L'accademico Paolo D'Achille, responsabile del Servizio di Consulenza linguistica della Crusca, propone ai lettori di discutere sul tema della norma ortografica a partire dal caso specifico della grafia di qual è.
Gennaio 2019
La riproposta sulla pagina Facebook dell’Accademia di una risposta di Raffaella Setti pubblicata sul sito della Consulenza il 30 settembre 2002 circa la corretta grafia di qual è ha riacceso il dibattito su questa regola ortografica: un dibattito talmente ampio da trovare spazio anche nella stampa satirica. Non sono mancati inviti o richieste all’Accademia di modificare questa regola, che del resto spesso viene violata e che sembra quindi “fuori moda”. Ci è parso opportuno, allora, riprendere e allargare un po’ il discorso per riflettere da un lato su significato e valore dell’ortografia, sul rispetto delle regole ortografiche attualmente in vigore, sulla possibilità e l’opportunità di modificarle, dall’altro sul ruolo che spetta all’Accademia in generale e al Servizio di Consulenza in particolare.
Il termine ortografia (dal lat. orthographia, a sua volta dal gr. orthographía, formato da orthós ‘diritto, retto’ e graphía ‘scrittura’) significa ‘scrittura corretta’ e si riferisce all’uso scritto di una lingua secondo regole stabilite, che riguardano tanto la rappresentazione dei suoni attraverso una (o più) lettere dell’alfabeto, quanto la separazione delle parole, l’uso di apostrofi, accenti, segni di punteggiatura, caratteri maiuscoli e minuscoli, ecc. Ogni lingua, quando passa da un uso esclusivamente orale a un uso scritto, tende a stabilire e a fissare determinate regole, sia per evitare possibili ambiguità interpretative (che possono dipendere dai numerosi omonimi che ogni lingua presenta, particolarmente insidiosi se relativi a parole “grammaticali”), sia anche per consentire il riconoscimento della lingua stessa e della comunità che la usa. L’ortografia ha avuto spesso, nella storia delle lingue, un valore che oggi definiremmo “identitario”.
Tutte le lingue scritte (compresi i dialetti italiani che hanno una lunga tradizione letteraria, come il veneziano e il napoletano) hanno delle loro regole ortografiche e anzi la fissazione di queste regole sembra spesso essere il primo passo per la costituzione della norma grammaticale (lo abbiamo visto anche di recente, nel caso delle cosiddette “lingue regionali”). Le proposte ortografiche (che possono essere avanzate anche da singoli individui e che potrebbero seguire criteri diversi e persino contrastanti) per diventare regole devono essere accolte, condivise, adottate concretamente, insegnate e diffuse. L’ortografia si sviluppa soprattutto all’interno dei processi di standardizzazione, che riguardano anche altri livelli di analisi linguistica (la morfologia, la sintassi, il lessico) e infatti un momento fondamentale nella storia dell’ortografia è stato costituito dall’invenzione della stampa, in seguito alla quale tutte le principali lingue europee hanno fissato il loro standard anche ortografico. Per l’italiano la stampa fu determinante nell’adozione della grafia, di carattere prevalentemente fonetico e non etimologico, propria della tradizione scrittoria in volgare di area toscana, alla cui diffusione contribuì anche il Vocabolario degli Accademici della Crusca. Un altro momento importante è stato quello postunitario, con la nascita della scuola pubblica, che ha fissato le norme ortografiche relative ad accenti e apostrofi, il cui uso da allora è stato definitivamente regolamentato.
I criteri logicizzanti allora adottati non sono sempre di immediata applicazione né di assoluta coerenza. Per fare solo due esempi: perché “su qui e su qua l’accento non va” mentre su lì e là sì? Perché mentre lì e là non accentati potrebbero confondersi con li e la pronomi atoni (li vedo e lì vedo; la mangi e là mangi) nel caso di qui e qua possibilità di confusioni non ce ne sono. E perché per la resa dell’apocope sillabica di poco si prevede l’apostrofo (sono un po’ stanco; di patate ne prendo ancora un po’), mentre per quella di piede o piedi l’accento (a piè pagina; saltare a piè pari)? Forse perché in questo secondo caso l’apostrofo non sembra “garantire” l’accentazione sulla e, data la presenza della i, o forse anche per influsso di più. Ma che qualcuno potesse (o possa) leggere pie’ come pìe (con omofonia con il plurale femminile dell’aggettivo pio) mi sembra estremamente improbabile, mentre a proposito di qui e qua si potrebbe obiettare che l’assenza di omografi non impedirebbe comunque di accentare i due avverbi, sia per rendere graficamente la loro tonicità, sia per analogia con lì e là (ancora nel primo Ottocento, infatti, accentarli non era considerato errore).
Possiamo dunque ammettere che il sistema ortografico attuale non sia completamente coerente e possiamo senz’altro concordare sul fatto che l’attenzione nei confronti dell’ortografia da parte della scuola sia stata perfino eccessiva e abbia per molti decenni generato un diffuso senso di “paura di sbagliare” quando si scrive (tale disagio nelle scritture semicolte del passato, come le lettere di soldati e emigrati, viene spesso espresso esplicitamente, con le “scuse per gli errori” indirizzate ai destinatari). Non c’è dubbio, però, che proprio alla scuola, all’interiorizzazione di quello che Teresa Poggi Salani ha efficacemente indicato come “l’italiano delle maestre”, si debba l’attuale stabilizzazione dell’ortografia standard, che viene applicata anche nei più diffusi correttori automatici dei programmi di scrittura. Il mancato rispetto di queste regole dimostra quanto meno una scarsa familiarità dello scrivente con l’universo della lettura e dei libri: è infatti soprattutto così che si interiorizzano molte norme ortografiche.
L’ortografia italiana di oggi presenta relativamente pochi elementi di criticità, tra i quali rientrano certamente sia l’apostrofo dopo l’articolo indeterminativo un (riservato al femminile: un’ora, ma un attimo, come un minuto) sia, appunto, l’assenza dell’apostrofo nella sequenza qual è. Come scrive Raffaella Setti nella risposta della Consulenza citata all’inizio, qual è non è da apostrofare perché “si tratta di un'apocope vocalica, che si produce anche davanti a consonante (qual buon vento vi porta?) e non di un'elisione che invece si produce soltanto prima di una vocale (e l'apostrofo è il segno grafico che resta proprio nel caso dell'elisione)”. Questa è in effetti la motivazione per cui la norma impone di non mettere l’apostrofo, ed è la stessa per cui prescrive un attimo e non *un’attimo, riservando l’apostrofo soltanto all’articolo indeterminativo femminile (laddove, nel caso dell’articolo determinativo, abbiamo da un lato l’ora e l’attimo e dall’altro il minuto). Anzi, posso segnalare che in passato c’è anche stata la proposta di “omologare” i due casi, ammettendo l’apostrofo tra qual e è nel caso che segua un nome femminile, quindi distinguendo qual è il compito da qual’è la risposta?. Nutro forti dubbi sul fatto che questa soluzione potesse risolvere il problema. In ogni caso, senza entrare nel merito della motivazione tradizionale, che non è del tutto convincente, rilevo che la risposta di Setti si conclude in questo modo:
È vero che la grafia qual'è è diffusa e ricorrente anche nella stampa, ma per ora questo non è bastato a far cambiare la regola grafica che pertanto è consigliabile continuare a rispettare.
Si ammette dunque che la grafia con l’apostrofo è oggi in espansione, si ipotizza un possibile cambiamento della regola (“per ora”) e si ritiene “consigliabile” continuare a rispettarla. A distanza di oltre quindici anni, queste indicazioni mi sembrano tutte condivisibili.
Tra le varie reazioni alla riproposta del testo di Setti, va segnalata quella di Luca Passani, che collabora al periodico on line “La Voce di New York”, il quale ha scritto alla Consulenza (già prima del dibattito su Facebook, invero) dicendosi “assolutamente convinto che sia giunto il momento di riconoscere il ‘qual’è’ apostrofato come grafia corretta accanto al normativizzato ‘qual è’ da parte dell’Accademia della Crusca e dei vocabolari”. Alla base della sua convinzione c’è “la constatazione che, a parte alcune frasi fatte, sia ‘quale’ la parola impiegata oggi (e non l’antiquato ‘qual’) nelle funzioni di aggettivo e pronome, sia davanti a vocale che davanti a consonante (incluse le forme del verbo essere che inizino con ‘e’)”. Passani vorrebbe dunque “avere la possibilità di scrivere il ‘qual’è’ apostrofato (ovvero di utilizzare il ‘quale’ al posto del desueto ‘qual’ [...]), senza dover[s]i ogni volta difendere dal dileggio di coloro che assai raramente hanno una conoscenza della nostra lingua superiore alla [sua]”. Per questo chiede all’Accademia di “aggiornare il suo parere e ammettere il ‘qual’è’ apostrofato come grafia accettabile nell’italiano contemporaneo”.
Va detto che il signor Passani non è il solo a ritenere accettabile la grafia qual’è, e addirittura a preferirla al qual è prescritto tuttora dalle grammatiche: c’è anche qualche linguista, come il collega e amico Salvatore Claudio Sgroi, che ha difeso l’apostrofo con motivazioni analoghe. Osservazioni simili potrebbero valere, del resto, anche per l’apostrofo dopo l’articolo indeterminativo maschile (data la corrispondenza sopra richiamata tra un e il da un lato e uno e lo dall’altro) e in effetti la presenza dell’apostrofo dopo un in questo caso e (per converso) la sua assenza prima di un nome femminile si trovano spesso, perfino più spesso del nostro qual'è.
Ma, come si è detto all’inizio, l’apostrofo è un elemento esclusivo della scrittura, il cui uso o non uso non investe gli aspetti più profondi e strutturali della lingua e sul piano dell’ortografia contano molto la tradizione e le convenzioni. Infatti, estremizzando la questione e riferendoci al piano dei rapporti tra fonetica e grafia, potremmo anche difendere le grafia quore e squola per cuore e scuola, oppure proporre di fare a meno della q (che non indica una consonante diversa rispetto alla c prima di u davanti a vocale) e di scrivere, sul modello di cuore e scuola, anche cuando, cuasi e così via, senza più guardare alle corrispondenti parole latine (cor, schola, quando, quasi), che hanno determinato la diversa scelta ortografica. Oppure si potrebbe ridiscutere l’uso dell’h, o ancora aggiungere la i diacritica dopo il gruppo gn prima di a, e, o, u in modo da livellare l’uso a quello di gl, dove la i è obbligatoria. Ma a nessuno vengono in mente proposte del genere, anche perché, rispetto ad altre lingue il cui sistema grafico è molto lontano da quello fonetico (francese, inglese), in italiano i problemi ortografici sono pochi e le regole “innaturali” da interiorizzare sono assai contenute. Ammetto tuttavia che nel caso di apostrofi e accenti la questione sia un po’ più complessa e che qualche regola in materia potrebbe essere rivista e modificata.
D’altra parte, però, né l’Accademia della Crusca né alcuna altra istituzione pubblica italiana, al momento, può avere la forza (o la pretesa) di proporre una riforma ortografica che stabilisca regole diverse da quelle che, ormai da oltre centocinquant’anni, si imparano a scuola. Inoltre l’italiano contemporaneo, che da tempo non ha più in Firenze e nell’uso toscano il suo unico modello di riferimento, tende a ridurre non solo le apocopi (come è appunto qual, che resiste solo in frasi fatte come "qual buon vento ti mena?"), ma anche le elisioni (si leggono spesso forme come una iscrizione e non un’iscrizione, gli individui e non gl’individui, mi interessa e non m’interessa), anche perché nello scritto le singole parole vengono percepite come autonome. E dunque è possibile anche trovare la grafia quale è e anzi a questa può senz’altro attenersi, senza timore di incorrere in sanzioni, chi proprio non vuol accettare la regola di qual è senza apostrofo, che comunque può appoggiarsi al trattamento analogo che l’ortografia prescrive non solo per tale, ma anche per buono e malo, che si apocopano pure davanti a vocale (buon viso e buon anno e non °buon’anno; mal animo o malanimo e non °mal’animo).
Nella situazione attuale, in cui grazie alla diffusione degli smartphone si scrive molto più spesso che in passato e le oscillazioni sono abbastanza consistenti, ritengo comunque di poter continuare a consigliare (consigliare appunto, non imporre) ai nostri lettori di attenersi, almeno negli scritti più sorvegliati e formali, alla norma tradizionale; allo stesso modo con cui, probabilmente, un esperto di bon ton consiglierebbe a un uomo di presentarsi a un ricevimento serale in giacca e cravatta e non in maglietta e blu-jeans o in tuta. Naturalmente, almeno al di fuori dell’ambiente scolastico (dove la matita rossa e blu è ancora in uso), di fronte a un qual’è presente in un testo in rete nessuno si scandalizzerebbe, conoscendo le modalità e i tempi attuali di scrittura, il sostanziale abbandono della pratica della rilettura, ecc. Nel caso specifico, poi, è anche comprensibile che qualcuno, come Passani o Sgroi, decida deliberatamente di “violare la norma”, adottando l’apostrofo e difendendo la propria scelta. Se questa violazione avrà poi seguito e a poco a poco finirà col prevalere sull’uso tradizionale, la norma ne dovrà tenere conto e sarà inevitabilmente costretta a rivedere le proprie posizioni: è già avvenuto in passato (ma soprattutto ad altri livelli di analisi linguistica), può avvenire anche in futuro. Al momento, però, la grafia qual è sembra ancora maggioritaria. Non si può dunque, a mio parere, pretendere di imporre “dall’alto” l’abbandono dell’ortografia tradizionale. E del resto, vale davvero la pena di condurre una battaglia su un aspetto della lingua così marginale?
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La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Il Maestro Muti viene insignito dall’Accademia della Crusca del premio “Benemerito della Lingua Italiana 2024” e il presidente Paolo D'Achille, cogliendo questo e diversi altri spunti dalla storia e dall’attualità, propone una riflessione sull'italiano della musica.
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Dal 6 al 9 novembre 2024. Tutte le informazioni sono disponibili nella sezione "Eventi".
Intervento conclusivo di Paolo D'Achille
Devo tirare le fila della discussione perché è ora di cambiare il tema del mese. Coloro che hanno postato commenti (e li ringrazio moltissimo) mi perdoneranno se non riaprirò la questione replicando alle obiezioni e alle riflessioni poste nei singoli interventi. Del resto, non avrei molto da aggiungere rispetto a quanto ho scritto nel testo iniziale. Posso solo ribadire, per chiarezza, alcuni dati, cercando anche di arricchire la documentazione.
Anzitutto, come ho detto, l’ortografia rappresenta una convenzione, che non sempre e non necessariamente si appoggia alle regole fonetiche: lo dimostra chiaramente la differenza di trattamento che hanno gli avverbi di luogo qui e qua, non accentati sebbene tonici, e lì e là, che invece lo sono. Nel tempo l’ortografia può senz’altro cambiare (come del resto cambia la lingua), ma i cambiamenti non possono essere imposti dall’alto: è la progressiva estensione dell’innovazione che ne determina l’accoglimento, il che di solito avviene gradualmente e a volte persino tacitamente. Cercare motivi di ordine squisitamente linguistico per giustificare o rigettare un elemento puramente grafico come l’apostrofo (che – ricordiamolo – la stampa italiana cinquecentesca recuperò dal mondo classico greco) non ha, a mio parere, molto senso.
Inoltre, nella discussione relativa al qual è non si è tenuto nel debito conto, a mio parere, che le abitudini fonetiche variano considerevolmente nelle diverse aree geografiche: la i di scienza può sembrare superflua e inutile nella pronuncia tosco-romana che è alla base dello standard, ma a Napoli viene generalmente pronunciata; lì la grafia etimologica trova un corrispettivo nella fonetica, altrove no. In particolare per quello che riguarda i troncamenti (e le elisioni), poi, c’è una differenza nettissima tra gli usi centrosettentrionali e quelli centromeridionali: andiam via, vengon tutti sono sequenze d’uso normale in Toscana e al Nord, mentre suonano letterarie o antiquate a Roma e nel Sud. Aggiungo un’esperienza personale: da Roma in su vengo nominato come il professor D’Achille, più a sud (ma anche nel mio ateneo, da studenti meridionali) come il professore D’Achille.
Chi sostiene che oggi qual non si usa più troncato, è proprio sicuro di conoscere gli usi reali dell’intera nazione? A me, per esempio, risulta che non solo l’espressione in un certo qual modo (citata in qualche commento), ma anche ogni qual volta sia tuttora largamente diffusa (meno, certo, dell’equivalente tutte le volte che); si può scrivere anche ogni qualvolta, è vero, o persino ogniqualvolta (cfr. la risposta di Giovanni Nencioni sulla “Crusca per voi” del 1988), ma la grafia separata è diffusa e tutt’altro che scorretta (anche perché qualvolta isolatamente non si usa davvero più); invece ogni quale volta ha solo 383 attestazioni in Google (molte delle quali in testi non letterari sette-ottocenteschi). Anche tal dei tali ‘una persona qualunque’ è un’espressione tuttora viva. Inoltre quale troncato ha formato pronomi e aggettivi indefiniti come qualche (qual(e) + che), qualsiasi, qualcosa, qualunque, ecc. Il mantenimento della forma non apostrofata di qual prima di è può servire anche, a chi scrive e parla italiano, a cogliere il legame etimologico tra queste forme. Insomma, continuare a distinguere il caso di quale (che poteva e potrebbe tuttora essere troncato) da quello, per esempio, di povero (che, non potendo esserlo, richiede l’apostrofo nella sequenza pover’uomo) non sembra inutile.
Quanto al fatto che la sequenza apostrofata abbia anche attestazioni autorevoli, non c’è niente di strano, perché la varietà e la variazione sono caratteristiche costitutive della lingua. Ricorderei però che lo standard, l’italiano “normale” (per riprendere un’espressione usata da un grande storico della lingua italiana, Arrigo Castellani), si fonda anche sulla maggioranza dell’uso colto. A un singolo esempio di qual apostrofato prima di è in uno scrittore corrispondono centinaia di esempi di qual è, magari in quello stesso scrittore e comunque in moltissimi altri. Se guardiamo al corpus di narrativa contemporanea (i vincitori del Premio Strega e altri romanzi coevi) raccolto da Tullio De Mauro nel dvd del Primo Tesoro della Lingua Letteraria Italiana del Novecento (PTLLIN), possiamo vedere che qual è ricorre 112 volte in 47 opere diverse, dal 1949 al 2006 (l’ultimo anno considerato nel PTLLIN), mentre la sequenza apostrofata ricorre solo 8 volte in 7 opere diverse, edite tra il 1947 e il 1965. Come dice il proverbio, una rondine non fa primavera! A rafforzare l’uso della grafia qual ci sarà anche il fatto che questa sequenza nell’andata a capo si può segmentare in qual | è, laddove l’uso di evitare l’apostrofo in fin di riga (invalso anche grazie alla scuola) costringerebbe a segmentare la sequenza concorrente in qua- | l’è.
È vero che oggi gli esempi di qual apostrofato prima di è sono numerosi, e la rete ce lo dimostra, ma gli stessi dati di Google possono offrici anche una lettura diversa. Devo al Presidente Marazzini la segnalazione dei risultati di Google Ngram Viewer (al 19 gennaio 2017), che riporto nell’immagine qui sopra, in fondo al testo del Tema.
Se si fa riferimento ai testi scritti in italiano tra il 1800 e il 2000 che fanno parte del cospicuo corpus di Google books, si vede che qual è è stato sopravanzato dalla forma concorrente solo nel periodo 1890-1962 circa, ma poi (dopo la riforma della scuola media unificata) la forbice è nettamente tornata a divaricarsi a favore della grafia qual è, che giustamente, quindi (sommiamo questo dato a quello del PTLLIN), si considera standard.
E che la situazione sia tuttora questa lo dimostrano le reazioni negative del pubblico che si scatenano puntualmente ogni volta che sulla stampa o nella rete compare una grafia con l’apostrofo: è capitato recentemente (devo la segnalazione sia a Luca Passani sia all’amico Salvatore Claudio Sgroi) all’attrice Anna Foglietta, che si è poi scusata dell’“errore”, e al giornalista Enrico Mentana, il quale ha replicato di aver seguito la regola, da lui appresa al liceo, che prescrive l’apostrofo se qual si riferisce a un nome femminile. A questa “regola scolastica”, dettata probabilmente dall’esigenza di uniformare quale agli usi dell’articolo indeterminativo, avevo fatto riferimento anch’io nel mio testo; ne ho poi trovato traccia, grazie a Google books, sulla rivista “Il Leonardo” del 1936, dunque proprio negli anni di maggiore presenza dell’apostrofo nei testi scritti.
Interessanti, per stabilire l’attuale validità della norma tradizionale, sono anche alcuni casi televisivi. Ricordo di aver visto l’apostrofo tra qual ed è nelle prime puntate del Quiz show condotto da Amadeus su Raiuno dal 2000 al 2002 (un gioco in cui le domande rivolte dal conduttore ai concorrenti potevano essere lette anche dagli spettatori), ma ben presto quell’apostrofo sparì (e, devo dire, non era mai comparso nel quiz concorrente, condotto da Gerry Scotti su Canale 5). In un altro quiz che va tuttora in onda d’estate su Raiuno, Reazione a catena (condotto nelle ultime edizioni dallo stesso Amadeus), nel gioco finale, denominato L’intesa vincente, i due concorrenti devono far indovinare una parola al terzo compagno di squadra formulando una domanda nella quale ognuno può dire una sola parola (non, ovviamente, quella da indovinare); le parole separate dall’apostrofo vengono qui conteggiate (come nel programma word) come se fossero una sola. Ebbene, se il primo concorrente dice cos’è il secondo può proseguire nel formulare la domanda; se invece dice qual è il gioco si ferma e alla squadra viene assegnato un punto di penalità. In effetti, “imparata la lezione”, non c’è quasi nessuno che sbagli.
Insomma, la situazione sociolinguistica attuale è tale che, da responsabile del Servizio di Consulenza dell’Accademia (qual sono), non posso non ripetere che, al momento, la norma in base alla quale la Crusca consiglia (ribadisco: consiglia, non prescrive) di non usare l’apostrofo tra qual ed è risulta ben salda nella coscienza degli italiani. Dunque è tuttora valida l’indicazione data da Raffaella Setti su questo sito nel 2002 e, prima di lei, da Giovanni Nencioni. Questi, nella risposta n. 10 apparsa su “La Crusca per voi”, 2, 1990, dice testualmente: “È corretto scrivere qual è senza apostrofo, perché qual può essere usato anche davanti a parola iniziante per consonante [ed] è dunque considerato, nella tradizione grammaticale, una parola tronca (o, per dirla alla greca, apocopata), non una parola che ha subito l’elisione della vocale finale, giacché l’elisione è ammessa soltanto davanti a parola iniziante per vocale”.
Certo, come ho già ammesso nel mio intervento, le presenze dell’apostrofo tra qual ed è sono oggi tutt’altro che infrequenti e personalmente non mi sognerei mai di dare dell’ignorante allo scrivente, ben conoscendo (anche per esperienza personale) la fretta con cui un po’ tutti scriviamo (quasi sempre senza rileggere!), dalla tastiera del computer (dove peraltro può intervenire il correttore automatico) e, forse ancor più spesso, dal cellulare.
Se la scelta dell’apostrofo è deliberata (come nel caso di Passani e di Sgroi), nulla da dire: può anche darsi che, sulla loro scia, altri li seguano e col tempo la norma cambi. Per fare un esempio che può presentare qualche analogia col caso in questione, la battaglia condotta da Luca Serianni in difesa del mantenimento dell’accento su sé anche prima di stesso o medesimo sta dando i suoi frutti. Va detto però che in questo caso nessuna grammatica ha mai censurato l’uso dell’accento e le due grafie erano considerate entrambe fruibili (come lo sono tuttora); vero è che l’indicazione circa l’ammissibilità di non usarlo in questi contesti ha fatto sì che qualche insegnante “più realista del re” considerasse se stesso o se medesimo le uniche forme corrette e sé stesso o sé medesimo addirittura come errori.
A chi proprio non vuole accettare la grafia dello standard suggerirei di scrivere quale è. Come ho già detto nel mio testo, nell’italiano di oggi tanto i troncamenti quanto le elisioni sono obbligatori solo in pochi casi e comunque, nello scritto, sono molto meno frequenti che in passato; pertanto la sequenza quale è può senz’altro essere considerata accettabile. Invece, chi mette l’apostrofo tra qual ed è, sia che lo faccia sbadatamente, sia che lo faccia deliberatamente, deve sapere che sta compiendo una piccola trasgressione. Poco male: la trasgressione, e non solo in fatto di lingua, viene spesso valutata positivamente (fin troppo, direi; c’è però chi può permettersela e chi no...). Ma chi intende seguire l’indicazione di Lord Brummel, secondo cui l’eleganza sta nel non farsi notare, cerchi di scrivere qual è. Se poi talvolta l’apostrofo “gli scappa”, non sarà certo un dramma. E se allora qualcuno gli fa rilevare l’“errore”, come si dice oggi, “ci sta”.
Paolo D’Achille
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La redazione del sito dell'Accademia
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