Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Il Consiglio Direttivo dell’Accademia della Crusca
Riprendendo quanto già scritto e pubblicato su questo stesso sito il 9 marzo 2023 in risposta a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2024 il Consiglio direttivo dell’Accademia della Crusca (costituito dal presidente Paolo D’Achille, dalla vicepresidente Rita Librandi, dall’accademica segretaria Annalisa Nesi e dai consiglieri Federigo Bambi e Rosario Coluccia) ha ritenuto utile fornire nuovamente, in forma sintetica, alcune indicazioni di carattere generale (per singoli casi si rimanda alla pagina del sito che segnala tutti gli interventi sull’argomento pubblicati sullo stesso sito nel corso degli anni).
Premessa
A chi opera nel settore del diritto e dell’amministrazione della giustizia (cfr. in maniera specifica l’art. 121 del rinnovato Codice di procedura civile), così come a chi opera nella burocrazia delle istituzioni pubbliche, a tutti i livelli, è oggi richiesto di scrivere in modo chiaro e sintetico, secondo regole che da tempo sono state indicate, per le quali è necessario un addestramento attento e continuo che ne renda naturale e automatico il rispetto.
Un analogo addestramento costante serve per un uso della lingua non sessista, cioè non discriminante in base al sesso, e rispettoso dell’identità di genere. Nei molti manuali compilati da varie amministrazioni centrali e locali vengono di solito indicate e ripetute, in forma sostanzialmente identica, regole ispirate al modello proposto nel 1986-87 da Alma Sabatini, che ha introdotto il tema del sessismo linguistico nella nostra lingua, rifacendosi al modello angloamericano e innescando un’ampia discussione che ha investito, oltre al linguaggio istituzionale, anche quello dei media e dell’educazione. Alma Sabatini proveniva dalla cultura femminista del suo tempo e faceva riferimento in maniera esclusiva al rapporto tra donne e linguaggio, mentre oggi le rivendicazioni e le richieste di intervento si sono fatte più ampie e provengono anche da parte di chi nega la tradizionale sistemazione binaria dei generi; ma la discussione sul binarismo vs pluralismo dei generi e sulla fluidità di genere è ancora aperta e per l’espressione del genere non binario in italiano finora non sono state proposte (e probabilmente non sono neppure possibili) soluzioni soddisfacenti e applicabili senza provocare nella nostra lingua uno stravolgimento delle strutture fonomorfologiche, che ne verrebbero seriamente, e forse irreparabilmente, compromesse (con gravi ripercussioni anche sulla organicità della comunicazione).
I criteri solitamente invocati per un uso della lingua rispettoso della parità di genere sono i seguenti:
1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare con referente generico e indeterminato (da alcuni definito “inclusivo” o, meno correttamente, “neutro”) perché a torto considerato “non marcato”;
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi di donne, perché genera un’asimmetria con quelli di uomini;
3) in caso di pluralità di nomi di genere grammaticale diverso, accordare il genere degli aggettivi e/o degli altri elementi ad essi riferiti con quello dei nomi che sono in maggioranza oppure con l’ultimo nome;
4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne.
Alla base di questi criteri sta la volontà di rompere qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione. Secondo chi sostiene queste tesi, l’operazione non solo sanerebbe un’ingiustizia storica e ripulirebbe la lingua dai residui maschilisti di cui sarebbe ancora incrostata, ma avrebbe anche una finalità educativa rispetto alla popolazione presente e futura, perché la lingua è in grado di condizionare la percezione della realtà, cioè il modo con cui le persone colgono e interpretano il mondo, e l’uso del genere grammaticale femminile per riferirsi a donne potrebbe contribuire a una visione del mondo lontana da quella androcentrica imposta dalla tradizione. Le moderne neuroscienze hanno messo in discussione il fatto che la lingua costituisca di per sé un condizionamento e un filtro rispetto alla percezione dei dati empirici reali. Già in precedenza, c'è stato chi ha insistito sul valore puramente formale del genere grammaticale, in quanto meccanismo strutturale della lingua ai fini del suo elementare funzionamento, molte volte totalmente estraneo alla componente del genere naturale. D'altra parte, studi recenti di carattere sperimentale hanno mostrato che in lingue diverse dall'italiano in cui il sistema di genere comprende i valori maschile e femminile l’associazione, anche inconscia, con il genere naturale ci sia.
Indicazioni pratiche
Evitare le reduplicazioni. Sono da limitare al massimo interventi che implichino riferimento raddoppiato ai due generi al plurale (in particolare quando la distinzione di genere è affidata a una distinzione di desinenza o di suffisso o è determinata da articoli o altri elementi il cui genere è controllato dai nomi a cui si riferiscono). Il maschile plurale “non marcato” (a differenza del singolare) risulta, in generale, accettabile, sia per motivi legati alle strutture morfosintattiche dell’italiano, sia anche perché in esso si possono sentire rappresentati tutti i generi sessuali, purché il suo uso si leghi alla consapevolezza che deve essere inteso come un modo di includere e non di prevaricare. La reduplicazione appare invece opportuna in contesti particolari, in cui la scelta del maschile potrebbe risultare legata a stereotipi che di fatto escludano oppure occultino la presenza del femminile, nonché in contesti di pubblica oratoria e di valenza retorica. Per evitare inutili allungamenti della frase si possono inoltre scegliere forme semanticamente non marcate e sostituire, per esempio, persona o individuo a uomo, il personale a i dipendenti (o a i / le dipendenti) ecc.
Uso dell’articolo con i cognomi di donne. Nell’uso generale, non solo in quello giuridico, l’omissione dell’articolo determinativo di fronte al cognome si è negli ultimi anni particolarmente diffusa, sia per quelli di donne, sia per quelli di uomini, dove era ammesso, nello standard, nel caso di personaggi celebri del passato (il Manzoni, il Leopardi ecc.). Oggi la presenza dell’articolo è considerata discriminatoria e irrispettosa non solo per le donne, ma anche per gli uomini. Per quanto priva di motivazioni fondate, questa opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto. Osserviamo ancora, tuttavia, che, nel caso in cui si ometta l’articolo prima del cognome di persone celebri, non si verificano controindicazioni, ma in alcuni casi si manifesta un’evidente perdita di informazione. Pertanto, quando sia utile dare maggiore chiarezza al genere della persona, sarà opportuno aggiungere il nome al cognome, o eventualmente la qualifica (“La presenza di Maria Rossi” o “La presenza della testimone Rossi”).
Esclusione dei segni eterodossi. La lingua è prima di tutto parlata e il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. È da evitare nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente da documenti giuridici e in generale dalla comunicazione effettuata dalla pubblica amministrazione, l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (“Car* amic*”, “tutt* quell* che riceveranno questo messaggio” ecc.). A maggior ragione va escluso lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, tra le quali quasi nessuna, però, la rappresenta sul piano ortografico. Non è un suono dell’italiano, ma è presente in vari dialetti della Penisola, nei quali tuttavia, grazie alla presenza di altri fenomeni fonetici, non compromette la distinzione di genere tra maschile e femminile, così come quella di numero tra singolare e plurale.
Conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre. La lingua giuridica e amministrativa non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In questo àmbito, il maschile non marcato è in certi casi inevitabile (se lo si volesse annullare interpretando il maschile in maniera assurdamente rigida, occorrerebbe rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, che parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine). Si potrà inoltre ammettere l’uso del maschile non marcato anche al singolare quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta: "Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri" (Costituzione, art. 89, comma 2). In tali funzioni, l’uso esclusivo del femminile “iperesteso” (che si riferisca cioè anche agli uomini) è invece assolutamente da evitare, anche perché genererebbe equivoci e incomprensioni.
Si tenga anche presente che il maschile non marcato è ben vivo nell’uso comune della lingua: “Siete pronti?”, “Sono arrivati sani e salvi”, “Uscite tutti!”. In casi come questi, la reduplicazione, che è ammissibile nel discorso pubblico di un ministro o una ministra, di un rettore o una rettrice universitaria, di un sindaco o una sindaca, avrebbe effetti comici e inappropriati, specialmente in situazioni familiari o di urgenza.
Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile. Si deve fare ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile. Questi nomi possono essere ricavati con l’applicazione delle normali regole di grammatica (ingegnere > ingegnera, il presidente > la presidente ecc.). Ecco alcune indicazioni in proposito.
In italiano esistono diverse classi di nomi:
1) i nomi terminanti al maschile in -o hanno il femminile in -a: magistrato / magistrata; prefetto / prefetta; avvocato / avvocata; segretario / segretaria; segretario generale / segretaria generale; delegato / delegata; perito / perita; architetto / architetta; medico / medica; chirurgo / chirurga; maresciallo / marescialla; capitano / capitana; colonnello / colonnella; Pubblico Ministero / Pubblica Ministera;
2) i nomi terminanti in -e non suffissati (quindi non quelli terminanti al maschile in -iere, -tore e -sore, -one, per i quali si veda più avanti) sono ambigeneri, cioè possono essere sia maschili sia femminili e affidano l’indicazione del genere all’articolo (e stabiliscono l’accordo di altri elementi: aggettivi, participi ecc.): il preside / la preside; il presidente / la presidente; il docente / la docente; il testimone / la testimone; il giudice / la giudice; il sottufficiale / la sottufficiale; il tenente / la tenente; il maggiore / la maggiore; il consulente tecnico / la consulente tecnica; il giudice istruttore / la giudice istruttrice, NON la giudice istruttore. Fanno eccezione forme ormai entrate nello standard come studente / studentessa (la studente è forma rarissima; per professore / professoressa, vedi più avanti);
3) i nomi suffissati:
3.1) i nomi terminanti in -iere: il suffisso -iere (pl. -ieri) al maschile è al femminile -iera (pl. -iere): cavaliere (pl. cavalieri) / cavaliera (pl. cavaliere) (in certi casi però si usa dama); cancelliere (pl. cancellieri) / cancelliera (pl. cancelliere); usciere (pl. uscieri) / usciera (pl. usciere); brigadiere (pl. brigadieri) / brigadiera (pl. brigadiere); portiere (pl. portieri) / portiera (pl. portiere);
3.2) i nomi e aggettivi terminanti in -a e in -ista: al singolare maschile e femminile sono omonimi ed è l’articolo a disambiguare, mentre al plurale si hanno al maschile -i e -isti, al femminile -e e -iste: il / la collega, ma i colleghi / le colleghe; il pilota / la pilota, ma i piloti / le pilote; il / la giurista, ma i giuristi / le giuriste; l’avvocato penalista / l’avvocata penalista, ma gli avvocati penalisti / le avvocate penaliste; l’avvocato civilista / l’avvocata civilista, ma gli avvocati civilisti / le avvocate civiliste; fa eccezione poeta/poetessa (forma ormai da secoli accolta nello standard);
3.3) i nomi e aggettivi terminanti in -tore: il suffisso -tore (pl. -tori) al maschile, è normalmente al femminile -trice (pl. -trici): tutore / tutrice; rettore / rettrice; direttore / direttrice; istruttore / istruttrice; ambasciatore / ambasciatrice; procuratore / procuratrice; uditore giudiziario / uditrice giudiziaria; hanno il femminile in -tora (pl. -tore) pretore / pretora; questore / questora; pastore / pastora e ha il femminile in -essa (pl. -esse) dottore/dottoressa;
3.4) i nomi e aggettivi terminanti in -sore: il suffisso -sore (pl. -sori) al maschile, è al femminile -sora (pl. -sore): assessore / assessora; difensore / difensora (la forma difenditrice, indicata dalle grammatiche, è rara); estensore / estensora; revisore / revisora; supervisore / supervisora; fanno eccezione femminili ormai acclimatati come professore / professoressa;
3.5) i nomi e aggettivi terminanti in -one (pl. -oni): hanno normalmente i femminili in -ona (pl. -one): commilitone / commilitona; fa eccezione campione / campionessa.
Va precisato che titoli onorifici come cavaliere del lavoro e commendatore finora sono rimasti al maschile anche quando assegnati a donne (e lo stesso vale per i gradi militari), ma non ci sarebbe alcuna ragione per non femminilizzarli.
4) i nomi composti con vice-, pro-, sotto- e i sintagmi con vicario, sostituto, aiuto: conta il genere della persona che deve portare l’appellativo; se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria / vicario, sostituta / sostituto: prosindaco (anche se il sindaco è una donna) / prosindaca (anche se il sindaco è un uomo); vicesindaco / vicesindaca; sottoprefetto / sottoprefetta; sostituto procuratore / sostituta procuratrice; prorettore vicario / prorettrice vicaria; aiuto cuoco / aiuto cuoca.
Si manterranno senza problemi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia al servizio di una potenza straniera, la sentinella, la guida turistica, la vedetta, nonché i nomi grammaticalmente maschili ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano (ma è accettabile anche la soprano).
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).
Commento di chiusura
Il tema sull’uso del genere femminile nei testi giuridico-amministrativi ha suscitato meno reazioni di quante ce ne saremmo attese e questo, a nostro parere, è un segno positivo. Forse significa che la femminilizzazione dei nomi di professioni e cariche che in passato sono state ricoperte quasi esclusivamente da uomini è ormai largamente accettata, a parte una fetta di persone ostili a qualunque innovazione che metta in discussione (anche solo apparentemente) il modello di italiano che hanno appreso a scuola, non di rado diverso tempo fa. Va piuttosto rilevato come ci siano tuttora donne per le quali l’opzione per il femminile (la “mozione”, come si dice in termini tecnici) costituisca una deminutio del proprio ruolo. Ringraziamo, in ogni caso, coloro che hanno mandato commenti, a cui cercheremo di dare una risposta.
Iniziamo proprio dalle due signore: a Rita Sbardellati diciamo che lei può continuare liberamente a usare (come del resto fanno molte sue colleghe) il maschile e a farsi interpellare come l’avvocato (Rita) Sbardellati; ma le avvocatesse e soprattutto (e meglio) le avvocate sono ormai numerose; la seconda forma di femminile, in particolare, è del tutto regolare e ha dalla sua anche il sostegno del latino, in cui esiste advocata, anche se (è vero) incontra tuttora resistenze (come avviene, ancora più spesso, nel caso di medica). A Luisa Giuliani ha già risposto per noi Giuseppe Mancini: ingegnere è un suffissato (da ingegno + -iere) e dunque il femminile ingegnera è del tutto conforme a femminili già esistenti come, per esempio, consigliera.
Passiamo ai vari interventi del nostro assiduo lettore Luca Fiocchi Nicolai, ma sorvolando sulla questione dello schwa/scevà (su cui l’Accademia si è già espressa) e sulla tematica LGBTQIA+ (oggetto di una comprensibile replica di Massimiliano Polito). In effetti soldatessa è forma di antica data e da tempo diffusissima (molto più del raro soldata) e dunque senz’altro accettabile: non è però accostabile agli altri esempi di femminili in -essa citati nel nostro tema perché si forma da un maschile in -o (così come avvocatessa, a cui, come è detto, è preferibile avvocata); diciamo che si tratta di un’omissione dettata dal desiderio di pace. È vero anche, come il nostro lettore sostiene, che pubblico ministero designa la funzione e che dunque il mantenimento del maschile è ampiamente giustificabile e giustificato; ma ormai l’espressione si usa anche e soprattutto con riferimento alla persona che svolge quella funzione e quindi l’uso del femminile ci pare in linea con quanto abbiamo consigliato negli altri casi.
Quanto al quesito che pone Andrea Di Gregorio (“Se parlo di tre persone di cui due sono femmine e una è maschio, non è un po’ prevaricatorio dire “sono tre fratelli”?), rispondiamo che la questione non sta nella maggioranza delle sorelle: la “prevaricazione” si avrebbe anche nei confronti dell’unica femmina. L’italiano, diversamente dall’inglese, non ha a disposizione un nome come sibling (la questione è stata già affrontata dal Servizio di consulenza linguistica) che includa tanto i fratelli quanto le sorelle; in casi del genere, pertanto, prevale tradizionalmente il maschile. Nulla vieta, però, di dire, invece di “sono tre fratelli”, “sono due sorelle e un fratello” o “sono due fratelli e una sorella”. Solo nel caso di “tre sorelle” non ci sarebbero dubbi sul genere delle tre persone indicate (come nel dramma di Cechov, in cui peraltro le Tre sorelle del titolo, hanno anche un fratello…). Il quesito, comunque, esula alquanto dal nostro tema.
Si lega meglio al tema, rispetto ai precedenti interventi da lui stesso richiamati, il commento di Luigino Goffi, al quale rispondiamo una volta per tutte: la sua proposta di distinguere tra gli articoli maschili, usando il e un come “neutri” e riservando lo e uno ai maschili veri e propri con riferimento a mestieri, cariche e funzioni, ha certamente una sua logica interna, ma urta contro tutta la nostra storia linguistica e, soprattutto, contro la struttura grammaticale dell’italiano nel suo complesso, ponendo più problemi di quanti ne risolva: dovremmo applicare la stessa distinzione ai dimostrativi, per esempio, distinguendo tra quel giudice “neutro” e quello giudice maschile? Ma come comportarci con questo? E che fare, poi, con i pronomi personali riferiti a professioni e cariche? Insomma, per risolvere una questione importante, ma limitata, si dovrebbe ristrutturare tutta l’architettura morfologica dell’italiano. Non ne varrebbe davvero la pena. In ogni caso, lo ribadiamo, le norme non si possono imporre dall’alto, senza tener conto dell’uso comune; si può solo suggerire, tra i vari usi già esistenti, quello preferibile, misurando le esigenze dell’attualità con la forza della tradizione.
E veniamo così a rispondere a Luca Passani, il quale si chiede, sulla base di questo nostro tema, se non stia “emergendo una nuova ‘regia’ che vuole portare la Crusca ad essere ‘ente normante’ della nostra lingua”. Non è così: il nostro tema riprende e aggiorna una precedente risposta, pubblicata il 9 marzo 2023, a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari che ci è stato posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione. Quando un’istituzione pubblica chiede, la Crusca risponde, come fa, del resto (o cerca di fare, compatibilmente con le proprie risorse, finanziarie e umane), con ogni persona che ponga un quesito linguistico. Il “compito essenziale” dell’Accademia è e resta, a norma di Statuto, quello di “sostenere la lingua italiana, nel suo valore storico di fondamento dell’unità nazionale, e di promuoverne lo studio e la conoscenza in Italia e all’estero” e ci pare che il nostro tema rientri pienamente in questo compito.
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