In merito alla discussione sul tema del rapporto fra lingua, economia e finanza, presentiamo un articolo di Alfredo Gigliobianco, capo della divisione Storia economica del servizio Studi della Banca d'Italia. L’intervento sviluppa la riflessione già proposta nel Tema, sul rapporto fra lessicografia e linguaggio specialistico, analizzando alcuni termini-chiave della lingua dell’economia.
Vi invitiamo a partecipare alla discussione sulla pagina del Tema.
Per navigare in modo sicuro nell’economia contemporanea non sono sufficienti l’intuito e i pochi strumenti che bastavano un tempo: occorrono conoscenze e capacità di decidere. Prendiamo l’esempio delle pensioni. Una volta, con il sistema a ripartizione, il trattamento di ciascuno dipendeva più che altro da equilibri politici, e, salvo eccezioni, non era poi fonte di spiacevoli sorprese; oggi, con il sempre più diffuso sistema ad accumulo, ognuno diviene responsabile del proprio piano pensionistico. Anche per questo l’analfabetismo economico è molto pericoloso: chi sbaglia paga.
Se vogliamo che le conoscenze necessarie a sopravvivere in questo mondo complesso si diffondano, occorrono tre cose: volontà di imparare, volontà di insegnare, e una lingua adatta allo scopo. Non è questo il luogo per parlare dei primi due fattori. Concentriamoci sul terzo. Che è importante perché in lingua si comunica, in lingua sono espressi i contratti che ci legano ai nostri interlocutori (banche, fondi pensione, datori di lavoro). Ci dobbiamo dunque chiedere se questa nostra lingua, quando trasmette concetti economici, è uno strumento efficace. E se noi la possediamo a sufficienza.
Per iniziare a rispondere, occorre fare un passo indietro. Come si è formato il linguaggio economico? Come ogni altro linguaggio tecnico, si è formato in gran parte dal linguaggio comune: gli economisti adottano termini di uso comune (come produttività, efficienza, rischio), ma danno a questi termini un significato tecnico preciso. Il significato tecnico delle parole rientra poi spesso nell’uso comune, attraverso i mezzi di comunicazione di massa e l’opera dei divulgatori. Ma a questo punto siamo in grado di distinguere il significato tecnico da quello non tecnico, oppure i due si mescolano a formare un indigesto pasticcio? È una domanda che si potrebbe anche riformulare così: la società recepisce il contributo culturale che gli economisti danno allo studio dei problemi sociali? O anche, partendo dal punto di vista opposto, potremmo chiederci: nello spiegare i concetti della propria scienza, gli economisti si fanno capire?
Concentriamoci allora su qualche parola, centrale nel linguaggio economico, per vedere quanto il pubblico ne comprende il senso. Non voglio puntare l’attenzione sui tanti neologismi, quasi tutti di origine inglese, che leggiamo sui giornali e troviamo nei contratti finanziari. Non credo che il problema sia la comprensione di termini come spread, collateralised debt obligation o stock option: proprio per la loro relativa novità, questi termini obbligano a cercare una spiegazione, il che è già un passo avanti; di solito la spiegazione sarà vicina al significato esatto, perché non c’è interferenza con parole di uso comune. Mi preoccupano di più termini più vecchi, sui quali si reggono – come su pilastri di fondazione – molte parti dell’edificio economico, e rispetto ai quali la reazione del pubblico non è di sorpresa, ma di familiarità. Qui sta il problema, perché la familiarità può coprire una non comprensione del senso vero del termine. E il cedimento di un pilastro concettuale causerà danni certo maggiori della crepa in un tramezzo. Le parole che scelgo per questa indagine sono: produttività, efficienza/efficacia, finanza, rischio.
Ho passato parecchio tempo a studiare le definizioni che di queste parole danno i maggiori dizionari italiani: non perché penso che le persone utilizzino i dizionari come fonte primaria di informazione su questi argomenti, ma perché credo che queste definizioni siano indizio della precisione e della diligenza che l’intellighenzia non tecnica del nostro Paese – qui rappresentata dagli autori dei dizionari – impiega nell’atto di comprendere alcuni termini chiave dell’economia.
Il concetto base di produttività è semplice: è il rapporto fra la produzione totale (per esempio il numero di automobili) e la quantità di un fattore produttivo utilizzato (per esempio le ore di lavoro). Se aumenta la produzione a parità di fattore utilizzato, o se diminuisce l’utilizzo del fattore a parità di produzione, la produttività di quel fattore aumenta. I dizionari colgono in genere bene questo significato di base, e qualche volta si spingono con successo a definire concetti più fini, come produttività marginale (cioè: di quanto aumenta la produzione se aggiungo al processo produttivo un’unità di un certo fattore). La materia diventa assai più difficile quando, invece di un solo fattore della produzione, li vogliamo considerare tutti, o almeno tutti i principali. Allora nasce il problema di come calcolare una sola grandezza complessiva – l’input – a partire da una molteplicità di fattori diversi (lavoro, macchine, beni intermedi…). Gli economisti hanno proposto diverse vie, e hanno sviluppato il concetto di produttività totale dei fattori, che è il rapporto fra il prodotto, da una parte, e il risultato di una formula matematica che mette insieme i fattori di produzione, dall’altra. Questo rapporto dà l’idea di quanto è progredito il modo di fabbricare un certo prodotto. Spesso la produttività totale dei fattori è utilizzata come approssimazione del progresso tecnologico. Concetto importante nell’economia moderna, che è profondamente condizionata, direi dominata dal cambiamento tecnologico. I dizionari non si cimentano con la produttività totale, tranne uno, assai quotato, che sbaglia clamorosamente, supponendo che “totale” si riferisca non ai fattori che vanno considerati nel calcolo, ma alla produzione. Il che non ha senso perché, di qualsiasi produttività io parli, al numeratore del rapporto non posso che mettere la produzione totale.
Efficienza è sinonimo di buon utilizzo delle risorse; gli economisti la valutano misurando la differenza fra il prodotto di un sistema produttivo (per esempio un’impresa) e il prodotto che il migliore sistema produttivo esistente potrebbe ottenere utilizzando le stesse quantità degli stessi fattori. In sintesi, è efficiente chi non può ottenere di più con i fattori che ha a disposizione. Appena una tecnica nuova viene inventata, che permette di produrre di più usando le stesse quantità degli stessi fattori, coloro che non la adottano diventano inefficienti. Sembra impossibile, ma l’efficienza di un’impresa può diminuire anche quando la produttività aumenta. È il caso dell’impresa tradizionale in concorrenza con l’impresa innovativa. La prima potrebbe cercare di far fronte alle sfide del mercato aumentando, per esempio, i ritmi di lavoro (la produttività cresce, anche se si rovinano le relazioni con i dipendenti), mentre la seconda adotta una nuova tecnologia, che permette alla produttività di crescere ancora di più anche senza aumentare i ritmi: facendo questo sposta in avanti la frontiera dell’efficienza e lascia indietro i propri concorrenti.
Purtroppo la maggioranza dei nostri dizionari non mette bene a fuoco il concetto di efficienza. Alcuni la confondono con la produttività (il che non sarebbe un terribile errore) e altri con l’efficacia, il che è molto peggio, perché l’efficacia è il grado di raggiungimento di un obiettivo, e non tiene in alcun conto le risorse impiegate, il loro eventuale spreco ecc. Un famoso dizionario, che si dispiega per ventuno grossi volumi, la definisce così: “La capacità massima di produzione ai costi minori possibili.” Non c’è frase che faccia soffrire un economista più di questa. Già lo sento protestare: “Ma di massimo si può parlare solo in relazione a mezzi dati! E di minimo solo in relazione a un dato obiettivo! Ottenere il massimo con il minimo non ha senso, è espressione dilettantistica, priva di contenuto!” Sta di fatto che la frase incriminata si sente spesso. E testimonia del rapporto travagliato che abbiamo con il concetto di efficienza. Un fatto mi pare interessante: i dizionari che sbagliano sull’efficienza economica non sbagliano invece sull’efficienza aerodinamica, che viene sempre definita correttamente come rapporto fra la portanza e la resistenza di un corpo in movimento rispetto a un fluido. Ma allora gli economisti veramente non sanno spiegarsi! Oppure sono i lessicografi che – tratti in inganno da una certa affinità dei concetti dell’economia con quelli dell’esperienza comune – non si curano di approfondire? (Una critica alquanto tagliente ai lessicografi, formulata esattamente in questi termini e assai ben documentata, si trova in Pasquale Jannaccone, Le voci del linguaggio economico nel vocabolario della R. Accademia d’Italia, in Rivista di Storia Economica, n. 2, giugno 1942, pp. 73-80. Forse la critica di Jannaccone non fu estranea alla decisione di sospendere quell’iniziativa editoriale, che si arrestò alla lettera c).
Passiamo ora alla finanza. Da cinque anni ormai, da quando nel 2008 è fallita la grande banca d’affari Lehman Brothers, in tutto il mondo non si parla che di finanza. Gli articoli, i discorsi, le tavole rotonde approdano a conclusioni non lusinghiere per l’attività che gli operatori finanziari hanno svolto nell’ultimo periodo: i più moderati pensano che la finanza debba essere regolata in modo più severo; non pochi credono che debba essere domata e ridimensionata; altri, più radicali, che meriti di essere scacciata dal consorzio civile. Tutti noi – su questo l’accordo è generale – dobbiamo tornare a privilegiare l’economia reale rispetto alla troppo invadente “economia di carta”. Testi e discorsi sull’essenza della finanza, sui suoi delitti, sul suo posto nella società si intrecciano, e lasciano spesso le menti in confusione (è uscito quest’anno un agile libro chiarificatore di Salvatore Rossi, Processo alla finanza, Roma-Bari). Occorre, per farsi una propria opinione, conoscere bene l’identità dell’imputato: questa tanto deprecata finanza, Chi è? Che attività svolge? Che fine ha?
Chi, desideroso di una risposta, si affidasse allo strumento tradizionale del vocabolario, rimarrebbe smarrito. Tutti i nostri vocabolari infatti, senza eccezione, alla voce “finanza” non riportano alcuna connotazione che faccia pensare a possibili eccessi, a vortici speculativi, a operatori che agiscono secondo logiche distinte, o perfino contrapposte a quelle dell’economia reale. Di più: non danno alcun indizio per capire la distinzione stessa fra economia reale ed economia finanziaria, che tanto occupa i giornali, le riviste e i cittadini (per chi fosse curioso, ecco la distinzione: a ogni attività finanziaria corrisponde una uguale passività finanziaria, per modo che la somma di tutta la finanza mondiale è zero; i beni reali, invece, non possono valere meno di zero, e la loro somma è positiva).
Tutti i vocabolari partono dal significato di finanza pubblica. Passano poi (le soluzioni qui variano un po’ fra l’uno e l’altro) alla finanza privata, nel senso di situazione finanziaria più o meno rosea o dissestata di una persona, e infine approdano alla finanza d’impresa, che è definita come studio del passivo, o arte di procurarsi i mezzi per realizzare certi progetti. Alcuni includono nella definizione l’insieme delle banche e la banca centrale. E qui si fermano. Ma la finanza odierna è ben altro: è teoria del portafoglio, è prodotti finanziari di mille tipi, dalle obbligazioni alle azioni alle opzioni; è mercati finanziari, che digeriscono enormi quantità di informazione e sui quali questi prodotti vengono scambiati; è, infine, una disciplina accademica che ha visto crescere enormemente la propria influenza all’interno della scienza economica. La totale insufficienza delle definizioni date dai dizionari (non solo italiani!) fa pensare a una certa riluttanza della società intera a confrontarsi con questa realtà. Riluttanza antica, che risale addirittura a prima che la Chiesa, nel Medioevo, condannasse ogni prestito a interesse. Anche nella moderna società industriale, indipendentemente dai danni causati dalla crisi ancora in corso, la finanza è guardata con sospetto. Nel film paradigmatico Pretty Woman di Garry Marshall, un successo mondiale del 1990, lo spietato finanziere Edward Lewis viene trasformato dall’amore della bella prostituta Vivian Ward: abbandona le sue lucrose – ma sterili per la società – macchinazioni finanziarie e abbraccia invece, insieme alla ragazza, la vitalità benefica dell’economia reale, convertendosi alla costruzione di “magnifiche” navi. Inutile dire che anche Vivian, in parallelo, lascia la strada (prostituzione=finanza) per dedicarsi a sentimenti veri, onesti.
Non è solo la finanza in sé ad essere trattata “male” dall’intellighenzia. Gli stessi concetti base dell’agire finanziario sono definiti in modo del tutto insufficiente dai dizionari. Uno dei pilastri della finanza è il rischio. Ora, di rischio si può dare una definizione semplice – probabilità di un evento non desiderato, come potrebbe essere il fallimento di un debitore – oppure più professionale – varianza del rendimento atteso di un titolo finanziario; in altre parole, se il rendimento è quasi sicuro c’è poco rischio, se invece può assumere un ampio ventaglio di valori (sia positivi che negativi) c’è molto rischio. Nessuna di queste definizioni è data dalla maggior parte dei dizionari, che si limitano ad evocare la possibilità – e non la probabilità – di un evento sfavorevole. In sintesi, dai lessicografi il rischio è visto, e in modo molto approssimativo, solo nella sua dimensione assicurativa (danno/prevenzione), e non in quella finanziaria. Indizio ulteriore che ciò che attiene ai concetti della finanza soffre – più di ciò che attiene ai concetti dell’economia reale – di disinteresse e imprecisione da parte di ampi strati della società, a tutti i livelli.
Dobbiamo affrontare un’ultima variante del nostro tema. Gli economisti non solo propongono alla società (alla lingua) significati specializzati di alcune parole: a volte hanno l’ambizione di proporre una precisazione o un affinamento dello stesso significato comune. L’esempio più interessante è quello del concetto di causa. È facile osservare che, quando si tratta di attribuire una causa a un certo fenomeno, ciascuno tende ad essere restrittivo se si deve ammettere una relazione causale che dispiace (per esempio il fumatore incallito non ammetterà che “il fumo causa il cancro” e citerà il caso del suocero che è vissuto fino a novantasei anni fumando due pacchetti al giorno), mentre sarà di manica larga nel caso contrario. Supponiamo, per esempio, che si sia svolto un certo corso professionale nella regione X, e che i partecipanti al corso abbiano poi trovato lavoro più in fretta, in media, di quelli che non hanno partecipato al corso. Il presidente della regione probabilmente dirà: “Si è così dimostrata l’efficacia del corso, della nostra politica della formazione”. Un economista farà però notare che i fatti riportati non dimostrano che il corso abbia “causato” la maggiore occupazione dei frequentanti (e quindi che sia stato efficace). La decisione di partecipare al corso, prosegue l’economista, potrebbe essere stata influenzata da fattori (come la voglia di lavorare dei partecipanti, la loro preparazione) che non siamo in grado di osservare: potrebbero essere questi fattori nascosti, e non la partecipazione al corso, ad aver causato il risultato “occupazione”. Perché si possa parlare di relazione causale occorre che i due gruppi – dei partecipanti al corso e dei non partecipanti – abbiano all’inizio dell’esperimento le stesse caratteristiche. Se così non è, il risultato sarà irrimediabilmente influenzato dal sistema di selezione dei partecipanti (in inglese c’è un nome per questo: selection bias). Questo tipo di ragionamento è nato in ambito medico, per testare l’efficacia dei trattamenti. Ma per qualche ragione, che lascio ad altri d’indagare, i medici sembrano oggi meno solerti degli economisti nell’applicare queste cautele metodologiche alle politiche sanitarie. In genere mi sembra che il ceto politico non accolga queste sottigliezze, e che nemmeno gli elettori ne siano impressionati.
Gli economisti non sono senza colpa. Tullio De Mauro ha trovato che, fra gli scienziati di varie discipline, gli economisti sono quelli che si fanno meno capire: l’“indice di leggibilità” dei testi divulgativi degli economisti è inferiore a quello dei testi divulgativi di ogni altra disciplina (Nota linguistica aggiuntiva, in Scrittori italiani di economia, a cura di R. Bocciarelli & P. Ciocca, Roma-Bari 1994, pp. 407-423). Non è facile capire perché. Forse gli economisti – al contrario dei fisici e dei biologi – non sono ancora pienamente consapevoli del fatto che il proprio linguaggio (come il proprio modo di ragionare) si è compiutamente tecnicizzato, e perciò stentano ad accettare l’idea che farsi capire dal pubblico richieda una vera e propria divulgazione scientifica. Pensano di essere, o forse vorrebbero essere ancora, al tempo in cui Verri, Turgot e Smith dialogavano con i politici, i medici e i mercanti del proprio tempo in una lingua comune. Questo è paradossale, perché sono proprio loro che hanno creato un linguaggio e un modo di ragionare specializzato, per riuscire a progredire più velocemente. Ma è comprensibile, perché la natura politica della loro scienza li trae in inganno, facendogli ritenere che il dialogo con il pubblico, con i cittadini potenzialmente interessati ai loro risultati, non si sia mai interrotto dai tempi felici dell’illuminismo.
C’è forse anche un peccato d’orgoglio. A molti che vivono nell’ambiente economico sembra ormai che la società si identifichi con l’economia, oppure – e scendo un gradino nella scala della colpa – che la scienza economica abbia tutti gli strumenti per analizzare (e forse risolvere) i problemi sociali di qualsiasi tipo: non solo economici, ma anche giuridici, politici, ambientali, sanitari, e così via. Economic Imperialism è il titolo di un articolo di Gordon Tullock del 1972 (e di un altro di Edward Lazear del 1999), in cui si sostiene appunto la legittimità dell’“intrusione” dei metodi dell’economia nelle altre discipline. Sebbene queste pretese siano a volte fondate – abbiamo visto prima quanto utile sia una visione critica del concetto di causa – spesso gli economisti non sono consapevoli del fatto che il loro linguaggio è il riflesso di una visione del mondo, la quale non è che una delle tante possibili “mappe” della realtà. Chi ritiene che la propria mappa sia l’unica giusta non sente, o sente meno, il bisogno di “tradurre” il proprio linguaggio, per renderlo comprensibile a chi non l’ha appreso sui banchi dell’università. Ma ci sono, fortunatamente, eccezioni. Uno dei nostri economisti più famosi, Luigi Einaudi (sulla cui prosa si veda Valeria Della Valle, La lingua di Luigi Einaudi fra classicismo e pathos, in un libro da me curato, Luigi Einaudi: libertà economica e coesione sociale, Roma-Bari 2010), fu anche ben addentro ai problemi della comunicazione, accanito esaminatore di parole e fine epistemologo, come si può vedere in una delle sue opere più famose, le Lezioni di politica sociale. La cui lettura consiglio a tutti vivamente.
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