La competenza grammaticale è o non è importante per la comprensione dei testi? E quale competenza grammaticale?

di Mirko Tavoni

L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.


Scrivo queste pagine mentre i telegiornali rilanciano il 58° Rapporto Censis, dal quale apprendiamo che il 30% degli italiani non sa chi è Mazzini, il 32% afferma che la Cappella Sistina è stata dipinta da Giotto o da Leonardo, e non tutti sono convinti che Dante abbia scritto la Divina Commedia. Dunque “gli italiani sono ignoranti”: constatazione che fa serie con “gli studenti non capiscono quello che leggono”, come ci ripetono ogni anno tanto le rilevazioni nazionali Invalsi quanto le rilevazioni internazionali Ocse-Pisa; e con “gli studenti non sanno l’italiano”, come denunciava sette anni fa la cosiddetta Lettera dei seicento (ma vedi risposta di M.G. Lo Duca), con tutta la polemica scaturitane, dalle vaste implicazioni ideologiche, sociologiche, politiche e linguistiche.

Qui mi limito invece a toccare un argomento scolastico molto circoscritto: cioè se la grammatica che “si fa” – o forse “non si fa” – nella scuola secondaria abbia o non abbia conseguenze sulla migliore o peggiore comprensione dei testi: abilità, quest’ultima (Reading literacy), senza alcun dubbio di capitale importanza nei sistemi educativi di tutto il mondo.

Il tema è limitato, ma è un tassello tutt’altro che irrilevante di una questione educativa e sociale di ampia portata e, comunque la si valuti, piuttosto grave. Tutt’altro che irrilevante, perché sull’analfabetismo di ritorno agiscono tutti i fattori sociologici che conosciamo a iosa, ma conterà anche qualcosa come vengano spese le due o tre ore di scuola dedicate alla lingua, sulle sei complessive riservate all’“Italiano”, ogni settimana, da due milioni e mezzo di adolescenti nel pieno del loro sviluppo intellettuale, e replicate per tre anni (alle medie) più due (al biennio) della loro vita. Si tratta di una montagna di tempo e di energie, degli adolescenti e dei loro insegnanti. Se tutto questo tempo e tutte queste energie vengono messi a frutto meglio o peggio può fare una bella differenza, per la vita futura degli studenti e per la frustrazione o soddisfazione degli insegnanti.

Le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, varate dal MIUR nel 2012, non danno tanta importanza alla grammatica, né in generale né in particolare per servire a comprendere i testi. Mettono giustamente in primo piano, nelle finalità dell’educazione linguistica, le “quattro abilità” – saper ascoltare, saper parlare, saper leggere, saper scrivere – che la scuola deve far acquisire agli studenti, all’insegna dell’inclusione sociale e della cittadinanza consapevole. Sulla grammatica, invece, nelle Indicazioni nazionali arriva l’onda lunga di una svalutazione iniziata cinquant’anni fa. Gli “Obiettivi di apprendimento al termine della classe terza della scuola secondaria di primo grado” (pp. 34-36), dopo aver elencato tutti gli obiettivi relativi ad “Ascolto e parlato”, “Lettura”, “Scrittura”, “Acquisizione ed espansione del lessico ricettivo e produttivo”, da ultimo arrivano a “Elementi di grammatica esplicita e riflessione sugli usi della lingua”. E qui sono elencati dieci obiettivi, evidentemente in ordine di importanza, il primo dei quali è “Riconoscere ed esemplificare casi di variabilità della lingua”, seguito da altri obiettivi pure afferenti ai vari ambiti d’uso della lingua e ai vari tipi di testo, oltre che alla struttura del lessico, finché solo al sesto posto, a poche righe dalla fine del capitolo “Obiettivi”, compare “Riconoscere l’organizzazione logico-sintattica della frase semplice”.

L’interesse per i traguardi e gli obiettivi dati come prioritari ha preso un po’ la mano agli estensori delle Indicazioni, e li ha indotti a magnificare gli uni e gli altri in termini non molto realistici. Chi legga le pp. 34-36 delle Indicazioni converrà che una percentuale molto piccola della popolazione italiana adulta sa fare anche solo una parte di tutte le cose che queste e questi quattordicenni dovrebbero saper fare alla fine della terza media: dall’Ascolto e parlato (“Narrare esperienze, eventi, trame selezionando informazioni significative in base allo scopo, ordinandole in base a un criterio logico-cronologico, esplicitandole in modo chiaro ed esauriente e usando un registro adeguato all’argomento e alla situazione”) alla Lettura (“Leggere testi letterari di vario tipo e forma (racconti, novelle, romanzi, poesie, commedie) individuando tema principale e intenzioni comunicative dell’autore; personaggi, loro caratteristiche, ruoli, relazioni e motivazione delle loro azioni; ambientazione spaziale e temporale; genere di appartenenza”), alla Scrittura (“Scrivere testi di forma diversa (ad es. istruzioni per l’uso, lettere private e pubbliche, diari personali e di bordo, dialoghi, articoli di cronaca, recensioni, commenti, argomentazioni) sulla base di modelli sperimentati, adeguandoli a situazione, argomento, scopo, destinatario, e selezionando il registro più adeguato”). E queste sono solo un assaggio di tutte le competenze elencate.

Viceversa, le competenze grammaticali sono poca cosa. Dopo “Riconoscere l’organizzazione logico-sintattica della frase semplice”, visto sopra, e prima di “Riconoscere in un testo le parti del discorso, o categorie lessicali, e i loro tratti grammaticali” (all’ottavo posto: ma non era più logico metterlo prima?), al settimo posto c’è “Riconoscere la struttura e la gerarchia logico-sintattica della frase complessa almeno a un primo grado di subordinazione”. Cioè possiamo immaginare un’insegnante o un insegnante delle medie che dice alla classe: “Prendiamo la frase Ha detto che ci va perché ne ha voglia. Ragazzi, perché ne ha voglia è troppo difficile per voi: questo lo studierete alle superiori”. Evidentemente, le Indicazioni nazionali assumono che anche se non sanno riconoscere frasi subordinate ardue come perché ne ha voglia i ragazzi di terza media saranno capaci di “padroneggiare e applicare in situazioni diverse le conoscenze fondamentali relative al lessico, alla morfologia, all’organizzazione logico-sintattica della frase semplice e complessa, ai connettivi testuali; utilizzare le conoscenze metalinguistiche per comprendere con maggior precisione i significati dei testi e per correggere i propri scritti” (p. 34), ecc. ecc.

Rileggendo quanto ho scritto finora sento il bisogno di dire subito, a scanso di equivoci, una cosa, che riprenderò meglio alla fine: non sono affatto un laudator temporis acti. Andiamo avanti.

Per verificare se le competenze morfologiche, sintattiche e attinenti alla linguistica del testo siano più o meno utili a comprendere testi, le prove Invalsi ci mettono a disposizione un materiale eccellente, cioè le 349 domande, molto ben strutturate, relative alla “Comprensione del testo” alla fine della secondaria di primo grado, e le 381 alla fine del primo biennio della secondaria di secondo grado, erogate a circa mezzo milione di studenti delle medie e altrettanti del biennio ogni anno fra il 2010 e il 2017. Il tutto consultabile nel portale Gestinv 3.0. Archivio interattivo delle prove Invalsi.

Per fare un’indagine abbastanza contenuta sulle domande delle medie, ho selezionato tre campioni, di una trentina circa di domande ciascuno, in base alle percentuali di successo nelle risposte: a un estremo quelle che hanno ottenuto più del 90% di risposte corrette; all’estremo opposto quelle che hanno ottenuto meno del 50% di risposte corrette; e in posizione intermedia quelle che hanno ottenuto fra il 65 e il 70% di risposte corrette. Sono tre campioni che ciascuno può ricreare nel portale Gestinv > Prove di Italiano > Ricerca guidata, selezionando Grado = 08 (cioè 8 anni di scolarità = 3a media); poi Tipologia sezione = Comprensione del testo; poi Perc. risposte corrette > 90, ovvero > 65 e < 70, ovvero < 50.

Ho classificato le 87 domande così ottenute in funzione del fatto che, per rispondere correttamente: A) non fosse necessaria nessuna particolare competenza metalinguistica; B) fosse necessaria una competenza lessicale; C) fosse necessaria una competenza morfologica, sintattica e/o linguistico-testuale. Naturalmente la classificazione in A, B o C ha un margine di soggettività; ma non, credo, un margine ampio, come chiunque può verificare, o falsificare, rifacendo da sé l’esperimento.

Così, incrociando le tre fasce per percentuale di successo con le tre colonne per tipo di competenza, ho ottenuto una tabella a 9 caselle, che a me risulta popolata con questi numeri:


La distribuzione dei valori nella tabella è talmente sbilanciata che ci basterà la sua auto-evidenza. Ma se, per scrupolo, richiedessimo una conferma statistica, il test del Chi-quadro ci direbbe che questa distribuzione ha una probabilità di essersi prodotta per caso molto inferiore a una su mille. Dunque deve esistere una ragione che spieghi perché si è prodotta.

E la ragione è che le competenze metalinguistiche, e in particolare grammaticali in senso lato, discriminano molto la popolazione studentesca: le domande a cui praticamente tutti gli studenti sanno rispondere sono tutte domande che non richiedono nessuna competenza metalinguistica. Ma chi si trova in questa condizione deve accontentarsi di cogliere solo ciò che il testo dice esplicitamente, direttamente e a chiare lettere, anzi a lettere cubitali. All’opposto, le domande a cui pochi studenti (addirittura meno della metà) sanno rispondere sono in grande maggioranza domande che richiedono competenze metalinguistiche, e in particolare grammaticali in senso lato. In altre parole, la mancanza o scarsità di competenze metalinguistiche limita drasticamente la capacità di comprendere i testi in modo preciso e approfondito, di cogliere informazione implicita, di trarre inferenze, di focalizzare quale sia l’intenzione comunicativa. E con ciò, possiamo dire, limita drasticamente la possibilità di godere di cittadinanza linguistica piena.

Ma gli esempi faranno percepire meglio. Di ciascuno do, tra parentesi, la percentuale esatta di risposte corrette: che da sola basta a ritrovare l’esempio nel corpus consultabile online, per chi desideri farsi la propria idea direttamente sui dati. Chi invece vuole esimersi dalla documentazione minuta può saltare alla pagina successiva.

Competenze lessicali

Casella II.B. 1) Scegliere l’espressione equivalente al rumorino di cui parla il racconto (66,9%). 2) Scegliere l’espressione equivalente all’espressione intero sensato del racconto (69,6%). 3) Scegliere l’espressione equivalente alla frase L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci del racconto (69,5%). 4) Significato dell’aggettivo facoltoso usato nel racconto (69%). 5) Significato dell’espressione barcolliamo usata in senso figurato (69,1%). 6) Scegliere l’aggettivo che definisce un racconto in cui, come in questo, “io narrante” e autore sono la stessa persona (autobiografico) (69,2%). 7) Scegliere quali frasi del testo hanno una funzione regolativa (67,5%).

Casella III.B. 1) Trovare nel racconto due sinonimi di destino (Sorte e Fato) (32%). 2) Riconoscere due sinonimi fra i quattro aggettivi presenti nel racconto arguto, gioviale, estatico e rapito (36%). 3) Significato dell’espressione torva spazzola rossa del testo (40,4%). 4) Significato della coppia di aggettivi rustica ma linda attribuita alla cucina dove avviene l’incontro descritto dal racconto (44,8%). 5) Spiegazione della definizione della pubblicità come ossigeno del capitalismo (significato figurato di ossigeno) (46,4%). 6) Perché l’ora legale si chiama così? (47,7%).

Competenze morfologiche, sintattiche e/o linguistico-testuali

Casella II.C. 1) Scegliere l’espressione equivalente al participio adattatisi nell’espressione adattatisi a ruoli molto particolari al r. 5 del testo (possibili valori delle frasi participiali) (67,1%). 2) Rispondere a una domanda che implica aver capito esattamente il significato, veicolato dalla sintassi, di un capoverso costituito da due frasi complesse (67%). 3) Rispondere a una domanda che implica aver capito esattamente il significato, veicolato dalla sintassi, di un capoverso costituito da tre frasi complesse (66,9%). 4) Significato del connettivo mentre al r. 19 del testo (69,6%). 5) Giudicare se sono vere o false, sulla base del testo espositivo e della relativa illustrazione, otto affermazioni (capacità di gestire informazione combinata testuale e grafica) (68,3%). 6) Abbinare 4 titoli ai 4 capoversi del testo, rispettandone la successione logico-cronologica (68,6%). 7) Scegliere tra 4 frasi quale definisce le caratteristiche del racconto in esame (65,5%).

Casella III.C. 1) Esempio molto significativo. È richiesto di individuare le tre parti, “corrispondenti a momenti diversi della vita del protagonista”, nelle quali è suddiviso il racconto (le tre parti sono di per sé facilmente individuabili). Con l’aggiunta: “Ciascuna parte si distingue anche per l’uso di un tempo verbale prevalente: indica quale”. I tre tempi sono, con grandissima evidenza, imperfetto, passato remoto e presente, e la loro successione esemplifica perfettamente i valori aspettuali di imperfetto, tempo dello sfondo, e passato remoto, tempo degli eventi, costitutivi dei testi narrativi. Ma sembra che l’ulteriore indizio non abbia facilitato, bensì reso più difficile, la risposta (impressionante la percentuale di risposte corrette: 12,24%). 2) Individuare i rapporti logici in sequenze di affermazione - obiezione - risposta alla obiezione (capacità di padroneggiare meccanismi argomentativi  che implicano l’adeguata comprensione di una serie di frasi) (37,8%). 3) Individuare l’antecedente di ne nella frase nel contempo non ne ha stimolato… al rigo 8 del testo (39,7%). 4) Scegliere quale di 3 frasi spiega perché le piante tropicali sono sempreverdi sulla base dell’informazione veicolata dalla frase complessa dei righi 6-11 (43,7%). 5) Scegliere quale di 3 frasi individua a che momento del passato si riferisce l’espressione fino all’altro ieri (rigo 5), il che implica l’esatta comprensione del significato della frase complessa dei righi 5-8 (47,2%). 6) Scegliere quale di 4 frasi spiega perché una decisione del New York Times è definita saggia (rigo 12), il che  implica l’esatta comprensione della gerarchia e dei rapporti logici fra le tre frasi dei righi 10-15 (48,3%). 7) Individuare il tempo verbale (l’imperfetto) che il testo usa per narrare di “situazioni e fatti che si ripetono più volte nel passato” (48,8%). 8) Dire se il protagonista del racconto e chi l’ha scritto sono la stessa persona, il che richiede una pur minima attitudine ad accorgersi di segnali testuali evidenti (abbastanza impressionante la percentuale di risposte corrette, 25,2%, visto che il protagonista è un ragazzo algerino e l’autrice che si firma è una donna italiana). 9) Domanda di carattere interpretativo che richiede di aver capito l’intenzione comunicativa implicita del narratore (31,6%). 10) Domanda che richiede capacità di interpretare congiuntamente testo e grafica di un testo espositivo (35,5%). 11) Collocare quattro sintagmi nominali, che identificano quattro fenomeni attinenti allo sviluppo demografico, al punto giusto in uno schema che visualizza le relazioni logiche che li collegano (35,8%). 12) In un testo espositivo corredato da illustrazione sul confronto fra lettura a stampa e digitale, abbinare correttamente operazioni mentali e corrispondenti caratteristiche del libro cartaceo (36,3%). 13) Scegliere tra quattro  frasi quella che definisce la finalità comunicativa del narratore (39%). 14)  Trovare nel testo espositivo la frase che risponde alla domanda che il testo si poneva all’inizio (non sorprendentemente, è l’ultima frase del testo) (45,4%). 15) Completare con le parole appropriate tre frasi che dichiarano punti di vista diversi sul confronto fra lettura a stampa e digitale (49%). 16) Individuare, sulla base di precisi indizi, a quale anno del ginnasio-liceo si colloca il protagonista-narratore del racconto (42%).

Conclusione, dal mio punto di vista. Sono convinto che le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica  del GISCEL (1975) avessero ragione a criticare severamente la “pedagogia linguistica tradizionale”, cioè la grammatica che si insegnava allora a scuola. Ed era anche molto difficile, allora e diciamo nei venti anni successivi, individuare un paradigma grammaticale sostitutivo e riuscire a farlo accettare dal mercato scolastico, come alcuni tentarono generosamente di fare senza successo. Ma il risultato di questa lunga storia è che la grammatica scolastica, per quanto migliorata nella capacità di descrivere finemente la norma e l’uso, è rimasta immutata –  a parte limitate iniezioni di grammatica valenziale – nell’impostazione teorica sottostante, cioè nella obsoleta routine di analisi grammaticale, analisi logica, analisi del periodo, e annesse inerti tassonomie. Appunto il tipo di grammatica che non serve granché a capire i testi. E le parti aggiuntive al corpo centrale della grammatica (comunicazione, quattro abilità, varietà della lingua, ecc.), che all’inizio si erano prese il 40% dei manuali (rendendoli ipertrofici, perché la grammatica non era dimagrita), negli ultimi anni si stanno riducendo a zero. Cioè, dopo cinquant’anni, l’educazione linguistica, nei manuali, torna a identificarsi totalmente nella grammatica, che nell’impianto teorico è la stessa di allora. Noi docenti universitari di Linguistica italiana abbiamo la responsabilità di non aver insegnato ai futuri insegnanti istituzioni di grammatica italiana scientificamente aggiornate. Sarebbe ora, finalmente, che riuscissimo a mettere a loro disposizione uno strumento didattico che rendesse possibile fare le cose fondamentali che andrebbero fatte a scuola, come la linguistica moderna ci ha insegnato da almeno trent’anni, e che costituirebbero anche l’introduzione ottimale alla comprensione dei testi. E cioè, in discontinuità con il conformismo mimetico dell’editoria scolastica, analizzare la frase in sintagmi (davvero, non per finta), distinguere il livello sintattico dal livello semantico e dal livello informativo, riconoscere la struttura argomentale non solo dei verbi, far vedere cosa è la deissi, ecc. ecc. Il tutto partendo, come nessun manuale ha mai fatto, dalla competenza nativa degli studenti, dalla lingua italiana funzionante nelle loro menti, facendoli passare davvero dalla “grammatica implicita” alla “grammatica esplicita”, cosa che le Indicazioni nazionali raccomandano agli insegnanti di fare (p. 30) senza dare loro la minima indicazione su come farlo.

Se riuscissimo a fare questo avremmo finalmente voltato pagina.

Paola Marinetto
27 dicembre 2024 - 00:00
Mi inserisco con qualche riluttanza nella discussione, a fianco di nomi più prestigiosi, ma i miei recenti approfondimenti di psicolinguistica (affiancati a quelli più sedimentati di linguistica) mi spingono a riflettere. Nel processo di comprensione del testo un ruolo centrale (e riconosciuto) ha la conoscenza del lessico, dal momento che la comprensione inizia proprio dalla decifrazione delle singole parole e dalla loro semantica, senza la quale non vi è accesso al lessico mentale. Ma il passo immediatamente successivo è quello della co-costruzione del significato della frase attraverso l'interazione della singola parola con il cotesto. Il passaggio dal significato della parola a quello della frase avviene attraverso conoscenze che potremmo definire "grammaticali": la morfologia della parola individua la classe della parola; la classe della parola (soprattutto, ma non solo, nomi e verbi) porta verso la sintassi della frase, che passa attraverso la funzione del predicato nel richiedere certi argomenti, adeguati in numero e "natura". Mi fermo qui, ma il processo verso la comprensione del testo continua attraverso l'interazione tra frasi e periodi e l'individuazione della gerarchia tra questi. La "grammatica" dunque è patrimonio centrale per la comprensione di frasi e testi. La discussione deve spostarsi altrove: non se la "grammatica" sia utile, ma se il suo insegnamento sia adeguato. Su questo punto centrale Le Dieci tesi, che avevano visto giusto, hanno saputo incidere? L'osservazione della realtà, purtroppo, è la risposta.

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Gerda Haßler
23 dicembre 2024 - 00:00
Sono grata a Mirko Tavoni per la chiarezza con cui tratta il ruolo della grammatica in ambito scolastico. L'insegnamento senza grammatica si basa su modelli e schemi che gli studenti dovrebbero imparare e utilizzare. Tuttavia, l'attività linguistica è così varia e complessa che modelli e schemi non analizzati non sono sufficienti. Trascurare la grammatica porta anche a deficit nella comprensione dei testi. Purtroppo questo problema è già ben presente in Germania, come dimostrano i risultati dello studio di PISA. Una caratteristica particolare del sistema educativo tedesco è che non dipende da un ministero federale, ma è di competenza degli Stati federali. In Germania non c'è mai stato un linguista come Tullio de Mauro, che si è interessato all'insegnamento delle lingue nelle scuole e che ha avuto anche un'influenza politica sull'istruzione. Questo porta a grandi differenze, ma anche all'arbitrarietà, che si riflette ripetutamente in risultati scadenti, ad esempio nel test PISA. Il ruolo della grammatica è stato ridotto in Germania in modo simile all'Italia. Da alcuni anni si parla molto di un “ruolo di servizio della grammatica”, anche se nessuno capisce veramente a chi o a cosa serva e cosa dovrebbe significare questa personificazione della grammatica. In ogni caso, gli insegnanti si sono resi conto che esplicitamente non stanno più insegnando la grammatica. Naturalmente, il cosiddetto ruolo di servizio della grammatica si riferisce al fatto che i termini grammaticali non debbano essere imparati, ma che le lezioni di grammatica debbano servire a migliorare le competenze linguistiche degli studenti. Tuttavia, mancano soprattutto due elementi: in primo luogo, libri di testo appropriati e, in secondo luogo, insegnanti che abbiano una solida conoscenza della grammatica e che siano in grado di riflettere su di essa nelle loro lezioni. Nei libri di testo vengono utilizzati termini fuorvianti e la grammatica non è inclusa nei programmi di formazione degli insegnanti in molte università perché è impopolare e non rientra negli interessi di ricerca dei professori. Nella maggior parte dei programmi di studio tedeschi, la grammatica è destinata alla scuola primaria, cioè agli alunni di un'età in cui non sono ancora in grado di astrarre e riflettere sulla propria lingua madre. Nei gradi superiori, soprattutto prima dell'Abitur, la grammatica non ha più luogo. Come risultato di questo tipo di insegnamento, la maggior parte degli studenti del primo anno dei corsi di laurea in filologia considera un oggetto come un soggetto quando compare all'inizio di una frase, oppure non è in grado di distinguere un avverbio da un aggettivo, con le relative conseguenze sull'acquisizione di una lingua straniera. La maggior parte degli insegnanti di lingue non è in grado di insegnare le capacità di analisi linguistica perché non le ha acquisite personalmente e perché non gli sono state insegnate durante gli studi. Ma anche quando i docenti universitari si assumono questo compito, il successo è incerto, perché gli studenti possono scegliere corsi più piacevoli e facili di quelli che trattano la grammatica e l'analisi linguistica. I laureati in filologia oggi spesso conoscono meglio le peculiarità delle varietà esotiche di una lingua che la grammatica della lingua che stanno studiando e come insegnarla. L'ignoranza della necessità di conoscenze linguistiche da parte degli insegnanti di lingue ha una lunga tradizione in Germania. Già nel XIX secolo, gli insegnanti imparavano molto sullo sviluppo dei suoni nelle prime fasi della lingua all'università e quasi nulla sulle strutture e sulle relazioni funzionali della lingua che dovevano insegnare. A mio avviso, la Grande grammatica italiana di consultazione è un'opera creata sulla base di un immenso corpus di testi e destinata a facilitare l'insegnamento della lingua italiana. Non esiste una grammatica simile per il tedesco. Naturalmente non si tratta di una grammatica scolastica, ma è adatta a mostrare il funzionamento della lingua italiana e a fornire agli insegnanti una guida per l'insegnamento. In Germania, purtroppo, manca ancora una grammatica che non contraddica la grammatica “implicita” acquisita spontaneamente con l'acquisizione della lingua madre, ma che anzi la sostenga e la promuova. A mio parere, partire dalla conoscenza implicita degli studenti è un buon punto di partenza per l'insegnamento della grammatica, da cui si possono rendere consapevoli strutture e funzioni. Questa consapevolezza è a sua volta un prerequisito per un uso efficiente della lingua e, in particolare, per lo sviluppo delle abilità di lettura. L'ultimo studio PISA ha mostrato ancora una volta quanto la Germania debba recuperare in questo campo. Gli alunni tedeschi hanno ottenuto un punteggio di 480 nell'area della competenza di lettura, inferiore alla media OCSE di 487. Un aspetto degno di nota è che circa un quinto degli alunni tedeschi ha difficoltà a cogliere e riflettere sul significato dei testi.

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Vittorio Coletti
21 dicembre 2024 - 00:00
Se è pienamente condivisibile l’assunto di fondo dell’intervento di Mirko Tavoni, che rilancia l’opportunità dell’insegnamento e dello studio della grammatica dell’italiano a scuola, non posso nascondere le mie perplessità di fronte alle considerazioni e alle proposte con cui lo sostiene. Prima di tutto, ho qualche riserva sull’idea che il beneficio dell’insegnamento della grammatica di una lingua materna (le ragioni per cui lo si impartisce) starebbe nel fatto che la conoscenza della grammatica favorirebbe una produzione/comprensione linguistica migliore da parte degli allievi. C’è indubbiamente (è ovvio) anche questo vantaggio, per altro assicurato pure da altre competenze e conoscenze, come leggere buoni libri e fare esercizi di scrittura. Ma questi mi paiono vantaggi collaterali, perché io credo che la conoscenza di come funziona la lingua che si usa nella propria comunità sia un valore culturale in sé, una tappa basilare nella crescita intellettuale e civile di una persona, come lo è la conoscenza della storia del proprio Paese o della sua geografia. Quindi non partirei dalle prestazioni linguistiche per giudicare dell’opportunità delle conoscenze metalinguistiche, indispensabili solo se le prestazioni richieste sono a loro volta di tipo grammaticale, plausibili strumenti di verifica di quel sapere specifico (le tipiche domande di grammatica), ma non il suo fine (chi giudicherebbe dell’importanza dello studio della geografia solo sulla base della sua utilità nelle risposte date a domande di geografia?). Lo studio della lingua spiega come funziona lo strumento che si usa pensando e comunicando e la sua storia mostra come e quanto esso risenta della cultura della comunità che lo adopera. Per questo, più ancora che per produrre o capire testi in lingua, vanno soprattutto insegnate la grammatica e la storia della lingua, come si insegna la storia della letteratura o la filosofia o la scienza. Pensare che lo studio scolastico della lingua materna debba essere “giustificato” da una sua diretta utilità applicativa, oltre che dubbio in sé mi pare un riflesso del diffuso pensiero che a scuola ammette solo ciò che “serve” su due piedi, subito spendibile in pratica, al punto da promuovere la discussa se non sciagurata “alternanza scuola- lavoro”. Venendo poi ai metodi con cui insegnare la grammatica a scuola, mi lasciano perplesso le riserve di Tavoni sulla grammatica valenziale, respinta nel suo ufficio scolastico sulla base dell’analisi assai discutibile che ne fanno studi che confondono la gerarchizzazione interna (a scopo didattico) dei vari costituenti di un sintagma con la sua “lacerazione”, come se ciò comportasse la sua scomparsa o sottovalutazione, mentre il legame che li unisce è sempre visibilmente esplicitato. Infine, non so se sia ancora o di nuovo il caso di mettere al centro di una nuova grammatica (cioè, ripeto, della riflessione sul funzionamento della lingua materna) per le scuole un obiettivo metodologico, anche se è innegabile che alcuni metodi siano migliori e più efficienti di altri. Alla giusta osservazione di Tavoni che certi errori degli studenti a domande di metalinguaggio grammaticale dipendono dalla scarsa conoscenza della grammatica, va aggiunto infatti che non conta tanto il metodo con cui è stata loro insegnata, ma se è stata loro insegnata e se l’hanno studiata (altrimenti dovremmo distinguere le risposte degli studenti che hanno studiato su una grammatica tradizionale da quelle di quanti lo hanno fatto su una generativa o su una di orientamento valenziale). Fermo restando che l’impianto grammaticale tradizionale è ormai largamente superato e scarsamente efficiente, e che ci sono metodi più scientificamente fertili e avanzati di altri (come quello valenziale o quello strutturalista o quello generativo), a scuola serve, a mio parere, come scrive qui anche Graffi, un concorso di metodi, di esperienze, più che una rigida monodottrina. Anche perché, a seconda dei livelli di analisi della lingua, funzionano bene metodologie diverse. Purché abbiano un requisito comune ineliminabile: che siano economiche, nel senso che spieghino il molto della lingua con il poco o con l’essenziale dei loro modelli esplicativi, e che siano semplici, e cioè chiare nella terminologia e accessibili innanzitutto ai docenti che le adottano e poi agli studenti che dovrebbero studiarle. Vittorio Coletti

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Letizia Lala
20 dicembre 2024 - 00:00
Mirko Tavoni fa emergere con chiarezza lo scollamento che ancora sussiste tra la didattica dell’italiano impartita, salvo illuminate eccezioni, all’interno delle classi e le reali necessità sottostanti alla comprensione e alla produzione dei testi. Sappiamo tutti che scrivere un testo non significa solo accostare frasi che siano corrette dal punto di vista grammaticale; vuol dire anche, e, anzi, soprattutto, distribuire i contenuti e collegarli tra loro in modo che vadano a costituire un insieme coerente, quindi unitario e strutturato. Questo in quanto il testo non è solo la somma di materiale linguistico in successione, ma una costruzione articolata che ha una sua organizzazione interna, una sua struttura, sue gerarchie. E riuscire a padroneggiare la costruzione e l’analisi di un testo non può prescindere dal comprendere questa struttura e queste gerarchie. Nonostante questa evidenza, ciò che di testualità è approdato ad oggi nella didattica è poco e poco efficace. I ragazzi non sono chiamati a comprendere cos’è un testo, come si struttura, e dunque anche come si analizza. Concetti come deittici, connettivi, organizzazione informativa dell’enunciato, raramente sono affinati in classe e le conseguenze comunicative dei loro impieghi sono estranee alle competenze della quasi totalità degli studenti. Questo deve far riflettere in primo luogo chi, come noi, forma i nuovi docenti, i quali dopo studi di linguistica moderna, una volta arrivati in aula mostrano, con una certa regolarità, una propensione a rientrare nell’alveo dell’insegnamento tradizionale: norma grammaticale avulsa da un contesto comunicativo e storia letteraria. Tralasciando di impartire gli strumenti essenziali per l’acquisizione di una coscienza metalinguistica e testuale. In meritò a ciò, dalle ricerche che stiamo svolgendo in Svizzera italiana emergono, sintetizzando, due nodi critici fondamentali, segnalati regolarmente dagli insegnanti. Da una parte, la necessità di costruire un ponte tra le nozioni teoriche acquisite dalla ricerca linguistica e l’ambito didattico; un percorso di adeguamento dei concetti teorici che consentono di rendere conto di come è costruita la testualità, da formalizzare sulle necessità di formazione degli insegnanti, semplificando senza snaturare. Dall’altra, la produzione di adeguati strumenti didattici che consentano di integrare nelle classi un’ottica basata sulla linguistica del testo, sostituendo strumenti più tradizionali, poco adeguati ma familiari, disponibili in quantità e facilmente reperibili. Niente di nuovo, in realtà, ma niente che ad oggi sia stato realmente raggiunto. Per facilitare l’ingresso di una visione adeguata dell’educazione linguistica nella scuola e aiutare gli insegnanti nel passaggio dalla teoria alla didattica dobbiamo procedere in queste due direzioni, e unirci a chi – Cristiana De Santis fa bene a sottolinearlo – già da tempo si impegna in questo senso.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
20 dicembre 2024 - 00:00
Se ci si diverte a leggere dei nostri grandi scrittori vissuti nell'Antico Regime i dati biografici relativi alla loro prima formazione si scopre che, a trasmettere le basi, solide basi, grammaticali, poetiche, metriche, retoriche, necessarie a farne degli scrittori, furono l'applicazione ragionevole della Ratio Studiorum nei collegi gesuiti (leggete i nomi degli scolari di quello di Modena), della Methodus in quelli somaschi, gli insegnamenti dei seminari, delle scuole barnabite, delle Scuole Pie, dei precettori privati. Pascoli confermo' in un'intervista che in quelle scuole si apprendeva a dovere la lingua latina, fondamentale presupposto per maneggare quella italiana, venivano assegnati ottimi esercizi di versificazione, ci si abituava a imitare i classici per magari persino superarli. Non piacciono più quei metodi? di cui si giovarono da Dante al Manzoni, no che dico, al Carducci, i nostri migliori scrittori? a che serve ottundere le giovani menti di nomenclature e concetti filosofici e linguistici sempre mutevoli? mica si dava da studiare lo Scioppio o il Sanchez, si dava il Donato o l'Alvarez. E che, il Parini consigliava il Bembo? o non preferiva la chiarezza aliena da algebriche analisi del Corticelli? Non sarà meglio proporre una sana grammatica prescrittiva, normativa, senza inutili fronzoli ? invece di imbottire lo studente di deittici non si raccomandera' mai abbastanza la lettura di un classico? e la successiva parafrasi? non varrà la pena di dare molti esercizi, obbligare i ragazzi a studiare molte ore la grammatica, a scrivere scrivere scrivere, a studiare molte ore il latino, Cicerone, con traduzioni, amplificazioni, e tutto il vecchio armamentario retorico che tanti risultati diede? Certo, posso immaginare che il Leopardi non sapesse fare né derivate ne integrali, ma non perdeva nemmeno il tempo sui social. Ma, si dirà , nel diplomificio inclusivo si possono tormentare dei poveri ragazzi? Se invece di insegnare alla nostra gioventù studiosa a scrivere, si pensa o a divertirla coll'enigmistica o a tediarla colle espansioni, bè il triste epilogo sono le traduzioni dei classici italiani. Espurgati magari di ciò che suona misogino o eurocentrico. Cosa si vuole, la "comprensione" o la competenza di scrittura? non sono le aziende a pretendere dal candidato "l'orientamento al risultato"? insomma, si vuole formare una classe dirigente in grado di saper scrivere le leggi, o due o tre appassionati patiti di Oniga e Ghiselli? di Hjelmslev e Chomski? Ah, un'ultima cosa: cominciai a leggere una eclettissima grammatica latina del Ghiselli: Tornai al Porretti.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
23 dicembre 2024 - 00:00
Errata corrige: ecletticissima, non eclettissima. Eclettico fa ecletticissimo, come pratico praticissimo; eletto invece elettissimo (ma eletto è già un massimo). Devo studiare di più. L'ho fatto male alle medie inferiori. Oggi si sposta sempre più avanti, anche fino all'Universita', l'insegnamento di materie scolastiche che una volta si apprendevano in tenera età, quando le menti dei fanciulli sono più malleabili e ricettive. La lingua latina insegnata alle medie, fornisce quella familiarità colle cose grammaticali che non si dimentica più. Ma capisco lo scandalo, il Latino è classista!
Bernhard Huss
18 dicembre 2024 - 00:00
Vorrei ringraziare molto l'amico e collega Mirko Tavoni per queste osservazioni, che condivido pienamente. Il mio consenso si basa sia sulla mia esperienza didattica sia con gli studenti Erasmus italiani che con i nostri studenti tedeschi, che molto spesso hanno un qualche tipo di background privato italiano. Insegno letteratura italiana di tutte le epoche a Berlino e cerco sempre di lavorare a stretto contatto con il testo nei seminari. Naturalmente non si tratta di un insegnamento della lingua in senso stretto, ma di un tipo di insegnamento che comunque richiede conoscenze grammaticali, riflessioni grammaticali e anche “intuizioni” grammaticali a vari livelli. Posso constatare che non tutti, ma molti studenti hanno un grosso deficit, perché o non hanno quasi nessuna conoscenza grammaticale preliminare o tale conoscenza è molto rigida e inflessibile (quasi cose imparate 'a memoria') e non può essere attivata bene per lo studio dei testi letterari. Per inciso, ho l'impressione che la situazione degli studenti tedeschi rispetto alla lingua tedesca sia abbastanza simile a quella degli studenti italiani rispetto all'italiano, come descritta e documentata da Mirko. Ringrazio Mirko per questa importante e utile iniziativa e non posso che sostenere l'obiettivo di fornire agli studenti un approccio moderno alla comprensione delle strutture grammaticali nelle varie situazioni comunicative orali e scritte in cui ci dobbiamo misurare con la lingua italiana - ciò vale anche per i parlanti stranieri dell'italiano.

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Maria G. Lo Duca
18 dicembre 2024 - 00:00
Ringrazio Cristiana De Santis dei molti meriti che mi attribuisce, ma uno di questi è in parte immeritato, o meglio da condividere con i molti colleghi che hanno lavorato al Quadro di Riferimento delle prove Invalsi. Che è nel suo complesso il frutto di un lavoro collettivo cui tante e diverse competenze hanno lavorato a più riprese, sulla base delle esperienze delle prove, via via che venivano somministrate, e dell’avanzamento della ricerca linguistica oltre che della ricerca psicometrica. Una modalità di lavoro non facile da realizzare, e che io personalmente ricordo con rimpianto. Quello che De Santis coglie in pieno è la modernità della filosofia grammaticale che l’Invalsi accettó a suo tempo di accogliere e di utilizzare nella costruzione delle prove.

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Giorgio Graffi
18 dicembre 2024 - 00:00
L'intervento di Mirko Tavoni e il lungo e approfondito commento di Cristana De Santis danno molti spunti su cui riflettere: in primo luogo, una valutazione dell'atmosfera culturale degli anni '70, che a mio parere rimangono il periodo più entusiasmante della storia dell'Italia contemporanea, dal punto di vista del progresso e delle conquiste sociali. In questa atmosfera si collocavano appunto le "Dieci tesi" del GISCEL (dovute in realtà, a quanto sembra, di fatto al solo De Mauro), la cui risonanza è stata indiscutibile, ma il cui impatto sulla pratica didattica effettiva è ancora tutto da dimostrare. Questo per dire che le carenze lamentate nella famosa "Lettera dei seicento", alla quale si riferisce Mirko all'inizio del suo intervento, non sono da attribuire alle stesse "Dieci tesi" o a don Milani, come, in varie altre sedi, hanno insinuato alcuni (non tutti) dei firmatari della lettera stessa. Una volta chiarito questo, non si possono tarscurare due problemi fondamentali: 1) le carenze degli studenti delle scuole medie (inferiori e superiori) per quanto riguarda soprattutto l'uso della lingua scritta sono innegabili; 2) la preparazione degli insegnanti di italiano (salvo alcune notevoli eccezioni) è altrettanto carente, per quanto riguarda l'educazione linguistica. Su questi due punti penso che siamo tutti d'accordo, come pure siamo d'accordo sul fatto che la causa del secondo di questi problemi sta nella scarsa preparazione in materia fornita ai futuri insegnanti dall'università che hanno frequentato (anche in questo caso, con alcune eccezioni). Il punto essenziale della riflessione a cui ci invita Mirko mi pare però un altro: il ruolo specifico dell'insegnamento grammaticale . Se è vero che l'unversità italiana fornisce ben poca preparazione ai futuri insegnanti di "educazione linguistica" (salvo poche eccezioni, lo ripeto), c'è anche da rilevare che c'è poco accordo, anche tra gli specialisti, su che cosa sia la "grammatica" da insegnare. Mi pare che in questo campo si proiettino, a sproposito, le dispute teoriche tra le varie "scuole di linguistica": quindi c'è chi contrappone la grammatica valenziale alla grammatica generativa, chi quest'ultima, che certamente si occupa solo della frase, alla "linguistica del testo", e quindi considera la grammatica generativa insufficiente, e così via. Personalmente, da quando ho cominciato a riflettere su questi argomenti, in primo luogo con l'aiuto dell'indimenticabile Adraino Colombo, sono giunto alla conclusione che è forse la più ovvia, ma non è comunemente accettata: per quanto riguarda l'insegnamento grammaticale, bisogna adottare una prospettiva "ragionevolmente eclettica", che quindi unisca nozioni di grammatica valenziale ad altre di grammatica generativa (ad es., è graziea quest'ultima che si è arrivati a distinguere chiaramente tra "funzioni grammaticali" e "ruoli tematici"), ecc., con un'imprescindibile attenzione anche al testo. Per ottenere questo risultato, però, è necessario superare la contrapposizione tra "scuole" accennata prima, e soprattutto la scomunica contro la grammatica generativa, che in passato ho sentito emanare da studiosi anche illustri e seriamente impegnati nel campo dell'educazione linguistica. Non sarà forse questa scomunica ad aver ostacolato la diffusione della "Grande grammatica italiana di consultazione" curata da Renzi, Salvi e Cardinaletti tra molti insegnanti seriamente motivati? Si tratta naturalmente di un testo complesso, non sempre semplice da assimilare, ma la cui conoscenza sarebbe certamente utile a ogni insegnante, purché libero da ogni diffidenza nei confronti dell'impostazione dichiaratamente generativista dell'opera. E finché, lo ripeto, ci saranno illustri studiosi che dipingeranno la grammatica generativa come "instrumentum diaboli", c'è da essere sicuri che questa diffidenza in buona parte rimarrà.

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Cristiana De Santis
16 dicembre 2024 - 00:00
Leggo, in un volume appena uscito per Franco Cesati (Il domani dell'educazione linguistica democratica, a c. di S. Ferreri e S. Loiero), una frase che mi sembra sintetizzare bene il clima culturale di un'epoca (gli anni Settanta) che sembra irripetibile e decisiva a chi la visse: da lì sarebbe nato tutto il bene e tutto il male della scuola italiana. In quegli anni, però, sono nate anche persone che oggi sentono il bisogno di storicizzarla, quell'epoca. "Le Dieci tesi sono nate da un'esigenza primaria : mettere a disposizione degli insegnanti nella forma più concisa possibile argomenti di riflessione che nascevano sia dall'osservazione del mediocre stato dell'educazione linguistica nelle scuole, soprattutto le nostre italiane, sia dell'elaborazione dei risultati dello sviluppo della linguistica e del pensiero teorico avvenuto nel Novecento". La frase è di Tullio De Mauro e si trova a p. 36. Poche pagine prima Maria Luisa Altieri Biagi ricordava come nel 1973 "un noto pedagogista e preside di facoltà si opponeva alla chiamata di un collega (uno storico della lingua italiana, da lui personalmente stimato) perché questa disciplina - nelle facoltà di Magistero - assumeva l'ignobile titolo di "Storia della lingua e della grammatica italiana". Ignobile, agli occhi del preside, era l'inserimento della parola "grammatica", che sembrava gettare discredito sull'intero insegnamento. Questo accadeva a Bologna, dove nel 1980 sarebbe nato il primo insegnamento di Didattica dell'italiano. Questo per ricordare che del clima di un'epoca non sono mai responsabili i singoli, anche se alcuni singoli a volte hanno la forza e il coraggio di cambiare le cose. Quando si tratta di singole, tuttavia, non sempre questo debito (e l'autorità che ne deriva) viene loro riconosciuto. Parlo di Maria Luisa Altieri Biagi (scomparsa nel 2017: l'intervento sopra citato risale a un convegno del 2015), ma non solo. In una riedizione della sua fortunata grammatica ("L'italiano dai testi", 1999) scriveva: "Fino a ieri, una Grammatica poteva limitarsi a far riflettere su una lingua; oggi deve contribuire a insegnarla, anche se siamo consapevoli che non si ottiene 'per grammatica' quello che si ottiene per esercizio reale di lingua". La proposta di Altieri Biagi consisteva nell'osservare i testi: testi veri, non frasette inventate dall'autore della grammatica. La sua grammatica "dal" testo (che comprendeva anche la grammatica "del" testo) ha fatto scuola per chi ha avuto la fortuna di incontrarla sui banchi, nei corsi di formazione, nelle sue lezioni universitarie. Questo accadeva mentre le grammatiche di impianto più o meno generativo uscite negli anni Ottanta e Novanta andavano al macero dopo il primo anno di vita. Ma c'è un'altra esperienza che, dagli anni Ottanta, continua a dare i suoi frutti: quella degli "esperimenti grammaticali" di Maria G. Lo Duca, apparsi prima a puntate sulla rivista "Italiano e oltre" e poi in volume (da ultimo per Carocci, che li ha ripubblicati nel 2004 e li ha ancora in catalogo, arrivati al 2024 lla 22a ristampa). Basati sulla grammatica implicita (cioè sulla conoscenza spontanea della lingua), e sul metodo laboratoriale (cioè sull'osservazione guidata di dati linguistici autentici), portano alla scoperta delle regole e alla loro consapevole definizione e applicazione. I libri di grammatica ispirati a quel metodo (scritti da Lo Duca con Rosaria Solarino) non ebbero il successo che avrebbero meritato, ma gli esperimenti hanno continuato a nutrire le migliori pratiche di riflessione grammaticale della scuola italiana (in particolare nella scuola primaria, alla quale Lo Duca ha dedicato un volume fortunato uscito nel 2018 sempre per Carocci: Viaggio nella grammatica). Dobbiamo a Lo Duca anche un recente "Dizionario di base della grammatica italiana" che ha il merito di mettere a disposizione degli insegnanti uno strumento agile in grado di aggiornarli sui concetti nuovi che si sono imposti (con le relative denominazioni) nella disciplina (deissi, sintagma, connettivo ecc.). Ma, soprattutto, dobbiamo a Lo Duca il "Quadro di riferimento delle prove INValSI dell'italiano" (2013 e 2018), in cui questi concetti si ritrovano spiegati. Se queste prove stanno, sia pur lentamente, riorientando la riflessione grammaticale a scuola, lo dobbiamo all'intelligente lavoro del gruppo da lei coordinato fino ad alcuni anni fa. Dobbiamo a lei anche le più lucide riflessioni sulla presenza della grammatica in quelli che un tempo si chiamavano Programmi scolastici e oggi si chiamano "Indicazioni nazionali per lo sviluppo del curricolo" (indicazioni volutamente generiche in nome dell'autonomia scolastica che lascia ai diversi istituti comprensivi il compito di sviluppare curricoli per la scuola di base: dall'infanzia alla secondaria di primo grado). Insomma: a leggere le opere delle grammatiche (intese come persone) c'è molto da imparare. Lì ci sono semi che danno ancora frutti, senza bisogno di fare terra bruciata.

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