Il Carteggio Verdi-Ghislanzoni

di Ilaria Bonomi, Edoardo Buroni, Marco Spada

Pubblichiamo qui gli atti della terza Tornata accademica Lingua italiana e musica tra Otto e Novecento, tenutasi all'Accademia della Crusca il 20 maggio 2024.

Carteggio Verdi-Ghislanzoni (1870-1893), a cura di Ilaria Bonomi, Edoardo Buroni, Marco Spada, 2 voll., Edizione Nazionale dei Carteggi e dei Documenti Verdiani, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 20231

1. Breve presentazione del Carteggio

Questa edizione ha avuto una gestazione molto lunga. Il progetto è nato nel 1987, quando l’allora direttore dell’ Istituto di Studi Verdiani (ISV) Pierluigi Petrobelli affidò al giovane musicologo Marco Spada, ricercatore per il nuovo epistolario rossiniano curato dalla Fondazione Rossini di Pesaro e poi titolare di una borsa CNR per collazionare documenti verdiani, la cura di un volume sulla composizione di Aida, muovendo dall’opera di Hans Busch2, un obiettivo che poi, in linea con le scelte dell’Istituto, si venne modificando nella direzione del carteggio tra compositore e librettista. A questa prima fase del lavoro, interrotta negli anni Duemila, è seguita poi (dal 2013), dopo la morte di Petrobelli, una seconda fase, quando il nuovo direttore dell’Istituto, divenuto Nazionale (INSV), Emilio Sala, ha affidato ex novo la cura del Carteggio Verdi-Ghislanzoni a Ilaria Bonomi, docente di Lingua italiana e testi per musica all’Università degli Studi di Milano, e a Edoardo Buroni, allievo di Ilaria Bonomi e con studi musicali pregressi, in quel periodo titolare di un assegno di ricerca su Antonio Ghislanzoni. La commissione a due storici della lingua impegnati in ambito linguistico-musicale e la statura letteraria del librettista hanno conferito un taglio interdisciplinare a questa curatela. Ma dopo qualche tempo, nel 2016, i due curatori sono entrati in contatto con il musicologo Spada, passato nel frattempo alla direzione di un teatro lirico e alla regia: Spada, che portava in dote il prezioso e corposo materiale delle trascrizioni delle lettere di Ghislanzoni e delle lettere di Ricordi con gli “appunti sull’Egitto” conservate a Sant’Agata e da lui copiate a mano, si univa ai due nuovi curatori. I tre studiosi iniziavano così un nuovo percorso potendo servirsi, oltre che del materiale di Spada già molto elaborato, delle nuove conquiste documentali a disposizione dell’Istituto, acquisite in gran parte dall’American Institute of Verdi Studies di New York.

Nel suo lungo percorso, il progetto di questo Carteggio si è modificato molto: si è dovuto rinunciare al proposito iniziale di pubblicare i documenti autografi relativi alla composizione del libretto, lacunosi e non consultabili negli originali, documenti che sono stati poi utilizzati nelle note alle lettere, per chiarire e documentare il continuo e fattivo scambio dialogico tra Verdi e Ghislanzoni nella composizione, possiamo dire a quattro mani, del libretto di Aida.

L’edizione, in due tomi, correda il carteggio, che verrà descritto tra poco, di alcuni saggi critici, che illustrano aspetti centrali del libretto e della storia di Aida.

Nel primo tomo, il carteggio è preceduto da un’ampia Introduzione, in cinque capitoli, dai profili biografici di Ghislanzoni, e degli altri personaggi coinvolti: l’egittologo Auguste Mariette, autore del soggetto, Paul Draneht (detto Draneht Bey), sovrintendente al Teatro del Cairo e alle celebrazioni per l’apertura del Canale di Suez, personaggio chiave nei rapporti tra Egitto ed Europa, il librettista e impresario francese Camille Du Locle, e il critico musicale Filippo Filippi.

Nell’introduzione, dopo la prima parte di taglio critico-bibliografico, di Marco Spada, nella seconda Edoardo Buroni ripercorre in diacronia il rapporto tra i due protagonisti, Spada nella terza documenta l’apporto alla composizione dell’opera da parte di Camille Du Locle e di Giulio Ricordi e nella quarta illumina la prima al Cairo (24 dicembre 1871) e il ruolo del critico Filippi; nella quinta parte, infine, Ilaria Bonomi illustra lo stile epistolare dei due interlocutori.

Il secondo tomo è occupato da un ampio saggio sul libretto di Aida, diviso in una prima parte di Marco Spada (3.1), che ne delinea il percorso dal Programma di Mariette al Libretto di Ghislanzoni; e in una seconda parte di Bonomi e Buroni (3.2), che analizza la struttura, la metrica e la lingua del libretto nella versione definitiva scaligera (8 febbraio 1872).

Concludono il volume le otto Appendici, che contengono i contratti di Aida e La forza del destino, le lettere di Verdi e Ricordi e di Verdi e Du Locle, quelle di Filippi a Ricordi, le “Lettere egiziane” di Filippi e le sue recensioni della prima scaligera sulla “Perseveranza”, e infine (app. 8) un elenco dei libretti di Ghislanzoni, frutto di nuove ricerche: un nuovo più completo regesto rispetto a quelli esistenti, per il quale è stato preziosissima la consulenza di Carlo Tremolada, grande esperto ghislanzoniano.

2. Il corpus delle lettere

L’interesse per la corrispondenza tra Verdi e Ghislanzoni, centrata principalmente sul rapporto creativo che vide la nascita di Aida, si manifestò quasi all’indomani della morte del compositore. Si può affermare che dal 1905, a seguito delle parole entusiaste di Alessandro Luzio (“la corrispondenza [di Verdi] col Ghislanzoni vale da sola un intero corso di estetica musicale”)3 per quasi tutto il Novecento moltissimi studiosi siano rimasti affascinati da questa vicenda pubblicando, integrando e chiosando le lettere e i documenti che man mano gli archivi, privati o pubblici, restituivano. Da Mazzatinti a Luzio, da Carrara Verdi a Abbiati, da Günther a Gossett, da Humbert a Abdoun, da Busch a Kitson, almeno fino alla fine degli anni Ottanta molto è stato riportato alla luce e precisato dei contorni storico-musicologici sulla complessa vicenda della creazione del libretto. Da allora questa ricerca sembrava conclusa o per lo meno sospesa, dati i noti e prolungati problemi di accesso alle fonti dell’archivio privato conservato dagli eredi del Maestro, che ha tenuto nel limbo moltissime pubblicazioni in edizione critica, musicali e della corrispondenza. Il nostro Carteggio che, come ha ricordato Ilaria Bonomi, ha una storia lunghissima ripartita proprio dalla fine degli anni Ottanta, ha ora finalmente potuto aggiungere un contributo, se non definitivo, certamente fondamentale, beneficiando paradossalmente del tempo trascorso e dei mutati eventi. Il lavoro compiuto per la disamina, trascrizione con criteri filologici, revisione delle esatte cronologie, si è giovato delle diciotto lettere rimaste (a suo tempo già da me trascritte) del librettista e delle cinquantatré del compositore, integrate da quelle di Giuseppina Strepponi, Giulio Ricordi, Filippo Filippi, Auguste Mariette e Paul Draneht Bey. Esso si è avvalso anche delle moderne possibilità di ricerca offerte dagli archivi e dai siti on-line (Ricordi, Pierpont Morgan Library, Bibliothèque Nationale de France, Corago, Internet Culturale, Treccani ecc.), che hanno contribuito in maniera fondamentale a precisare dati, biografie e rapporti tra i tanti attori coinvolti in questa articolatissima vicenda. Ma, soprattutto, il lavoro si è grandemente arricchito con la possibilità di esaminare i documenti preparatori del libretto: il Programma a stampa di Mariette, i manoscritti dello Scénario di Camille Du Locle, del Libretto in prosa di Verdi e di tutti i numerosissimi abbozzi, revisioni, scartafacci, appunti di mano di Ghislanzoni, poi corretti e integrati da Verdi, con alcuni interventi di Giuseppina.

Se per lunghi anni si è dovuto lavorare sulla faticosa decrittazione delle immagini di un dischetto e sulle precarie fotocopie dei testimoni, nel 2022, a pubblicazione imminente e anche se per una breve ma fondamentale visita, si è potuto confrontarle con i documenti originali, nel frattempo trasferiti all’Archivio di Stato di Parma. Così, oltre alla luce, al colore (in senso letterale) e alla vita che essi hanno di nuovo assunto, si sono potute verificare le grafie, gli interventi postumi, le interpolazioni, e si sono potute ricostruire le strutture e le cronologie che hanno diradato molte nebbie. Da ultimo, il lavoro si è giovato di un ritrovamento, fortuito ma fortunato: una cartellina da sempre ignorata riemersa dai faldoni impolverati, con le minute di tutte le lettere verdiane al librettista (una pratica consueta per il compositore), che ha consentito, in assenza degli originali perduti, di utilizzare degli Ur-text, di difficile trascrizione, e colmare la lacuna fondamentale dei primi approcci e scambi di opinioni tra i due, con le lettere che vanno dal 15 luglio (a parte la prima di Ghislanzoni a Verdi, tuttora irreperibile) alla risposta nota del 12 agosto 1870 del compositore (cfr. Carteggio, lett. 1-7).

Lo sbilanciamento critico iniziale, dovuto certamente soprattutto alla maggior mole delle lettere verdiane rispetto a quelle sopravvissute del librettista, ma anche a motivi puramente ideologici e/o agiografici, che aveva spostato il baricentro della creatività a completo favore di Verdi, nel corso del tempo ha trovato un punto di maggiore equilibrio con lo studio dei testimoni afferenti ai fondamentali apporti di Auguste Mariette, in primis, ma anche di Camille Du Locle e, naturalmente, di Antonio Ghislanzoni. Come per il restauro di un dipinto di cui siano scomparse alcune parti, il nuovo Carteggio Verdi-Ghislanzoni, che segue l’ordine cronologico ipotizzando anche il trait d’union della corrispondenza mancante, ha dunque ricostruito una storia stratificata con una vasta rete di rapporti, valutando senza preconcetti i tanti passaggi che hanno portato dal Programma al Libretto, e offrendo un’inedita varietà di spunti, voci, filoni che permetteranno una più facile integrazione qualora un domani la ricerca si dovesse avvalere di nuove scoperte e contributi4.

3. Il libretto di Aida

3.1. Dal Programma di Mariette al Libretto di Ghislanzoni

La rocambolesca e inaspettata nascita di Aida non può prescindere dagli eventi eccezionali che ne furono fondamentale contorno. Eventi di matrici diverse che compongono tuttavia il paesaggio di un’epoca in forti trasformazioni. Tra questi vanno citati almeno la crescita della potenza militare ed economica tedesca che sfocerà nella guerra franco-prussiana del 1870 e la caduta di Napoleone III; la rivalità della Germania con la Francia (e con la Gran Bretagna) come potenza coloniale sul Medio Oriente con importanti ricadute in campo industriale, ma anche culturale, sia nell’archeologia che nel teatro d’opera; le ambizioni dell’Egitto di svincolarsi dalla sudditanza all’impero ottomano e confrontarsi con le potenze europee attratte dalle opportunità offerte dal nuovo canale di Suez aperto nel 1869. E in Italia, ancora, il cambiamento del clima culturale, con l’emergere di una nuova generazione di poeti e musicisti ‘scapigliati’ alla ricerca di nuovi linguaggi, attratti dal sinfonismo di marca tedesca e dal nuovo credo wagneriano della ‘musica dell’avvenire’. A Milano, poi, restringendo il cerchio magico verdiano, dall’ascesa di Giulio Ricordi alla guida della potentissima casa editrice, che spinse il riluttante compositore a tornare alla Scala dopo la lunga assenza.

Fu in questo clima quindi che maturò il desiderio del khedivé d’Egitto, Ismail Pasha, di magnificare il passato faraonico dell’Egitto con una storia che ne attestasse l’antica potenza per avvalorare l’importanza geopolitica del (costosissimo) nuovo corso egiziano. Ordinò così a un reticente Auguste Mariette, egittologo di fama mondiale e fondatore del museo di Bulaq, ma suo dipendente, di scrivere un canovaccio autenticamente ‘egizio’ per farne un’opera da rappresentare nel nuovissimo teatro del Cairo. Oggi si sa con maggior chiarezza che Mariette sovrappose diverse storie attingendole dalle fonti documentarie delle sue scoperte che imbastì, nel contesto spettacolare, con una storia d’amore e morte ben congegnata e strutturata per poter poi diventare un libretto d’opera5.

Interessa in questa sede dare per sommi capi una analisi evolutiva delle trasformazioni del testo6. Riassumendo, si può dire che tutto il lungo e dettagliato processo di revisione si sia focalizzato a dare al canovaccio una struttura e una verità ‘teatrali’ che, partendo dal plot e talvolta dalle espressioni/parole stesse di Mariette arrivasse a dare coerenza e logicità (sempre nei limiti della finzione spazio-temporale di un’opera lirica) alle situazioni sceniche, alla psicologia dei personaggi nel loro interagire (le “posizioni” secondo Verdi), con un occhio calibrato per lo spettacolo d’effetto, tra quadri intimi in primo piano e quadri pubblici sullo sfondo storico. Non si è trattato, tuttavia, di un percorso, per così dire, dal buio alla luce, ma di una strada fatta di dubbi, ripensamenti, passi avanti e indietro, perfino dimenticanze.

Il modello teatrale al quale Mariette si ispirò fu quello più in voga nella Francia coeva, il grand-opéra, con il sapiente inserimento, nel contesto di quattro atti (non cinque, come prevedeva la regola) non solo di occasioni per creare cori, numeri chiusi, danze e pezzi d’assieme, ma soprattutto di scene di massa, come quella della “consacrazione”, con una sequenza di eventi poi seguita alla lettera da Verdi; il finale secondo con il “trionfo” e l’arrivo dei prigionieri etiopi, e il finale quarto con il palcoscenico sovrapposto dove la morte di Aïda e Rhadamès avviene mentre al di sopra cantano le sacerdotesse “dans la salle du temple située au-dessus du souterain”. L’idea dello spettacolo filologicamente ‘esatto’, di cui l’archeologo avrebbe dovuto disegnare e produrre a Parigi anche scene e costumi (incaricandosi ufficiosamente anche della ‘regia’ al Cairo), prese il sopravvento su motivi più strettamente drammaturgici, che rimasero non del tutto espressi. Ad esempio, le motivazioni politiche che spingono gli Egizi a invadere l’Etiopia, il ruolo secondario di Ramphis e dei sacerdoti, il poco risalto della figura di Amnéris, ma soprattutto il carattere farouche del personaggio di Aïda, tratteggiata come una novella Dalila decisa a sedurre Rhadamès in modo subdolo, rendendo così il tradimento del capitano odiosamente ‘volontario’.

Verdi non avrebbe potuto accettare tali incongruenze e, dopo aver fatto con l’aiuto della moglie una traduzione letterale completa del testo in italiano, convocò nel giugno 1870 a Sant’Agata Camille Du Locle, il librettista del Don Carlos parigino del 1867. Nei sei giorni che lavorarono fianco a fianco, Verdi e Du Locle si prefissero di correggere le ingenuità mariettiane e di creare una vera sceneggiatura teatrale, ridisegnando le scene interne ai quattro atti, spostando collocazioni temporali, aumentando l’importanza di Amnéris e della casta sacerdotale, creando le motivazioni all’agire dei personaggi e iniziando a collocare i numeri musicali. Il Secondo atto fu diviso in due scene, e fu creata la prima, quella nella “salle dans les appartements de la princesse Amnéris” dove avviene il confronto tra le due rivali. Nel finale fu ideato l’espediente della promessa di matrimonio tra Amnéris e Rhadamès, che fornirà ad Aïda, nel Terzo, il pretesto per decidere di gettarsi nel Nilo, un concetto al quale il compositore teneva moltissimo. Lo stesso atto fu poi ambientato decisamente durante la notte sulle rive del fiume, rispetto al generico “jardin du palais” di Mariette, e fu creata la scena dell’arrivo di Amnéris e Ramphis sulla barca, per giustificarne il rientro alla fine e creare il pretesto per l’imprigionamento di Rhadamès. Verdi e Du Locle scrissero anche abbozzi di dialoghi in terza persona, legando con maggior coerenza i temi politici con le ragioni private dei personaggi. Per ragioni di tempo, tuttavia, non riuscirono ad affrontare il Quarto atto e ancora a mettere a fuoco una soluzione per attenuare la seduttività di Aïda e rendere il tradimento di Rhadamès involontario.

Nella solitudine del ritiro agreste di Sant’Agata, fu Verdi stesso ad affrontare questi nodi irrisolti. Scrisse così un Libretto in prosa di inusitata lunghezza, dettagliando didascalie, dialoghi, posizioni e cercando, con molti ripensamenti e abbozzi, le soluzioni desiderate. Una vera sceneggiatura che ormai utilizzava i nomi italianizzati dei protagonisti. Da compositore, in questa fase, ideò la romanza di Radamès nel Primo atto, sviluppando anche quella di Aida nel Terzo, già abbozzata con Du Locle. Sempre nel Terzo si investì totalmente della situazione emotiva di Aida e ampliò molto il dialogo col padre, sottolineandone la temperie drammatica scaturita dalla coercizione psicologica esercitata sulla figlia, con l’obiettivo di suscitare un sentimento di compassione verso di lei da parte del pubblico, che ne avrebbe meglio giustificato la domanda scabrosa a Radamès, “E quel sentier?...”. Di conseguenza ampliò del pari il successivo dialogo con il generale egizio, attenuandone la ‘volontà’ di tradire la patria con lo spostamento, quasi voce dal sen fuggita, della frase “Le gole di Napata” alla fine del confronto, subito prima dell’irruzione di Amonasro. Con un colpo di genio Verdi creerà anche la prima scena del Quarto atto tutta dedicata ad Amneris, legandola al processo di Radamès, che colloca invece fuori scena con un effetto stereofonico tra i due piani dell’azione. Non tutto in questo trattamento è tuttavia risolto. Verdi, talvolta incerto, utilizza ancora molto dei testi di Mariette e di Du Locle, mutuandoli letteralmente e talvolta con espressioni di routine tratte da modelli operistici consolidati. Proprio nel finale dell’opera il compositore fa un passo indietro rispetto alle soluzioni precedentemente stabilite: sorprendentemente ‘dimentica’ il doppio palcoscenico sovrapposto e scrive una chiusa generica il cui diretto precedente è il finale riveduto (da Ghislanzoni nel 1869) della Forza del destino:

Aida. Io manco… ti precedo
Rad. Attendimi. Io non voglio vivere un’istante [sic] senza di te.
Aida. Sulla soglia del Cielo… là mi vedrai. T’aspetterò… non saremo allora divisi mai più!...
Rad. Attendimi attendimi
Aida. Ah! ti precedo… Addio… muore
Rad. Aida!!........
Cala il sipario

Quando nel mese di luglio il compositore, con la consueta mediazione di Ricordi, convocò a Sant’Agata Ghislanzoni con il preciso e circoscritto obiettivo di “fare i versi” del libretto, consegnò al letterato la sua sceneggiatura e, forse, una copia dello Scénario di Du Locle, con la prescrizione imperiosa di attenersi al “Programma”. Quello che incontrò non fu, tuttavia, un esecutore prono, come l’antico collaboratore Francesco Maria Piave, ma un letterato/poeta già esperto del mestiere che, pur mettendosi a sua completa disposizione, non rinunciò mai a esporre i propri pensieri e i propri dubbi. Fu così che tra il luglio e il novembre 1870, con alcuni incontri a Sant’Agata, ma lavorando distanti (Ghislanzoni a Caprino Bergamasco) il libretto prese vita. Con prevista regolarità Verdi rimandò indietro tutti i versi di cui non era soddisfatto, spesso accogliendo le seconde proposte sulle quali lui stesso aveva fatto delle importanti correzioni7. Il compositore chiese strutture metriche precise sulle quali adagiare la musica pensata, che Ghislanzoni mandava proponendo anche alternative. La seconda versione della romanza di Radamès “Celeste Aida” fu accolta esattamente come fu scritta dal poeta (lett. 5, 6). Il modello drammaturgico imposto da Verdi si dimostrò però obsoleto in alcuni passi, poiché contenente ancora ‘scorie’ delle precedenti lavorazioni e, paradossalmente, quando Ghislanzoni vi si attenne con deferente scrupolo, Verdi lo rimproverò chiedendo modifiche. Fu Ghislanzoni, infatti, a far notare al compositore che la determinazione di tempo (“quattro giorni”) e la richiesta di Radamès ad Aida di godere di “un istante di felicità che tra poco sparirà per sempre” nel sotterraneo avrebbe comportato un’inverosimiglianza, dando luogo a fraintendimenti “erotici” inadatti alla situazione (lett. 49). Nel duetto Amneris-Radamès sottolineò (letteralmente sul manoscritto) che alcune frasi avrebbero potuto ricordare al pubblico il duetto tra Norma e Pollione (lett. 37, 38). Fu ancora Ghislanzoni a cassare lo svenimento di Amneris alla fine del Terzo atto giudicandolo “inutile”, e a spingere il compositore a scrivere la romanza per Aida come un “idillio” che Verdi, a un certo punto, volle eliminare, salvo poi ripensarci quasi un anno dopo chiedendo versi per “O cieli azzurri” (lett. 71)8. La determinazione verdiana, le pressanti richieste di sintesi verbale, efficacia teatrale e di ‘parole sceniche’ costrinsero da un lato il poeta a uscire da alcune pastoie dello stile melodrammatico sperimentato e a trovare soluzioni che spesso privilegiarono il verso lirico più libero. Dal canto suo Verdi, vivendo un rapporto dialogico e dinamico con lo ‘scapigliato’ poeta, fu stimolato a trovare soluzioni nuove, specie per Amneris, come il coup de théâtre del suo rientro nel finale e un’ipotizzata romanza di taglio insolito: “E se facessimo una Romanza? Una Romanza con versi novenarj? Che diavolo ne salterebbe fuori? Dobbiamo provare?” (lett. 44). L’elaborazione dei versi nell’ultimo duetto tra Aida e Radamès e la quartina di Amneris (l’“In pace”) furono il frutto conclusivo di un lavoro a quattro mani, il cui tormento è testimoniato dai documenti rimasti (lett. 58-61). Il compositore fu entusiasta dell’ultima complessa elaborazione del duetto Amneris-Radamès del Quarto atto (lett. 54) e ritenne addirittura “Stupenda l’invettiva d’Amneris” (lett. 58) contro i sacerdoti. Assai complessa fu invece la riscrittura di due fondamentali ‘posizioni’ dei personaggi: la prima, lo svelamento di Amonasro nel Finale secondo, di cui Verdi fu sempre insoddisfatto perché “i personaggi non sono bene in scena, vale a dire non agiscono come devono”, su cui ritornò sino a gennaio 1871 (lett. 65-70). La seconda, la parte di dialogo ‘a tre’ nel Terzo atto, per collocare efficacemente l’ingresso di Amonasro quando Radamès, ora meno volontariamente, rivela il segreto militare, un punto sul quale Verdi ebbe molti dubbi e ripensamenti fino all’agosto 1871, poco prima di inviare la partitura a Ricordi per trarne la copia per il Cairo (lett. 30, 34, 72).

Ghislanzoni, conscio dell’importanza del compito che stava svolgendo, in totale ammirazione e dedizione al maggior compositore col quale avesse lavorato, portò in dote il suo bagaglio di moderata innovazione, ma svolse funzione di stimolo e ricerca per Verdi, in una fase di profondo rinnovamento del suo stile compositivo. Al punto che talvolta egli divenne più realista del re. In una nota a margine del manoscritto del Secondo atto spedito a Verdi, nel punto in cui Aida e Amonasro si riconoscono in segreto, Ghislanzoni propose al compositore un taglio delle sue stesse parole proprio per ragioni di continuità musicale. Il mantra verdiano di “brevità e azione” era diventato anche il suo:

Ho ommesso le [sue] parole di Aida: “Ed io per salvarlo quasi lo perdeva” = e l’altre: “Non mi scoprire io vivo alla vendetta” [.] Mi parevano inutili, ed ho anche supposto che potessero interrompere il regolare procedimento musicale, a meno di traslocarle internamente9.

3.2. La lingua del libretto

3.2.1. Contorni della coautorialità

Che compositore e librettista nel melodramma del XIX secolo si possano spesso considerare coautori dei libretti delle opere da loro composte è un fatto noto: una coautorialità che investe la scelta del soggetto e della fonte, gli interventi strutturali, narrativi e linguistici sull’ipotesto, scelte formali, in particolare metriche, in relazione al rapporto con la musica, e altri aspetti di ordine drammaturgico. Una coautorialità che varia molto i suoi connotati, dipendendo, prima di tutto, dalla statura di ciascuno dei due autori e dal loro rapporto di collaborazione. Dei modi della collaborazione tra Verdi e i suoi poeti sappiamo molto, e sono proprio i carteggi a offrircene la documentazione più diretta ed esplicita, oltre che, naturalmente, le opere stesse e la loro analisi.

Nel caso del libretto di Aida, molti elementi concorrono a chiarire le ragioni e le forme di una coautorialità che forse si può considerare maggiore rispetto alle altre opere verdiane. Vediamoli in sintesi.

Elemento fondamentale è sicuramente la mancanza di una fonte letteraria o teatrale di partenza: come è noto, e come è appena stato illustrato in dettaglio nella ricostruzione della storia del libretto, Verdi ha avuto un ruolo assolutamente centrale nell’avviare dal Programma dell’egittologo Mariette quello che diventerà, verseggiato da Ghislanzoni, il libretto dell’opera. Per nessuna opera Verdi ha avuto tanta libertà di ordine narrativo, drammaturgico e scenico nello sviluppare quello che era solo un abbozzo. Nella prima fase, quindi, di costruzione del testo verbale in forma scenica, Verdi è del tutto protagonista, in assenza della mano del librettista, che interverrà solo dopo: una situazione del tutto inusitata nell’ambito dell’equilibrio dei ruoli tra i due nella storia della librettistica.

Dei principi e dei modi della collaborazione tra Verdi e Ghislanzoni nella composizione del libretto e del rapporto tra i due dicono molto, naturalmente, le lettere, che evidenziano uno scambio continuo, equilibrato e quasi privo di tensioni, soprattutto su aspetti contenutistici e scenici e sulla metrica. Verdi insiste soprattutto sulla prospettiva drammaturgica, richiamando Ghislanzoni a una maggiore attenzione per l’azione, le situazioni, le scene, la teatralità, i personaggi:

So bene ch’Ella mi dirà “E il verso, la rima, la strofa? …[”] Non so che dire… ma io, quando l’azione lo domanda abbandonerei subito, ritmo, rima, strofa farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige. Pur troppo, per il teatro è necessario qualche volta che Poeti e Compositori abbiano il talento di non fare, né poesia né musica. (lett. 11, 17 agosto 1870)

Non mi piace troppo che dopo Amonasro chiami Aida. Mi parrebbe meglio che Aida volgendosi lo incontrasse.
Cielo!... È mio padre
Come pure a me non mi piace troppo la frase: Io del tuo core tutti leggo i misteri. Nella bocca di quel Re feroce e furbo mi parrebbe meglio “Nulla sfugge al mio sguardo [”] (lett. 32, 7 ottobre 1870)

Mentre, pur chiedendo talvolta di sostituire certi metri ad altri e suggerendo correzioni formali, ha spesso parole di apprezzamento per il verseggiatore:

Non intendo (sia detto una volta per sempre) parlare dei versi che sono sempre buonissimi, ma della situazione della scena et. Et…. (ivi).

Quanto al rapporto umano tra Verdi e Ghislanzoni, il tono delle lettere rivela non solo una profonda ammirazione, naturalmente, di Ghislanzoni per il Maestro, ma anche la stima di questo per il poeta, che aveva cominciato ad apprezzare per la revisione della Forza del destino (4.1). Il registro del dialogo è sempre serio e sostenuto, mai confidenziale, e rivela la considerazione con cui Verdi guardava alle soluzioni stilistiche proposte da Ghislanzoni. Va osservato che solo a lui, tra i suoi librettisti, Verdi si rivolge con il più formale lei, passando a un certo punto del Carteggio al meno formale voi, il pronome allocutivo intermedio tra il confidenziale tu e il più formale lei: a Solera, Piave e Maffei dava del tu, a Somma, Cammarano, Boito del voi. Ghislanzoni manterrà sempre, nei confronti di Verdi, il lei. Dopo Aida, lo scambio epistolare, che durerà comunque fino alla morte del poeta, si riduce moltissimo, toccando argomenti poco importanti, ma si fa più affettuoso.

Ma anche nel vivo della componente linguistica, emergono spunti e aspetti che concorrono a una coautorialità dai molti risvolti: come diremo tra poco, infatti, il Maestro stesso contribuì a caratterizzare la lingua con alcune sue preferenze o tendenze, in ambito sintattico e interpuntorio, principalmente, ma anche nel tradizionalismo fono-morfologico, per la sua propensione verso il sublime.

3.2.2. Fra tradizione e innovazione

Nell’ambito del processo di rinnovamento formale e linguistico dell’opera negli ultimi decenni dell’Ottocento, Aida ha come si sa un posto molto importante, al quale per parte sua il libretto contribuisce senz’altro. Senza entrare nell’argomento più complessivo della maggiore o minore modernità dell’opera Aida, estraneo a questo contesto, intendiamo solo accennare, rinviando soprattutto alla parte seconda de Il libretto di Aida (t. II, pp. 317-344), al carattere bifronte del libretto sotto il profilo formale, fra tradizionalismo e innovazione. Premettendo che sarà esclusa da questa breve sintesi la metrica, di cui dirà Edoardo Buroni nella parte quarta, che rappresenta indubbiamente la componente più moderna di questo libretto, osserviamo preliminarmente che la modernità emerge anche dalla sintassi e dalla retorica, mentre la componente fonomorfologica e soprattutto quella lessicale sono più orientate verso il tradizionalismo, che potremmo però definire tradizionalismo moderato.

La struttura sintattica dei versi ghislanzoniani, alla quale come accennato hanno sicuramente contribuito le scelte del compositore, soprattutto inerenti alla caratterizzazione dei personaggi, manifesta alcuni caratteri chiari, pur nella varietà strutturale del libretto: incisività e brevità, principi insistiti nella poetica verdiana, concisione, e insistenza di una sintassi spezzata, emotiva, espressione della psicologia delle due protagoniste. Una sintassi concitata, fortemente emotiva, quella di Aida e di Amneris, fatta in gran parte di frammenti di frasi, di parole che si succedono, spesso in funzione appositiva, frequentemente separate dai puntini di sospensione, talvolta senza che si componga una frase organica e completa: puntini di sospensione, mai tanto frequenti come in questo libretto, adottati dal poeta per rispondere alle esigenze del compositore, per mettere in evidenza le parole pregnanti, qualche volta le stesse ‘parole sceniche’, e rendere il ritmo concitato, che naturalmente si lega strettamente alla musica. Queste frasi spezzate si alternano alle numerose esclamative e interrogative che costellano le battute soprattutto di Aida. Diversa, e meno caratterizzata nella sua funzionalità, la sintassi scandita, composta da frasi per lo più semplici, complete nei loro elementi logico-sintattici, una sintassi più tipica dei versi lirici, di facile ritmicità in collegamento con la musica e la metrica, che ricorre più spesso con versi parisillabi (senari, ottonari, decasillabi). Contenuto il tasso di tradizionalismo anche nell’ordine delle parole, molto spesso, pur in poesia, diretto, e con inversioni di modesta valenza retorica e che non compromettono quasi mai la facile e immediata intellegibilità del testo. Complessivamente scarsa, poi, la valenza nobilitante delle figure retoriche, di cui appare evidente la spiccata finalità ritmica e patetica. Prevalgono le figure che riconducono in generale al parallelismo e alla ripetizione, strumento importante del pathos: le strutture binarie, dominanti, e ternarie, l’anafora, la ripetizione. Significativa l’assenza della metafora, figura di parola di pertinenza soprattutto semantico-concettuale, molto diversa e quasi opposta alle preferite figure che contribuiscono alla ritmicità del libretto e anche, possiamo dirlo, alla sua sostanziale facilità linguistica.

Il tradizionalismo si concentra piuttosto nel tessuto fonomorfologico e nel lessico. Nella fono-morfologia, non stupiscono scelte conservative scontate nel codice melodrammatico, come il monottongo, la mancanza dell’articolo (di mia man ricevi; saggio consiglio ascolta), i pronomi desso, ne ‘ci’, il predominio del passato remoto, l’imperativo tragico, i condizionali in –ia, il futuro fia, e simili; ma sono notevoli alcune assenze di tradizionalismi: il pronome neutro di contro all’esclusivo lo, i sostantivi in -ade/-ude, nell’esclusività del tipo pietà, virtù; da notare anche la modesta presenza di forme enclitiche.

Alle scelte tradizionalistiche e nobilitanti nell’ambito del lessico certo sospinge, al di là della consueta tendenza arcaizzante del codice librettistico, la specificità del soggetto storico antico, al quale saranno forse da ricondurre parole elevate e nobilitanti non tipiche della poesia, ma rare o desuete, come arra ‘pegno’, assisa ‘divisa’, carola ‘danza’, immite ‘spietato’, invitto; molti i poetismi tipici del melodramma fino alla sua svolta decisamente innovativa di fine Ottocento, come alma ‘anima’, accento ‘parola’, avello ‘tomba’, nembo, prece, serto ‘corona’, speme, vanni ‘ali’ e altri.

La responsabilità di queste scelte tradizionalistiche, in linea con il codice librettistico ottocentesco non ancora andato in crisi alla data di Aida, grava, certo, più su Ghislanzoni che su Verdi, ma la tensione verdiana verso il sublime, il nobile, il sostenuto, il non comune10, ha sicuramente avuto una sua parte. Va però ben sottolineato come il tradizionalismo emerso in questo libretto abbia uno spiccato carattere di medietà, molto distante dal modello di Romani e Cammarano, a cui è fedele, tra i librettisti verdiani, Piave, che concentra con alta frequenza nei suoi libretti tutti i tratti più spiccatamente anticheggianti del codice melodrammatico. In generale, infatti, Ghislanzoni nei suoi libretti seri (altra cosa sono quelli comici) usa una lingua solo mediamente conservativa, con accentuazione del tradizionalismo in libretti in cui l’argomento, l’ambientazione e la più forte tragicità lo richiedevano maggiormente. Il codice melodrammatico non ha ancora subito la sua svolta fatale di fine secolo, ma nella penna ghislanzoniana è certo diverso da quello dei primi decenni.

4. Antonio Ghislanzoni librettista

4.1. Antonio Ghislanzoni librettista (e non solo)

Oggi con buona probabilità il nome di Antonio Ghislanzoni (Lecco 1824 – Caprino Bergamasco 1893) è noto soprattutto associato a quello di Giuseppe Verdi, con cui egli collaborò per la stesura di Aida. Se non c’è dubbio che quell’incontro ha rappresentato il culmine della produzione e della carriera dell’artista lecchese, va d’altro canto ricordato che queste si svolsero per diversi anni articolandosi su più fronti: lo sanno bene, ad esempio, gli storici della letteratura italiana, che ricordano Ghislanzoni quale esponente della Scapigliatura, autore di romanzi (una menzione merita almeno il ‘fantascientifico’ Abrakadabra. Storia dell’avvenire), racconti e versi poetici di vario genere; ma nelle molteplici fasi della sua vita Ghislanzoni fu anche baritono, impresario, giornalista (un’attività a cui si dedicò fino alla fine dei suoi giorni) e critico.

La sua mente e la sua penna produssero una mole sterminata di scritti, spesso raccolti in volumi collettanei e più volte ripubblicati: a puro titolo esemplificativo si possono ricordare Racconti e novelle, Racconti politici, Libro allegro, Libro proibito, Libro serio, Libro bizzarro, Libro segreto, Capricci letterari; e tra i periodici a cui l’autore collaborò come redattore, giornalista e direttore (talvolta ideatore e tuttofare) si citeranno “L’uomo di pietra”, il “Cosmorama pittorico”, la “Gazzetta musicale di Milano”, la “Rivista minima”, il “Giornale Capriccio” e “La posta di Caprino”.

Sterminata è poi la produzione librettistica di Ghislanzoni, impossibile da determinare con certezza11: stando a quanto si evince da testimonianze attendibili, dalla documentazione sicura e dagli esemplari fino a noi pervenuti, si può affermare che i testi per musica da lui scritti tra melodrammi, cantate, inni, soggetti per ballo e revisioni di opere altrui superano la novantina, a partire dal libretto de Gli Abenceragi (1851) musicato da Giovanni Luigi Bazzoni; va per altro notato che ben poco di tutto ciò ha superato la prova del tempo: oltre naturalmente ad Aida e alla seconda versione della Forza del destino (1869), possono menzionarsi al massimo I promessi sposi per Errico Petrella (1869), I Lituani per Amilcare Ponchielli (1874) e forse Fosca per Antônio Carlos Gomes (1873) e Francesca da Rimini per Antonio Cagnoni (1877) che all’epoca riscossero un buon successo e una discreta circolazione (un caso particolare è la lirica Noi leggevamo insieme, ancora sul soggetto di Paolo e Francesca, musicata inizialmente da Ponchielli e poi da Giacomo Puccini).

La scrittura, anche privata, di Ghislanzoni si caratterizza variamente per scorrevolezza, (auto)ironia, sagacia, malinconia, polemismo talvolta caustico, pessimismo, sarcasmo, gusto per il gioco di parole e la trovata estemporanea, solida conoscenza della tradizione letteraria e sperimentalismo. I suoi libretti, poi, manifestano una non comune musicalità ritmica e un’ampia presenza di iuncturae (spesso originali) e dittologie, in un quadro che da un lato rimane ancorato in parte al ‘librettese’ dei decenni precedenti (cfr. 3.2.2) ma che dall’altro presenta tratti più innovativi soprattutto sotto il profilo metrico.

Una versatilità e una poliedricità, derivanti anche dalle esperienze musicali e scrittorie pregresse, che furono colte e apprezzate da Verdi, il quale rimase evidentemente soddisfatto della collaborazione che si ebbe per la revisione scaligera della Forza del destino, durante la quale, pur all’interno di rapporti e contatti avvenuti per lo più tramite l’editore Giulio Ricordi, Ghislanzoni diede prova sia di sapersi adattare con docilità alle richieste del Maestro, sia di avanzare proposte e commenti che spesso ben collimavano con l’orizzonte verdiano e con il buon senso drammaturgico dell’efficacia teatrale. Fu così che per la stesura di Aida il compositore pensò subito a Ghislanzoni, chiedendo per ben due volte a Ricordi di sondarne la disponibilità; ma apparentemente si sarebbe trattato di un intervento di poco conto, quasi scolastico: “Bisogna ora pensare al libretto, o, per meglio dire, a fare i versi, perché oramai non abbisognano che i versi – Ghislanzoni può Egli e vuole farmi questo lavoro? – Non è un lavoro originale; spiegatelo bene; si tratta soltanto di fare i versi” (Verdi a Ricordi, 29 giugno 1870)12. Questo perché il soggetto e la trama più dettagliata dell’opera sarebbero già stati elaborati in particolare grazie ad Auguste Mariette e a Camille Du Locle. Eppure anche in questa circostanza il poeta lecchese non mancò di mettere al servizio del genio verdiano un contributo ben più creativo e propositivo.

4.2. Aspetti metrici del libretto di Aida

Per esemplificare il tratto innovativo della poesia ghislanzoniana, pur saldamente legata alla tradizione melodrammatica, ci si concentrerà su alcuni brani, partendo dal primo assolo del tenore protagonista, Radamès. Costui, dopo il breve dialogo con il sacerdote Ramfis che apre l’opera, attacca il proprio recitativo a partire dal secondo emistichio di un endecasillabo, sfrutta insistentemente gli enjambements e spezza le frasi in coincidenza delle sinalefi interne ai versi, senza però evitare la tradizionale clausola baciata dell’ultimo distico (“[…] Se quel guerriero / Io fossi! se il mio sogno / Si avverasse!… Un esercito di prodi / Da me guidato… e la vittoria… e il plauso / Di Menfi tutta! – E a te, mia dolce Aida, / Tornar di lauri cinto… / Dirti: per te ho pugnato e per te ho vinto!”): tutti elementi che, uniti alle scelte sintattiche e all’impiego di un discorso riportato fittizio, denotano creatività e avvicinamento a uno stile più prosastico e moderno. Diversamente, la romanza successiva (“Celeste Aida”) presenta una rispondenza rigorosa tra estensione del verso e articolazione sintattica, compresa la scansione interna regolare in coincidenza del passaggio tra emistichi: una forma schematica e tradizionale coerente con la scelta di Ghislanzoni di prevedere per quest’aria due quartine a rima alternata con versi pari tronchi. Ciò che invece si segnala sotto il profilo dell’originalità è il metro: si è infatti in presenza di doppi quinari, versi decisamente rari nella librettistica precedente e coeva per brani di questo genere.

Per la seconda aria di Aida (“O cieli azzurri”) valgono analoghe considerazioni analitiche: anch’essa, infatti, si compone di due quartine a rima alternata con versi pari ossitoni e assenza di inarcature forti; ma in tale cornice sono contenuti dettagli di singolare ricercatezza: non solo il recitativo precedente (“Qui Radamès verrà…” ecc.) si era concluso senza il consueto distico baciato (la rima si era avuta invece tra ultimo e terzultimo verso), ma per l’aria si hanno esclusivamente endecasillabi, versi lunghi e prosastici tipici del recitativo e non dei pezzi chiusi, e quasi sempre essi presentano una possibile doppia scansione (compresa e sfruttata da Verdi in partitura) di quinario più settenario qualora si ignorino le sinalefi e si considerino i segni di interpunzione come elementi di stacco non solo sintattico ma anche poetico (“O cieli azzurri… o dolci aure native / Dove sereno il mio mattin brillò… / O verdi colli… o profumate rive…” ecc.).

Ben diversa è invece la struttura della prima aria della protagonista, polistrofica e polimetrica: al lungo recitativo iniziale (“Ritorna vincitor!” ecc.) che presenta qualche rima più del consueto ma anche qui non nel distico finale (l’ultimo verso rima infatti col quartultimo) segue una prima sezione costituita da un’esastica di senari (“L’insana parola” ecc.) a rima alternata con primo e ultimo verso (tronco) sciolti e una rimalmezzo (rendete / struggete, già preceduti dal primo imperativo sperdete); riprende poi una successione non ordinata di endecasillabi e settenari quasi tutti a rima baciata o alternata, segno del fatto che non si è di fronte a un nuovo recitativo canonicamente inteso (“Sventurata! che dissi?…” ecc.), che sfocia in due quartine di soli endecasillabi con clausole alternate e tronche in sede pari (“I sacri nomi di padre… di amante” ecc.); il brano si conclude con un’ulteriore sezione, una tetrastica di doppi quinari tutti tronchi (anche al mezzo), che nei decenni precedenti sarebbe servita da cabaletta ma che qui assume un andamento lirico e sommessamente implorante (“Numi, pietà – del mio soffrir!” ecc.). È forse superfluo sottolineare come Verdi abbia rivestito questo passo così caleidoscopico con colori musicali e drammaturgici a loro volta differenziati e cangianti.

Un commento speciale merita, a tal proposito, il finale dell’opera, che dimostra quanto le geniali e sempre audaci intuizioni del compositore di Busseto abbiano trovato in Ghislanzoni un efficace realizzatore. Questo infatti Verdi aveva richiesto al poeta il 13 novembre 1870:

Le dissi jeri di farmi otto sett: per Radamès, prima degli otto per Aida. Questi due soli, facendo anche due cantilene diverse, avrebbero presso a poco la stessa forma, lo stesso carattere; ed eccoci nel comune. I Francesi, anche nelle strofe per canto, usano talvolta mettere dei versi o più lunghi, o più corti. Perché non potressimo noi far lo stesso? – Tutta questa scena, non può né deve essere, che una scena di canto puro e semplice. Una forma di verso un po’ strana per Radamès, mi obbligherebbe a cercare una melodia diversa da quelle che si fanno comunemente sui settenarj ed ottonarj, e mi obbligherebbe anche a cambiare movimento e misura per fare il solo (un po’ a mezz’aria) d’Aida. Così con un / Cantabile un po’ strano di Radamès / Un altro a mezz’aria d’Aida / La nenia dei Sacerdoti / La danza delle Sacer. / L’addio alla vita degli amanti / L’In pace d’Amneris formerebbero un’insieme variato, ben svillupato, e s’io posso musicalmente arrivare a legare bene il tutto in un tutto, avremo fatto una buona cosa, o almeno cosa che non sarà comune. Coraggio dumque Sgr Ghislanzoni. Siamo alle frutta: Ella almeno. Veda dumque, se in quest’accozzaglia di parole senza rima che le mando, può farmi dei buoni versi, com’Ella ne ha fatti tanti. […] Ella non può immaginare, sotto quella forma sì strana, che bella melodia si può fare, e quanto garbo le dà il quinario dopo i tre settenarj; e quanta varietà danno i due endecasillabi, che vengono dopo: sarebbe però bene, che questi fossero o entrambi tronchi, o entrambi piani. – Veda s’Ella può cavarne dei versi, e mi conservi… tu sì bella! che fà tanto bene alla cadenza. Tutto il resto, come le scrissi jeri, solo domanderei nell’A Due ultimo di farmi degli endecasillabi tronchi13.

Ecco allora che la scena, dopo il recitativo di Radamès e l’avvio del dialogo con Aida, prevede un assolo del tenore costruito su una strofa irregolare di tre settenari, un quinario, un distico di endecasillabi e tre quinari, tutti rimati ma senza uno schema preciso (“Morir! sì pura e bella!” ecc.); gli risponde Aida con due tetrastiche di settenari con primo e terzo verso sdruccioli, secondo e quarto (quest’ultimo tronco) rimanti tra le due strofe (“Vedi?… di morte l’angelo” ecc.); si alternano poi tre settenari e altrettanti endecasillabi sciolti ricchi di antilabè e di sinalefi in occorrenza delle cesure, così da fornire più scioltezza e maggiori possibilità anche alla musica (“Triste canto!…” ecc.); e l’opera si chiude con i due protagonisti che intonano una quartina di endecasillabi a rima alternata con versi pari tronchi (“O terra, addio; addio valle di pianti” ecc.), mentre in sottofondo riecheggia la prima delle terzine di due settenari e un quinario delle Sacerdotesse che già si era udita nel primo atto e sul piano superiore della scena si leva l’orazione funebre di Amneris con la sola rima al mezzo adorata / placata in un distico di doppi quinari (“Pace t’imploro - salma adorata…” ecc.), il secondo dei quali tronco, com’è per tutti gli altri personaggi in scena.

4.3. Il libretto d’opera secondo Ghislanzoni

Non è un caso che il poeta lecchese sia stato in grado di esaudire con tanta puntualità i desideri verdiani: lui stesso, infatti, era venuto maturando convinzioni che conducevano nella medesima direzione estetica e drammaturgica, come ebbe modo di esplicitare in alcuni suoi scritti. Ad esempio così si legge nel saggio Del libretto per musica pubblicato sul “Giornale capriccio” nel 1877:

L’interesse di un melodramma deve, a parer mio, risultare quasi esclusivamente dai fatti, e questi fatti che si svolgono sulla scena debbono in certo modo essere comprensibili all’occhio. Un intreccio di avvenimenti e di passioni che si rendano percettibili allo spettatore a mezzo dei sensi, che non lo obblighino a interrogare il libro stampato, a cercare nella parola il senso delle armonie o delle modulazioni, è ciò ch’io domanderei innanzi tutto al poeta librettista, è ciò che, a mio vedere, costituisce il cardine di una buona favola per musica. […] Innanzi tutto, poeta e maestro debbono convenire in questo principio assoluto che il libretto per musica vuol essere un dramma, già atto per sé medesimo a tener desta l’attenzione degli spettatori, a dilettare, a commuovere quand’anche la musica non venisse a sussidiarlo co’ suoi validissimi accenti. […] L’opera-album non è più permessa oggigiorno14.

L’accento era dunque posto sull’efficacia teatrale, sull’emotività della vicenda e sulla comprensibilità dello spettacolo e del dramma da parte del pubblico, non più incline ad accontentarsi delle successioni schematiche dei decenni precedenti di arie con le loro cabalette, di distribuzioni di brani pensate più per appagare gli esecutori che gli spettatori, di alternanze meccaniche tra recitativi e pezzi chiusi. Non si trattava, per Ghislanzoni, di ripudiare la tradizione, ma di essere in grado di spingersi oltre e di evolversi per rispondere alle mutate condizioni di gusto, sensibilità e – non ultima – lingua:

Se un moderno librettista si avvisasse di imitare l’Apostolo Zeno, o il Metastasio, od anco di seguire la foggia del Romani, si porrebbe in contraddizione colle nuove esigenze della musica. La poesia di quei signori riveriti rare volte usciva dall’idealismo; i loro contadini parlavano da poeti […]. Oggi si vuole del realismo. Quando non si tratti di una romanza, di una preghiera, di un duettino d’amore, di una sosta qualunque dell’azione drammatica, è forza che il librettista abbandoni affatto le alte regioni della poesia, per mettersi al livello de’ suoi personaggi, per prestare ad essi quel vero linguaggio, che tanto più vero riesce quanto più si accosta alla prosa. […] Non è poi tanto difficile, come da taluno si crede, l’idealizzare, ovverossia falsare un personaggio colle ricercatezze della frase. Per poco che un librettista sappia svolgere il verso con facilità, molti esempi si prestano alla sua imitazione, e in ogni caso vi ha un migliaio di frasi banali, stereotipate dall’uso, che ponno servirgli mirabilmente per trarsi di impaccio. […] Questa falsa maniera di giudicare i libretti, che consiste nell’esigere costantemente della poesia laddove al maestro abbisogna mai sempre l’evidenza scenica, ha prodotto nei giovani letterati la strana illusione, che tutti quanti, per poco che sappiano costruire dei versi passabili, si credano abilissimi librettisti […]. Se il melodramma moderno domanda ad ogni costo la così detta parola scenica, la parola che colpisce, che scuote, che rivela concisamente e rapidamente le evoluzioni dei pensieri e degli affetti, esso vuole altresì una struttura di verso, quale da nessun trattato si insegna, quale non può ottenersi che dalla pratica e dall’istintiva o acquisita conoscenza dell’arte sorella15.

Sono parole che Ghislanzoni scrisse nel 1871 su “La Lombardia” per controbattere alle critiche mosse al suo libretto dei Promessi sposi, secondo una linea che se sul piano drammaturgico riprendeva quasi alla lettera il dettato verdiano, su quello linguistico dimostrava la piena comprensione e la condivisione del magistero manzoniano, in una singolare fusione dei due modelli forse mai teorizzata ed esplicitata altrettanto lucidamente da alcun altro poeta per musica. A onor del vero bisogna ammettere che lo stesso Ghislanzoni, nella sua vasta e spesso travagliata e disordinata produzione melodrammatica, non seppe quasi mai raggiungere una sintesi convincente e del tutto coerente con tali assunti; ma resta il fatto che quando ebbe modo di essere guidato da un collaboratore come Giuseppe Verdi riuscì davvero a elaborare con successo “una struttura di verso, quale da nessun trattato si insegna, quale non può ottenersi che dalla pratica [e la sua, a quell’altezza, era già stata lunga] e dall’istintiva o acquisita conoscenza dell’arte sorella”, che il poeta lecchese – diversamente dalla più parte dei suoi colleghi – aveva in precedenza appreso quale baritono e uomo di teatro.

Note:
[1] Di questo testo, riflesso, come l’intera opera, di una sostanziale collaborazione e condivisione fra i tre curatori, l’apporto delle diverse parti è così ripartito: le parti 1, 3.2 si devono a Ilaria Bonomi, le parti 2, 3.1 a Marco Spada, la parte 4 a Edoardo Buroni.
[2] Hans Busch, Verdiʼs Aida. The history of an opera in letters and documents, collected and translated by Hans Busch, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1978.
[3] Cfr. Alessandro Luzio, Epistolario verdiano, in “La Lettura”, V/3, marzo 1905, pp. 227-234: 227.
[4] Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda a Carteggio, I: Introduzione 1, pp. XIX-XXVIII; e Descrizione del corpus, pp. CLXXV-CLXXXII. Il Carteggio comprende attualmente 134 lettere, di cui 92 pervenute e 42 ipotizzate. Le lettere di Verdi a Ghislanzoni sono 58, di cui 53 pervenute e 5 ipotizzate; quelle di Ghislanzoni a Verdi sono 52, di cui soltanto 18 pervenute e 34 ipotizzate. Sono state aggiunte anche altre 18 lettere di Ghislanzoni a diversi destinatari (Giulio Ricordi, Eugenio Tornaghi, Giuseppina Strepponi), di Verdi a Tito Ricordi e una di Ferdinando Fontana a Verdi. L’Appendice 2 comprende 17 lettere scambiate tra Verdi e Giulio Ricordi (2 giugno-12 agosto 1870), mentre l’Appendice 4 presenta due lettere di Filippo Filippi a Giulio Ricordi (21 e 28 dicembre 1871).
[5] Le modalità attraverso le quali il Programma di Mariette sia poi arrivato nelle mani del compositore e il successivo intervento di Du Locle sono descritti in Carteggio, I, Introduzione 3, pp. LXVIII-LXXXVII.
[6] Tutta questa parte riassume la complessa vicenda della trasformazione della fonte mariettiana, descritta nel dettaglio in Carteggio, II, Il libretto di Aida (1. Dal Programma di Mariette al libretto di Ghislanzoni), pp. 227-298.
[7] Si veda a questo proposito la fondamentale lettera del 26 luglio 1870 di Ghislanzoni a Verdi in Carteggio, I, lett. 5, pp. 12-16.
[8] La prima versione della romanza di Aida, “Astri dei cieli azzurri / Schiava, deserta ed orfana” fu comunque scritta da Verdi, presumibilmente nell’ottobre 1870. Cfr. lett. 29, 37 e Fabrizio della Seta, La composizione di “Aida” nelle carte di Sant’Agata: una ricognizione preliminare e la genesi di “O cieli azzurri”, in” Studi Verdiani”, XXX, 2021, pp. 17-92.
[9] Questa nota, non riportata nel Carteggio, si trova all’interno del manoscritto autografo di Ghislanzoni del Secondo atto di Aida, nel foglio corrispondente all’imm. 507 del dischetto INSV.
[10] Si veda questo in proposito questo passo significativo: “Le parole di queste due quartine son ben deboli, ma Egli troverà parole energiche come vuole la situazione – La forma del pezzo però è buona, non commune, e credo possa farsi un buon squarcio poetico-musicale. Non dubito punto ch’Ella non mi faccia quì un bel verso, sosten[uto], nobile, sublime” (lett. 52, 4 novembre 1870).
[11] L’App. 8 dà conto dell’elenco dei libretti d’opera e dei testi per musica di Ghislanzoni, aggiornato alla luce delle ultime ricerche.
[12] Carteggio, II, App. 2, p. 360.
[13] Carteggio, I, lett. 59, pp. 129-130.
[14] “Giornale Capriccio”, n. 15, agosto, p. 22 e n. 19, ottobre, p. 11.
[15] Citato in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura. Regesto per soggetto dei giornali e delle riviste esistenti a Milano e relativi al primo ventennio dello Stato unitario, 1860-1880, a cura di G. Farinelli, Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1984, pp. 682-683.