pur se il primo fu ancora capace di affiancarsi al secondo rifulgendo, con l’ultimo capolavoro Falstaff al debutto lo stesso anno di Manon Lescaut – lascia subito immaginare anche al profano che usanze e consuetudini potessero subire mutamenti ragguardevoli. Tuttavia, se prendiamo celebri dichiarazioni parallele sul tema dei due compositori, anch’esse distanziate tra loro di decenni – "Un libretto, un libretto e l’opera è fatta", Verdi, 1865; "Non avendo libretto come faccio della musica?", Puccini, 1920 –, appare chiaro che continuità operative e costanti d’approccio a quelle "officine musicali" sussisterono per ambedue e meritino di essere almeno per sommi capi tematizzate.

Non è difficile ricavare dalle centinaia di documenti noti una sorta di "tipo ideale" – da usare come schema di lettura della varietà del reale – della procedura standard con cui all’epoca di Verdi giovane (anni ’40-’50 dell’Ottocento) si confezionavano quei testi per musica:

  1. La scelta del soggetto e la sua riconfigurazione costituivano un primo stadio di lavorazione ove convergevano riflessioni sia sull’adattabilità del dramma individuato – di genere teatrale era pressoché sempre la fonte – alla compagnia di canto, sia sul modo più opportuno di selezionarne/ristrutturarne le sezioni e dettagliarne azioni e dialoghi distribuendo il tutto su misura dei ‘numeri’ (brani) musicali a venire.
  2. Quest’ultima operazione veniva attuata con la stesura di sceneggiature in prosa più o meno minuziose dette "selve" o "programmi", per la cui messa a punto musicista, librettista e talvolta persino impresa e censura potevano anche discutere a lungo.
  3. Seguiva poi la verseggiatura vera e propria, elaborata solitamente per brani subito passati dal poeta al compositore, con la quale l’intera sceneggiatura veniva sviluppata in poesia dalla «forma musicale». Vale a dire, sintetizzando:
    • 3 A. Endecasillabi e settenari liberi per il rapido e densissimo susseguirsi delle azioni in recitativo, ma disponibili anche per passi da musicare in cosiddetto arioso (“Amami Alfredo”), o in “parlante melodico” (inizio Rigoletto);
    • 3 B Sequenze di organismi strofici perlopiù isometrici per dialoghi e cantabili organizzati seguendo o manipolando le forme canoniche di arie, duetti, introduzioni e finali, o per i cori;
    • 3 C Specifici metri di queste strofe concepiti in vista di andamenti melodico-armonici più o meno distesi e caratterizzati;
    • 3 D Sequenze sintattiche, inversioni poetiche, figure retoriche e singole parole che fossero musicabili anzitutto per eufonia, ma anche destinate qui e là a risaltare in quanto tali (in proporzione a quanto la musica ne avrebbe melodicamente trasfigurata o invece scolpita la pregnanza)

Viceversa, le procedure in auge all’epoca di Puccini furono molto meno standardizzate e decisamente più dipendenti da una varietà di casi, radicata però su due condizioni generali di fondo che erano profondamente mutate col realizzarsi e organizzarsi dell’Italia unita in Stato sabaudo. Sul lato della produzione teatrale, si aveva ora una centralizzazione accentuata di chi commissionava o in ogni caso determinava la circolazione delle nuove opere, pensate per affermarsi in repertorio: agivano in tali ruoli gli editori maggiori di stanza a Milano, Ricordi e Lucca dapprima, poi dal 1888 Ricordi e Sonzogno; e questa situazione comportava un’elaborazione iniziale di libretti e musiche molto più personalizzata, ponderata e controllata rispetto a quando lungo le Stivale suddiviso in più realtà politiche vigeva il policentrismo delle tante piazze teatrali attive, con relativi impresari committenti. Piazze per presentarsi nelle quali una dopo l’altra – fu la storia di Verdi come di ogni altro operista di successo preunitario – occorreva poter contare appieno su una koiné operativa e stilistica conosciuta a menadito da ogni librettista al lavoro in loco, foss’esso in servizio a Milano (Romani, Solera), Venezia (Piave), Roma (Ferretti), Napoli (Cammarano) e così via; la qual cosa nei casi più fortunati consentiva di creare anche due-tre-quattro opere all’anno in varie città, finché una carriera di vaglia non si fosse consolidata (gli “anni di galera” 1842-1859 per Verdi; ma per Donizetti o Rossini o Pacini, una vita operistica pressoché intera). Quanto invece al linguaggio musicale – è la seconda condizione di fondo – quello con cui si concepirono le opere fra fine Ottocento e inizi Novecento aveva abbandonato gli architravi fondamentali dello stile di scrittura degli anni precedenti, vale a dire la concezione per pezzi musicali chiusi (arie, duetti, terzetti, ecc.), le articolazioni standard di questi diversi tipi di pezzi (detti tradizionalmente ‘numeri’), le “fogge tipo” dei singoli brani musicali interni ai ‘numeri’ stessi; e abbandonata o spesso derogata, più in generale, risultava la concezione simmetrico-periodica del fraseggio vocale e strumentale. Questi appena elencati, però, erano stati anche gli elementi che avevano trovato un preciso corrispettivo nelle caratteristiche formali più pronunciate – nonché le più cospicue nel “prefigurare” il pezzo musicale a venire – della poesia librettistica di primo Ottocento: quelle appunto di cui s’è detto, tra suddivisione versi sciolti/versi lirici, stroficità modulari complesse, isometrie e sistemi accentuativi regolari prolungati, segnaletiche poetiche di intonazione simultanea, ecc. Così, via via che negli anni venne e modificarsi la sintassi musicale, si degradò di pari passo la cogenza del rapporto fra organismi poetici e organismi musicali, fino al punto che il linguaggio compositivo divenuto usuale poté consentire al musicista – ma non fu mai il caso di Puccini – di rivestire di note fin anche un testo interamente in prosa (primo caso in Italia: Risurrezione di Cesare Hanau - Franco Alfano, 1904).

L’immagine che i carteggi ci rimandano di Verdi rispetto alla scelta dei soggetti delle sue opere è meno univoca di quanto ci si figura sulla base dell’idea diffusa d’un suo ruolo sempre del tutto egemone nella fattura dei suoi libretti. In realtà, non vanno intanto dimenticati quei casi, d’inizio carriera, in cui Verdi operò senza problemi nella condizione che era stata di molti suoi predecessori: musicare un libretto già fatto per intiero o quasi, senza cioè poter intervenire sensibilmente sul processo e sui livelli del suo confezionamento drammatico e poetico. Capitò nell’autunno-inverno 1840-41 per il libretto di Nabucco, che era già stato scritto dal poeta Solera e consegnato a Otto Nicolai, che lo aveva rifiutato e lasciato nelle disponibilità dell’impresario Merelli; e del resto due anni dopo il musicista testimoniava di aver “scritto la musica su tre libretti di Solera [evidentemente Oberto, Nabucco e I lombardi], e confrontando l’originale, che io conservo, coi libretti stampati, non si troverebbero cambiati che alcuni ma pochissimi versi, e questi per convinzione di Solera stesso2”. Anche per Alzira, d’altronde, varie lettere mostrano che dal poeta dei teatri di Napoli Salvatore Cammarano il musicista ricevette senza interferirvi – salvo un timidissimo dubbio sull’eccesso di "tre cavatine di seguito" – prima il "programma" tratto dalla tragedia di Voltaire prescelta (Verdi la lesse solo nell’occasione) e poi brano dopo brano la poesia, mentre ancora non gli erano del tutto chiare né l’esatta suddivisione degli atti né la scansione dell’ultimo3.

Non furono però solo queste le occasioni in cui il compositore, anziché promuovere lui stesso la scelta d’un determinato soggetto drammatico, si limitò ad accettarla o se la lasciò suggerire. Per il suo esordio a Venezia, ad esempio, fu il presidente della Fenice conte Mocenigo, non convinto di un altro soggetto praticamente già tutto verseggiato dal poeta Piave, ad avanzare l’idea che si potesse comporre un’opera tratta dall’Hernani di Victor Hugo, proposta che Verdi accettò subito con entusiasmo4. A primavera 1848 invece, col musicista residente stabile da alcuni mesi a Parigi e solo di passaggio in un’Italia agitatissima dalla guerra e dalle sollevazioni antiaustriache, fu Cammarano da Napoli a perorare ed indurre la scelta definitiva per La battaglia di Legnano, con motivazioni risorgimentali ben acconce alla destinazione del titolo: la Roma repubblicana di inizio ‘49. Ma anche ben più tardi e in tutt’altre situazioni, per Otello, il progetto prese le mosse da volontà altrui: per far balenare l’idea al maestro ci volle una quasi congiura durante un pranzo di Giulio Ricordi e amici, d’intesa con Franco Faccio e Arrigo Boito; e il primo, interessato sia come intellettuale che come suo editore, impiegò poi anni ed anni di paziente insistenza - anche dopo che nel novembre 1879 Boito aveva verseggiato parte del libretto su un proprio abbozzo precedentemente apprezzato da Verdi - per far sì che l’opera venisse compiuta. Sono tutte circostanze che naturalmente non offuscano i molti e molti casi – da Macbeth ad Aida, da Rigoletto alla Traviata alla Forza del destino – in cui il musicista, una volta incontrato quanto faceva al suo caso (ad esempio nei prediletti Shakespeare, Hugo o Schiller), fu estremamente determinato ad imporre il soggetto desiderato e a volerlo seguire passo passo, talvolta anche in acerrimo contrasto con le censure. Opportuno però non indulgere in semplificazioni, sulla questione.

La scelta dei soggetti delle sue opere, per Puccini, fu pressoché sempre molto travagliata. Al di là di talune caratteristiche personali, non va escluso che incidessero due fattori precoci, l’uno biografico connesso all’altro frutto delle mutazioni intervenute nel processo produttivo. Il fatto che il massimo imprenditore del settore, casa Ricordi con a capo Giulio, avesse investito a lunga scadenza sul suo talento supportandolo con stipendio e incarichi fiduciari fin da dopo Le Villi (1884) e che in prima battuta con Edgar (1889), malgrado pluriennali tentativi di riaggiustamento, non fosse riuscito ad assicurare quel tipo di ritorno che da lui ci si attendeva – cioè un’opera di riuscita piena e remunerativa, capace di entrare in repertorio, con molte responsabilità addebitabili allo stravagante librettista Fontana – può darsi gli minasse alla base quella sicurezza nelle scelte drammatiche che aveva spesso contraddistinto Verdi. In un moderno contesto d’attenzione pubblica e mediatica, peraltro, dove le aspettative che con le sue nuove opere egli non fallisse, da star internazionale quale ben presto divenne, si fecero via via sempre più alte.

Non stupisce quindi di trovare Puccini esitante all’estremo a ridosso del gran successo con Manon Lescaut, nelle parole rivolte a Ricordi da un Luigi Illica alla prima esperienza di esplorazione di soggetti praticabili per un futuro libretto:

Ella ed io, cercando e torturandoci il cervello a cercare o inventar tele per Puccini, pigliamo un granchio solenne. Puccini ha confidato a un amico suo […] che nessuno sa capirlo, perché egli vagheggia una cosa… una cosa… una cosa… che! […] Si spieghi bene e chiaramente il Puccini, perché io, così, non so dove battere il capo per trovare che cosa è quella cosa che Puccini chiama cosa e che cosa è ancora non si sa. Porti un’idea, una situazione, un personaggio… qualche cosa di questa cosa e gli faremo un libretto5.

Non meno sofferte furono le ricerche prima di incrociare il soggetto di Madama Butterfly (1899-90, sempre con Illica) o, più tardi, quelle tra moltissime fonti (1904-07) prima di decidersi verso La fanciulla del West; per la quale dovette rivolgersi a nuovi librettisti (Carlo Zangarini, Guelfo Civinini) giacché proprio quegli stessi tira e molla su ipotesi plurime infine abortite avevano finito per spezzare l’intesa creativa tra lui e Illica – che aveva abbozzato più volte nero su bianco progetti e stesure parziali per Notre Dame de Paris, Maria Antonietta, Tartarin di Tarascona, La Femme et le Pantin e altri – dopo un quindicennio di collaborazione gloriosa ma certo logorante (Giuseppe Giacosa, terzo del fortunato team, era nel frattempo scomparso).

Del resto, già la frase e i periodi pluriennali citati danno idea precisa da un lato di quanto la scelta degli argomenti operistici fosse divenuta una responsabilità da ponderare collettivamente, anzitutto con l’industriale che investiva molto capitale nel prodotto a venire (l’editore Ricordi, sempre minutamente coinvolto e informato da librettisti e compositore), dall’altro che la progettualità relativa poté richiedere talvolta tempi assai lunghi di maturazione nonché, in quell’arco, scontare crisi o ripensamenti. Emblematico il caso di Tosca, un soggetto che Puccini notò e fece opzionare presso l’autore Sardou già nel 1889, ma che si risolse a realizzare sul serio solo otto anni dopo. E neppure un argomento che l’aveva affascinato e fatto decidere in breve – quello della Bohème – fu esente dal rischio di essere da lui abbandonato a lavori già bene avanzati6.

Un piano decisivo per poter affermare le proprie intenzioni teatrali fu sempre, per Verdi, quello della ristrutturazione dei soggetti individuati, nella fase d’approntamento del cosiddetto ‘programma’ in prosa. Non a caso, quindi, in più d’una occasione che gli stava a cuore egli provvide di persona ad estrarre dalle fonti situazioni e azioni di suo interesse prefigurandone anche la distribuzione in pezzi. "Io ti darò il sogetto ed io lo abbozzerò, ma voglio che tu faccia poesia..., poesia vera, non parola rimata"7: così nell’agosto 1846 annunciava a Piave, confidandogli trepidante l’aspirazione a fare Macbeth, quello che fu forse il suo primo esperimento diretto di stesura "programma" (in probabile collaborazione con Andrea Maffei). Altrettanto fece poi con Cammarano per il mai realizzato Re Lear, interamente abbozzato e spedito nel 1850 con esplicite evidenziazioni di dialoghi diretti e battute pregnanti8. Del Simon Boccanegra, nuovamente con Piave, inviò nel 1856 da Parigi a Venezia un «programma in prosa» tanto particolareggiato che ottenne di farlo approvare dalle autorità al posto del libretto finito9. Quanto ad Aida, del plurimo ruolo elaborativo del musicista prima che Ghislanzoni intervenisse a verseggiarla si dice altrove in queste pagine e ben si legge nella recente edizione del Carteggio tra librettista e musicista10.

D’altra parte, la personale inesperienza agli inizi e poi comunque la naturale ripartizione dei compiti fecero sì che per tutta la carriera fosse per Verdi normale delegare in parte o in toto la concezione dei ‘programmi’ – certo preservandosi la prerogativa di discuterli e perfezionarli – alla professionalità dei suoi librettisti. In vista del proprio debutto a Venezia, accettò nel 1843 prima la ‘selva’ dal Cromwell dell’esordiente Piave, poi quella di Ernani che il poeta stesso e Mocenigo avevano assemblato badando alle esigenze di censura più che alle sue idee (imposte però poi nell’evitare una mutazione scenica nell’atto III). Un paio d’anni dopo per l’Attila un primo riassunto del dramma tedesco di Werner Verdi lo fece fare a Maffei e lo inviò a Piave con una lettera di proprie riflessioni d’indirizzo ove, comunque, chiedeva che fosse il poeta a "studiare molto questo sogetto" e a fare «lo schizzo, ma distesamente scena per scena con tutti i personaggi; insomma che non vi sia che da verseggiare». Non altrettanto lisci, invece, furono i confronti fra Verdi e Cammarano sui dettagli dei programmi per Luisa Miller e Il trovatore scritti dal poeta per il musicista11, che nel primo caso aveva proposto (1847) e nel secondo scelto lui stesso e fatto tradurre (1851) i drammi originari quali soggetti. Per la tragedia tratta da Schiller, infatti, Verdi non poté che acconsentire di malavoglia ai molti mutamenti – primo fra tutti la riconversione a casta comprimaria del fondamentale ma scandaloso personaggio di Lady Milford, maitresse d’un principe – che il librettista probabilmente operò sia per "togliere quanto non sarebbe ammissibile dalla Censura», sia per «innalzare a maggior nobiltà il Dramma"; né lo convinse a mutare la conclusione del second’atto concepita su un’aria solistica di Rodolfo: unica concessione del poeta fu l’aggiunta d’un coro con ruolo sussidiario12. Quanto al Trovatore, la discussione fra i due riguardò più parti del programma spedito dal librettista ad inizi aprile 1851: il numero e la distribuzione dei pezzi di Leonora (inizialmente pensata come comprimaria), la presenza o meno di un’aria di Manrico nell’atto III, ma soprattutto i dettagli dei dialoghi che definivano la natura del personaggio di Azucena. Proprio a questo proposito i dissensi fra i due non furono di poco conto. Eppure, dopo che in una lunga lettera Cammarano aveva ribattuto alle considerazioni del musicista, questi depose quasi subito le armi: “Son troppo franco per dirvi che io sia convinto, però siccome ho tutta la considerazione pel vostro talento poetico, così lascierò trattare il Trovatore come meglio intendete, solo raccomandandovi tutta la sollecitudine possibile”13.

Il mutamento della struttura musicale di base nelle opere scritte all’epoca di Puccini, col superamento della concezione a “numeri” di cui si diceva in favore di una messa in musica continuativa lungo gli atti (o quadri) interi, comportò che gli stessi libretti venissero concepiti come sequenze di situazioni delle più varie fogge – fossero azioni interpersonali o (meno numerosi) momenti monologici – assemblati senza soluzione di continuità in sequenze drammatiche coerenti e realistiche. Ciò comportava, prima di passare alla lavorazione in versi, la stesura sistematica di particolareggiate sceneggiature in prosa dei vari momenti drammatici, i dettagli delle quali – i carteggi lo testimoniano a profusione, in specie per le tre collaborazioni Puccini-Illica-Giacosa sotto lo sguardo cooperante di Ricordi – venivano discussi e calibrati a più teste e con estrema attenzione. Nuovo e decisivo fu però il fatto che, seppur inizialmente pattuite, quelle sceneggiature non rimanevano stabili nel corso delle susseguenti lavorazioni vuoi letterarie vuoi musicali – spesso anch’esse distese su più anni –, bensì potevano essere messe in discussione ad ogni stadio della creazione e con interventi di modifica tanto su passaggi minuti quanto su segmenti d’azione articolati quanto addirittura su interi atti.

Se si seguono ad esempio le vicende creative relative alla Bohème nell’arco cronologico interessato (primavera 1893 – debutto febbraio 1896) si registrano discussioni e ripensamenti d’ogni ordine e grado: snodi cruciali della vicenda messi a fuoco a fatica (Puccini in un primo tempo avrebbe voluto che Rodolfo e Mimì non si lasciassero: Illica dovette impuntarsi e imporsi14); una seconda parte dell’atto iniziale che diverrà second’atto a sé (il Quartiere latino); varie scenette interne allo stesso Quartiere latino infine espunte (Musetta vi appariva subito, anziché ad effetto nel bel mezzo); inserti drammatico-musicali decisivi concepiti in fase assai avanzata (tutta la struggente parte finale dell’atto III alla Barriera d’Enfer); un ulteriore atto a lungo sceneggiato ma poi cancellato per intero (era situato in un cortile tra vari edifici urbani). Per Tosca accadde poi che né Illica né Giacosa venissero messi a parte di tagli di momenti scenici decisi da Puccini durante la stesura della partitura, e che quindi reputassero menomato il dramma che avevano concepito in forma di libretto (le bozze ultime non furono loro mostrate). Mentre il caso limite fu probabilmente quello di Madama Butterfly: Giuseppe Giacosa nel giugno del 1902 riteneva d’avere finito del tutto il suo lavoro, con la consegna del libretto intero perfezionato; ma dovette ricredersi, e farsi pure sbollire una gran rabbia (arrivò a minacciare di abbandonare del tutto l’impresa), quando sei mesi dopo Puccini, mentre stava componendo, decise infine di eliminare un intero atto dislocato presso il Consolato americano, già appunto verseggiato integralmente15.

Di fronte a un Verdi già molto affermato, cosa comportasse il passaggio dal programma alla verseggiatura in vista della messa in musica lo espresse bene – al limite del paradosso – l’inesperto commediografo Antonio Somma allorché per Un ballo in maschera chiese in sostanza che il musicista gli togliesse ogni responsabilità di prefigurare soluzioni poetiche condizionanti: “Io assumo di verseggiare il Gustavo III di Svezia sulla versione che vi affretterete a rimettermi. Oltre la sceneggiatura che mi favorirete converrà pel ritmo musicale, che vi annotiate in margine la forma delle stanze, del verso e del numero di questi per ogni stanza, perché io possa più facilmente offrirvi la poesia che conviene. Vi prego per questo di abbondare nelle avvertenze”16. A tanto, però, un programma stentava ad arrivare. Impregiudicata, ad esempio, era rimasta ai tempi di Ernani la scansione effettiva del secondo quadro del primo atto: fu Verdi a pretendere che quella generica "scena" già inviatagli da Piave non vedesse "farsi correr dietro Carlo, Ernani e Ruy senza spiegare un pezzo musicale d’importanza"17 (che divenne un duetto-terzetto). E per il Trovatore scriveva Cammarano a Verdi, a lavorazione delle altre parti già molto avanzata: "quanto alla forma musicale dell’ultima, o delle ultime scene, né io, né voi ce ne siamo gran fatto occupati"18. Cosicché, per quanto Somma avesse forse visto almeno in parte esaudite le sue richieste, il prosieguo della lavorazione al Ballo in maschera fu comunque costellato di varie messe a punto chieste e ottenute da Verdi.

Di fatto, gli interventi verdiani poterono esercitarsi su tutte le dimensioni rilevanti delle verseggiature. Con due obiettivi preminenti, distinguibili ma di per sé interconnessi: coordinare al meglio strutture metriche e strutture musicali in funzione del risultato drammatico-sonoro da lui immaginato; ottenere la massima efficacia nelle elocuzioni drammatiche dei personaggi tramite asciuttezza e perspicuità verbale (quella cioè ch’egli designava come "scenicità" o "teatralità" della parola19).

Sul primo dei due piani basti qui una nuda elencazione di episodi significativi. Circa la forma poetico-musicale da dare al "numero", cioè sulla distribuzione delle strofe a costituirne i ‘tempi’, Verdi nel Trovatore fu a lungo incerto per il finale atto II e per la parte di Leonora nel "Miserere" del quart’atto, per poi definirli lui stesso. Il numero dei versi per ciascuna strofa, determinante per l’articolazione da darsi alla o alle melodie cantabili, volle averlo sotto controllo già nel quart’atto del Macbeth 1847 almeno per l’Adagio di Macduff – che poi più tardi portò di sua mano da otto a dodici versi – e per la stretta seguente. Circa il metro da dare alle strofe cantabili, fattore caratterizzante avvio ed andamento ritmici dei relativi brani, Verdi ebbe ad intervenire badando a più d’un aspetto: la varietà metrica (come specchio della varietà caratteriale dei personaggi: Forza del destino, atto II), le flessibilità accentuative passibili di messe in musica meno regolarmente periodate dell’usuale (aria d’Amelia, Un ballo in maschera, atto II), talvolta la necessità di ridisegnare versi forniti dai poeti su misura di proprie invenzioni musicali nate a prescindere da essi (Rigoletto, la “tremenda vendetta” di fine atto II). Numerose infine le rifiniture richieste dal musicista, per adeguare curvature o simmetrie dei motivi ritmico-melodici, sia sull’accentuazione interna dei versi (due parole sdrucciole in due settenari richieste per la chiusa dell’Introduzione nel Ballo in maschera), sia sulle loro uscite (fine dell’aria di Alfredo in Traviata, II, 2: volle due ulteriori versi paralleli sdruccioli e non piani).

Quanto al piano della efficacia elocutiva e drammatica, non di rado Verdi chiese di perfezionare – a strutture metriche ossia di "forma musicale" invariate – il dettato e le valenze semantico-teatrali di strofe destinate a brani cantabili. Accadde ad esempio per l’Adagio dell’aria del duca in Rigoletto, II, 2, la cui seconda strofa volle "più bella della prima" e con "un bel pensiero filato, affettuoso" che abbandonasse la precedente idea d’una invocazione di vendetta20. Ma la più parte dei suoi interventi mirò costantemente ad ottenere, anzitutto nelle interazioni drammatiche, la massima plasticità espressiva tramite la concisione, considerata essenziale per l’effetto teatrale. Verdi si riferisce all’intero libretto di Macbeth, recitativi e strofe cantabili insieme, quando dà prime precise direttive a Piave: "Ti raccomando i versi che essi pure siano brevi: quanto più saranno brevi e tanto più troverai effetto ...  Nei versi ricordati bene che non vi deve essere parola inutile ... Brevità e sublimità"; ed è quasi poi un’ossessione quella con cui ribatte lo stesso tasto, insoddisfatto del poeta, nelle settimane successive. Ma altrettanto ribadirà più e più volte nei decenni seguenti, pretendendo spesso mutamenti o perché "la parola non scolpisce bene, non è evidente ... non sorte abbastanza", o perché "un punto assai importante e drammatico ... resta slavato per troppa abbondanza di parole", o per volontà "che ogni verso, starei per dire, ogni parola abbia portata" 21. E fu icasticità verbale sempre pensata e perseguita come mezzo teatrale: sarà la musica a farle da detonatore trasformandola nel vivo della rappresentazione scenica quasi in ‘parola-gesto’, capace di "riprodurre il più direttamente e pienamente possibile l’emozione che anima il personaggio"22.

Ancora verso la fine della carriera, sul cantiere di Turandot, Puccini dichiarò al librettista Adami qualcosa di molto netto circa l’importanza della verseggiatura librettistica, per il suo creare: “Finché non raggiungeremo quella forma definitiva che è necessaria a me per la musica … verso, metrica, situazione, parola … devono essere, fase per fase, studiati, vagliati, approfonditi”23. Ciò tuttavia non equivaleva, per le ragioni tecnico-compositive menzionate all’inizio, ad affermare una sua dipendenza stretta dalle forme poetiche infine predisposte dai letterati collaboratori (peraltro strutturalmente ben più lasche di quelle d’un tempo): molto numerose e documentate furono le occasioni in cui egli compose omettendo versi che si ritrovano ancor oggi a libretto, o invece in cui fornì tracce metriche sommarie (se non caricaturali) chiedendo che in base ad esse gli venisse confezionata ‘poesia in situazione’ ben adattabile a musica già da lui composta. Nondimeno, Puccini tenne sempre alla ottimale fisionomia poetica che un Giacosa era chiamato ad assicurare ai libretti che Illica stilava in versi più improbabili (“Attendo … la revisione di Giacosa (che ci vuole assolutamente, anche per l’unità del lavoro, e poi sotto forma più pensata il libretto acquista)”24). Un’esigenza che ben si combinava a quella più elevata coscienza di sé di molti poeti e drammaturghi dalla Scapigliatura in poi, fra ricerca di un’autonoma dignità teatral-letteraria dell’artefatto libretto e obblighi di relazione con l’“interlocutore deputato” musica25.

Da ciò derivarono ad esempio alcune stentoree proteste che Giacosa stesso elevò con Ricordi in difesa delle prerogative di dignità poetico-letteraria che egli volle preservare ai libretti a stampa di Tosca e Madama Butterfly (questioni di integrità e coerenza di strofe rimate), rispetto alle parole che Puccini aveva infine musicato in partitura26. Ma non v’è alcun dubbio sul fatto che talune revisioni operate dal Giacosa sugli organismi poetico-metrici in più passi dell’atto I della Butterfly – scena a due iniziale Sharpless-Pinkerton; finale d’amore – trovassero corrispondenze ben efficaci in pagine canore pucciniane con essi collimanti27. Senza peraltro che mai venissero a mancare i dovuti soccorsi da parte dei suoi librettisti, in forma di poesia acconcia alla comune e preziosa "officina musicale", tanto nei casi più tradizionali e pragmatici di zeppe precise richieste (i gruppi di quinari richiesti sempre a Giacosa per il concertato dei familiari nel prim’atto di Butterfly), sia di fronte a sollecitazioni allo stesso tempo più elevate sul piano estetico e più sfumate nelle suggestioni (il "canovaccio che mi facesse spaziare più liricamente" prima desiderato e poi ottenuto per la fine terz’atto della Bohème)28. Quanto al risultato di quel saper fare poesia guardando alla musica, la dice ancor oggi lunga – tantopiù in quest’anno centenario – la vitalità inesausta delle partiture pucciniane sui palcoscenici del mondo intero.

Note:

[1] La riflessione personale sul tema si avviò in Alessandro Roccatagliati, Libretti d'opera: testi autonomi o testi d'uso?, “Quaderni del dipartimento di linguistica e di letterature comparate” (Università di Bergamo), VI, 1990, pp. 7-20 (trad. ingl. Librettos: Autonomous or Functional Texts?, “The Opera Quarterly”, XI/2, 1995, pp. 81-95) per poi permeare vari contributi da allora dati alle stampe da chi scrive su questioni di librettologia.
[2] Lettera di Verdi al segretario del Teatro La Fenice Brenna, 15 novembre 1843, in Marcello Conati, La bottega della musica. Verdi e La Fenice, Milano, Il Saggiatore, 1983, p. 102.
[3] Cfr. le lettere di Verdi a Cammarano del 23 febbraio, 25 marzo e 18 aprile in Carteggio Verdi-Cammarano (1843-1852), Seconda edizione aggiornata, a cura di C. M. Mossa, Parma, Istituto Nazionale di Studi verdiani, 2021, pp. 6-14.
[4] Cfr. le lettere 2 e 5 settembre 1843 in Conati, La bottega cit., pp. 72-75.
[5] Lettera di Luigi Illica a Giulio Ricordi, gennaio 1893, in Eugenio Gara (a cura), Carteggi pucciniani, Milano, Ricordi, 1958, p. 78 sg.
[6] Cfr. lettera di Ricordi a Illica, 2 novembre 1893, in Gara, Carteggi cit., p. 93.
[7] Lettera 22 agosto 1846, pubblicata da E. Baker, Lettere di Giuseppe Verdi a Francesco Maria Piave 1843-1865, in «Studi verdiani», 4, 1986-87, pp. 136-166: 151 s.
[8] L’intero programma, inviato il 28 febbraio 1850, è pubblicato in Carteggio Verdi-Cammarano cit., pp. 218-222.
[9] Cfr. lettera di Verdi a Piave del 3 settembre 1856, in Conati, La bottega cit., pp. 380-386: 382.
[10] Cfr. Carteggio Verdi-Ghislanzoni, a cura di I. Bonomi, E. Buroni e M. Spada, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 2023 (“Edizione Nazionale dei Carteggi e documenti verdiani”, 3), in specie alle pp. 227-298.
[11] I due testi in prosa di Cammarano si leggono ora in Carteggio Verdi-Cammarano cit., pp. 137-142 e 245-250.
[12] Le frasi del poeta provengono da una sua lettera a Verdi del 22 dicembre 1847, mentre la discussione fra i due su fine second’atto si ricostruisce dallo scambio di lettere del 17 maggio e 11 giugno 1849: cfr. Carteggio Verdi-Cammarano cit., pp. 23 sg., 146 sg. e 167-169.
[13] Lettera del 5 maggio 1851: Carteggio Verdi-Cammarano cit., p. 263.
[14] Lettera di Illica a Ricordi, febbraio 1894, in Carteggi pucciniani cit., p. 99.
[15] Cfr. tra le molte di quelle settimane (anche a Ricordi, pure da convincere) lettera di Puccini a Giacosa, 16 gennaio 1903, in Gara, Carteggi cit., p. 231.
[16] Lettera 13 ottobre 1857, in Carteggio Verdi-Somma, a cura di Simonetta Ricciardi, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 2003, p. 183.
[17] Lettera 10 ottobre 1843, in Conati, La bottega cit., pp. 94 s.
[18] Lettera 23 agosto 1851, in Carteggio Verdi-Cammarano cit., p. 284 sg.
[19]  Cfr. Fabrizio Della Seta, “Parola scenica” in Verdi e nella critica verdiana (1994), nel suo «… non senza pazzia», Prospettive sul teatro musicale, Roma, Carocci, 2008, pp. 203-225.
[20] Lettera a Piave 14 gennaio 1851, cui il poeta rispose il 21 seguente (cfr. Franco Abbiati, Giuseppe Verdi, Milano, Ricordi, 1959, II, pp. 97 s. e 100-102) con una nuova sestina di settenari a cinque diverse soluzioni per il distico conclusivo, di medesima struttura ritmica.
[21] Dalle lettere del 6 novembre 1857 a Somma sul Ballo in maschera (Carteggio Verdi-Somma cit., pp. 212-213), 6 agosto 1861 a Piave sulla Forza del destino (Abbiati, Giuseppe Verdi cit., II, p. 647 s.), 26 ottobre 1870 a Ghislanzoni su Aida (Carteggio Verdi-Ghislanzoni cit., pp. 102-104).
[22] Gilles De Van, Verdi, un teatro in musica, Scandicci, La Nuova Italia, 1994, p. 64.
[23] Il passo venne riportato dallo stesso Giuseppe Adami, Puccini, Milano, Treves, 1935, p. 67 sg.
[24] Lettera a Ricordi del 7 settembre 1894, su La bohème: in Gara, Carteggi pucciniani cit., p. 110.
[25] Cfr. Adriana Guarnieri Corazzol, Scrittori-librettisti e librettisti-scrittori e Il compositore e il librettista, nel suo Musica e letteratura in Italia tra Ottocento e Novecento, Firenze, Sansoni, 2000, pp. 7-50: 8-16 e 95-127: 95-101.
[26] Cfr. rispettivamente Carteggi pucciniani cit., p. 169 sg. e Piero Nardi, Vita e tempo di Giuseppe Giacosa, Milano, Mondadori, 1949, pp. 852-855.
[27] Sia lecito rimandare a Alessandro Roccatagliati, La prefigurazione librettistica fra tardo Ottocento e “fine del melodramma”: spigolature sui processi di modificazione, in L’opera prima dell'opera. Fonti, libretti, intertestualità, a cura di Alessandro Grilli, Pisa, Plus, 2006, pp. 25-46: 36-41.
[28] Per questi ultimi due richiami, cfr. rispettivamente Giacomo Puccini, Epistolario, III: 1902-1904 a cura di F. Cesari e M. Giuggioli, Firenze, Olschki, 2022, p. 15; lettera a Ricordi, 21 luglio 1894, Gara, Carteggi pucciniani cit., p. 105.