Nasce a Stoccolma un Consiglio delle lingue d’Europa
di Francesco Sabatini
Sul terreno delle lingue la diplomazia e la politica ufficiale dei Paesi dell’Unione Europea procedono «a passi tardi e lenti»: temono il confronto o scontro dei nazionalismi, e quelli linguistici spesso non sono meno accesi degli altri. In materia, infatti, la nascente Carta costituzionale europea si tiene sulle generalissime: riafferma la parità delle lingue. Il mondo della scienza, qui la scienza delle lingue, in cui si respira tutt’altra atmosfera, ha fatto invece passi velocissimi per aprire la via a un’idea del tutto nuova: ha dichiarato che tutte le lingue europee sono patrimonio comune di ogni abitante del continente. Come l’ambiente, come il clima, come la purezza delle acque. È questo il traguardo raggiunto, in cinque anni di intenso lavoro, dal più folto gruppo mai riunito di istituzioni e accademie che si occupano di lingua nei 15 Paesi dell’Unione: dopo gli incontri tenuti a Bad Homburg (1999), a Mannheim (2000), a Firenze (2001), a Bruxelles (2002), il 14 ottobre di quest’anno a Stoccolma è stata costituita la “Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali.
La Federazione ha la sua Carta fondamentale nelle “Raccomandazioni” che furono impostate a Mannheim e definite e sancite a Firenze, nella nostra Accademia della Crusca. Il principio del “patrimonio comune” può apparire astratto, in realtà non lo è: esso si traduce, tanto per cominciare, nell’indicazione dell’obbligo, per tutti i cittadini d’Europa, di raggiungere «il plurilinguismo individuale», e cioè l’obbligo di conoscere, in misura certo variabile, almeno altre due lingue europee oltre la propria; a partire da una sicura padronanza di questa, parlata e scritta. Dunque, viene chiamata subito in causa la scuola con i suoi ordinamenti, che sono ben da rivedere: per assicurare sì la conoscenza generalizzata della lingua «panterrestre» (come ama chiamarla il nostro poeta Zanzotto), ma per evitare il precoce monoesterolinguismo che penalizza tutte le altre lingue. Da precisare: questi principi sono condivisi e sottoscritti dal rappresentante anglosassone, il direttore, nientemeno, dell’Oxford English Dictionary…
I rappresentanti delle istituzioni federate (Accademie storiche, come la Crusca e quella di Spagna, l’Istituto CNR per il grande Vocabolario dell’italiano e l’impresa di Oxford, e i numerosi organismi di vario tipo distribuiti dai Paesi nordici alla Grecia e al Portogallo) non sono sognatori provenienti da circoli di provincia, ma hanno lunghe carriere di studio e concrete esperienze di estesi programmi di lavoro. Conoscono il potere – fortemente innovatore, appunto – delle tecnologie applicate ai problemi delle lingue e dell’educazione: il tema che sarà definito in un incontro preparatorio già nel prossimo dicembre a Firenze (Istituto CNR, diretto da Pietro Beltrami, e Crusca) e sarà dibattuto ampiamente a Parigi nel settembre 2004. Ma hanno anche forte e vivo il senso della storia, così intrinsecamente legato al concetto di lingua e di cultura, tanto da saper configurare un sano rapporto tra le lingue nazionali moderne, pilastri del patrimonio culturale del continente, e le lingue classiche da una parte (da tutti riconosciute come un fondamento dell’Europa unita) e le tradizioni linguistiche regionali e popolari dall’altra. Avvertono anche il dinamismo degli attuali processi geopolitici e demografici, che li spingono a guardare alle nuove frontiere allargate dell’Unione e a non ignorare la presenza delle lingue “immigrate”.
Questa sorta di Consiglio delle lingue d’Europa ha qualcosa di epocale; non poteva essere da meno perché i linguisti hanno, forse più di altri esperti di scienze umane, il senso della “lunga durata” della storia. Partecipando ai lavori di questo consesso, e ascoltando riferimenti e argomenti che rimbalzavano dal banco di un greco o di una finlandese a quello di un italiano o di una belga o di un tedesco, si poteva avere l’impressione che continuamente su uno schermo invisibile davanti a noi scorresse la vicenda delle millenarie migrazioni dei popoli, indoeuropei e di altro ceppo, attraverso le terre e i mari d’Europa, popoli venuti in questo spazio per convivere, infine, e non solo per aggredirsi.
Sapranno i politici, ai quali spetta il compito di spianare la strada alle realizzazioni concrete, dare ascolto alle proposte della scienza linguistica?
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