“Certo che sì!” “Solo che...”

Ci sono pervenute due domande che sollevano dubbi sulla correttezza dell’espressione certo che sì. Altri lettori, più numerosi, chiedono se siano corrette frasi come “ti fa solo che bene”, “dovrebbe solo che dirlo”, “posso solo che vincere” invece di “ti fa solo bene” o “non ti fa che bene”, “dovrebbe solo dirlo”, “posso solo vincere”.

Risposta

Trattiamo in un’unica risposta i due casi perché sono accomunati dalla presenza di un che considerato di troppo dai nostri lettori. Cerchiamo anzitutto di spiegare e documentare le due strutture, prima di formulare un giudizio sul loro (diverso) grado di accettabilità.

Certo che sì

Alla base di certo che sì è probabile che ci sia un’affermazione come “certo, sì” (è però più frequente la posposizione, “sì, certo”, che mi pare particolarmente usata, anche in alternativa al semplice “sì”, in Sicilia, pronunciata come “sicerto”, tutto di seguito ma senza raddoppiamento fonosintattico), in cui il che sostituisce la virgola, legando certo (avverbio, in questo caso interpretabile anche come interiezione) al successivo . Un caso analogo, infatti, si ha nel motto “Forse che sì forse che no”, rinascimentale e poi rilanciato come titolo da D’Annunzio (si veda al riguardo lo studio Titoli fortunati di Riccardo Cimaglia). C’è però una particolarità: oggi l’espressione suona arcaica rispetto alla formula “forse sì forse no”, senza i due che; invece nel caso del nostro certo che sì le cose stanno diversamente.

Il LEI, s.v. certus registra unitariamente “certo (sì/no, che sì/no) ‘(nelle risposte) come rafforzativo dell’affermazione o della negazione’ (dal 1304-1307, DanteConvivio, OVI; B [= GDLI]; Zing 2012)” (vol. XIII, col. 1214). Nel GDLI, s.v. Certo2 avv. si segnala questa accezione: “2. Nelle risposte, con valore asseverativo, o come rafforzativo dell’affermazione o della negazione”. Dopo un’attestazione di “Certo no” nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riportano i seguenti esempi (nel caso del Caro amplio un po’ il contesto):

Capellano volgar., I-143: Non vedemo noi che la bestia da uno cacciatore levata, e poi da un altro presa, ella rimane a quello che la prende? Certo sì; dunque, lo secondo amadore dee avere amore meglio che ’l primo.

Meditazione sopra l’albero della Croce, 34: Or, Signor mio, non ti desti tu, per tua volontà propria, in sacrificio a Dio Padre tuo? Certo sì.

Caro, 2-1-283: Certo sì che voi mi siete un buon discepolo, poiché scrivete così di rado, ma mi siete anco migliore amico, poiché senza scrivere coltivate l’amicizia con l’amorevolezza e con gli buoni officii.

Segneri, I-32: E non poteva egli giustamente gloriarsi nella sapienza del suo Signore...? Certo che sì.

Moravia, XII-258: - Anche di questo ti eri accorta? - Certo.

Le attestazioni mostrano un esempio di certo che sì già in un autore del Seicento come Paolo Segneri, mentre certo sì si ferma al Cinquecento, e il certo assoluto è documentato solo da un autore del Novecento (ma cfr. LEI: “it. (ma) certo! (dal 1885, Fogazzaro, LIZ; B; GRADIT; Zing 2014)”).

Grazie alla consultazione in rete permessa dagli Scaffali digitali dell’Accademia, si individuano vari altri esempi della sequenza certo sì all’interno del GDLI (spesso seguita da una frase introdotta da che), ma si tratta di esempi antichi o anticheggianti, quasi tutti compresi tra il Trecento e la prima metà dell’Ottocento: da Boccaccio (“‒ Come! ‒ disse Andreuccio ‒ Non sai che io mi dico? Certo sì sai”) al S. Agostino volgarizzato (“Certo sì che s’erano partiti ecco già la terza volta, sicché alla quarta fosse loro commessa provedutissimamente Roma”), da fra Cherubino (“Or non è cosa ragionevole che sia bene servito da quelli per li quali tanto disagio e fatica porta? Certo sì: ché, come dice il volgare detto, l’una mano lava l’altra e tutte due lavano il viso”) al già citato Annibal Caro (“Certo sì, che la grandezza vostra si disagia ad abbassarsi per un mio pari”; “Certo sì, che questo è caso enorme e compassionevole: lassate far a me, figliuola, che sarete consolata”), da Pietro Fortini (“Certo sì che se la segue dipegnare ogni giorno in su come l’ha cominciato, o la caverà qualche anima dello inferno o del purgatorio, o vero di sotto terra, che so io”) a Carlo Botta (“Si deve scrivere con purità di lingua, sì o no? Certo sì, se la sfrenatezza moderna non ha cambiato anche questo tasto”; “Èvvi chi pretende che i caratteri dei personaggi d’Alfieri sono tirati ed esagerati. Certo sì, sono per chi va e vuole andar terra terra; e chi smaccato e snervatello e sdolcinato e molle ed eunuco è, non vada dove si rappresentano”) e a Cesare Balbo (“Esiste o no un’opinione politica di mezzo tra coloro che non vogliono si muti nulla e coloro che vogliono si muti moltissimo, un’opinione moderata tra questi due estremi? Certo sì, ella esiste”).
Accanto a quelli del Botta si può citare un esempio del capofila del purismo del primo Ottocento, Antonio Cesari (“Or non sapea Dante (certo sì), che ’l pane Eucaristico non era dal pio Padre da concedere a tutti, anzi da negarlo al peccatore?”).
L’unico esempio novecentesco del GDLI è del romanziere Riccardo Bacchelli (“Questo, in termini espliciti e formali, egli non era in grado di dire: di sentirlo, e chiara e fortemente, certo sì”).

Pochissimi nel GDLI sono gli esempi di certamente sì (Cino da Pistoia, Gelli, Bartoli), mentre di certo che sì l’unica attestazione è quella del Segneri sopra riportata, ripetuta s.v. .

Diversi sono i dati della narrativa contemporanea offerti dal PTLLIN, in cui abbiamo un esempio a testa per certo sì, certamente sì, e tre (due dei quali in anni più recenti) di certo che sì:

“[...] tutta la vita, mangiando malissimo, accettano tutto, i ghiottoni, mettendo sulla cattedra di Pietro quello gnomo ultrasettantenne...”
“Gnomo certo sì,” rise Ubertino, “e di aspetto tisicuzzo, ma più robusto e più astuto di quanto si credesse!” (Umberto Eco, Il nome della rosa, 1981)

Diceva, per esempio: “Mi fa piacere vedere che sei così ottimista”. Per aggiungere a voce più bassa: “Tanto più che io non ne vedo le ragioni, ma tu certamente sì e me le dirai”. (Giuseppe Pontiggia, La grande sera, 1989)

- Che animo nobile... Lo sarà altrettanto la tua natura terrena? la tua natura, dico?
- Inutile farmi fare il viso rosso: certo che sì! (Tommaso Landolfi, A caso, 1975)

E poi l’identità “relativa o parziale” del continuum fisico l’aveva ammessa... E allora? La psiche non faceva parte del continuum fisico? Certo che sì! E dunque la verità era che la psiche aveva certamente un aspetto Quantitativo. (Giuseppe Montesanto, Nel corpo di Napoli, 1999)

Che doveva conservare? Era inalfabeta, non ci aveva mica lettere e cartoline. Stava tutto nella sua testa. Però teneva i picci del suo matrimonio. Li volevo vedere? Certo che sì. Ciabattando, scomparve nel corridoio. (Melania Gaia Mazzucco, Vita, 2003).

Purtroppo non è possibile cercare in rete le sequenze “certo sì”, “certamente sì” e “certo che sì”, perché la quantità di “rumore” sarebbe troppo alta: i risultati comprenderebbero infatti anche tanti esempi col si pronominale che sarebbe onerosissimo scremare. Nella mia personale percezione direi che certo che sì è oggi in espansione, al pari di certo che no, anche rispetto agli alternativi assolutamente sì e assolutamente no, che imperversavano (specie il primo) qualche tempo fa.

Molto probabilmente contribuisce al suo attuale successo la progressiva diffusione della “frase scissa”, grazie alla quale un elemento frasale si può mettere in rilievo anticipandolo e facendolo accompagnare dal verbo essere, affidando a un che detto “pseudorelativo” il legame col resto della frase: la struttura scissa più frequente è quella che anticipa il soggetto, per cui da una frase con l’ordine normale dei costituenti come “Paolo ha detto questo” arriviamo alla scissa “è Paolo che ha detto questo”, con un indubbio effetto di messa in rilievo del soggetto (che serve anche, in questo caso, a prendere le distanze dall’affermazione). Dunque il nostro certo che sì potrebbe essere interpretato come “[è] certo che [è] sì”, struttura del tutto analoga a quella di frasi come “certo che ci vengo”, “certo che sono convinto”, ecc., la cui correttezza sembra fuori discussione. Ci sono però alcune difficoltà: la frase di partenza sarebbe qui costituita da un elemento olofrastico (), rafforzato da un avverbio, certo, che tuttavia nella posizione anticipata viene ad assumere piuttosto il valore di aggettivo (la scissione con l’avverbio non sarebbe stata possibile). Da rilevare, comunque, che il LEI registra la frase “(il) certo è che ‘non c’è dubbio che (introduce una dichiarativa cui conferisce valore di verità)’ (dal 1524, Castiglione, B; LIZ; Zing 2012)” (vol. XIII, col. 1208), interpretando certo come nome.

In definitiva, la struttura certo che sì, documentata da secoli, appare senz’altro accettabile, soprattutto se usata come enunciato autonomo, per confermare un’affermazione precedente (non sembra ipotizzabile che certo che sì possa sostituire certo sì in esempi analoghi a quello del passo di Eco sopra riportato o che possa introdurre una completiva, alla quale basterebbe certo che). Sarebbe bene, comunque, non abusarne, specie nello scritto.


Solo che

Diverse sono la spiegazione e la valutazione di solo che con valore rafforzativo, equivalente al semplice solo (o soltanto, solamente) nel senso di ‘unicamente’, ‘nient’altro’.

Nell’italiano standard la locuzione solo che, come si legge nel Sabatini-Coletti (s.v. solo), ha due significati:

1 Purché (come residuo di una frase del tipo basta solo che); introduce una frase condizionale, con il v. al congiunt.: s. che tu voglia, la cosa si farà

2 Con il valore avversativo-limitativo di solo cong. testuale (per ellissi da dico s. che, c'è da osservare s. che e sim.): uscirei volentieri con te, s. che sono molto stanco.

Ora, questo secondo significato (o meglio, questa seconda funzione sintattica, che ammette pure la struttura scissa: è solo che la situazione non invita all’ottimismo; oppure quella “presentativa”, con c’è invece di è) è propria anche del semplice solo, come è detto nello stesso dizionario:

In funzione di cong. testuale (per ellissi da dico solo questo e sim.), nel sign. di “ma”, “tuttavia”, “però”, “peraltro”; conferisce valore avversativo-limitativo a una frase o sequenza di discorso rispetto a quanto detto in precedenza (isolata da pausa, di norma anteposta alla frase a cui appartiene): è una bellissima giornata, s. un po' fredda; non credo alle notizie dei giornali e non cambierò programma; s., sarò molto prudente.

È dunque possibile che solo che abbia preso (impropriamente) il posto di solo anche nella sua funzione avverbiale. C’è da aggiungere da un lato che nei testi parlati e scritti di carattere popolare (come pure in molti sistemi dialettali) è frequente l’uso di che dopo molte congiunzioni subordinanti (quando che, mentre che, siccome che, ecc.), dall’altro che, come suppone un nostro lettore, una frase come “fa solo che bene” potrebbe anche spiegarsi come una sorta di “incrocio” tra due strutture diverse: “ti fa solo bene” e “non ti fa che bene”.

Come per certo che sì, anche per solo che, la ricerca (e non solo in rete, ma anche in altri corpora testuali) è problematica, perché, come abbiamo visto, la locuzione ha altri valori ammessi dallo standard. Ho tuttavia cercato su Google il 23 aprile 2020 esempi della stringa “deve solo che/devi solo che” e ho trovato esempi come i seguenti (che riproduco senza modifiche): “Cosa risponderesti a chi dice che l’Italia é ormai un paese da cui si deve solo che fuggire?”; “Si deve solo che sciacquare la bocca, io sono una donna che lavora 18 ore al giorno”; “E ZombieBest deve solo che stare muto”; “Il coronavirus deve solo che espoldere”; “L’attesa è finita.. devi solo che tremare Conor McGregor” e, in dialetto romanesco, “A sekkoooooooooo, te devi solo che da na' mossa !!!”.

Con riferimento all’esempio in romanesco, ricordo che io stesso ho citato la struttura come caratteristica della varietà romana di italiano: “tra i tratti tipici del parlato romano si [può] segnalare, a livello basso, l’aggiunta di che a solo (devi solo che starti zitto)” (cfr. Paolo D’Achille, Italiano di Roma).

L’influsso della varietà romana di italiano sul neostandard (dovuto soprattutto ai mass media), rilevato recentemente da vari studiosi (Lorenzo Renzi e, sul piano fonetico, Pietro Maturi), potrebbe avere determinato un’espansione, sia in diastratia sia in diatopia, di questo uso particolare di “solo che”. Ma si tratta di una costruzione comprensibilmente percepita come scorretta dalla maggior parte dei parlanti ed è dunque certamente da evitare, in contesti anche soltanto (soltanto, non solo che...) di media formalità.


Nota bibliografica:

  • Riccardo Cimaglia, Titoli fortunati, ovvero “fari brillanti e seducenti sirene” nella lessicografia italiana, in Lessicografia e onomastica nei 150 anni dell’Italia unita. Atti delle Giornate di studio (Roma, Università degli Studi Roma Tre, 28-29 ottobre 2011), a cura di Paolo D’Achille ed Enzo Caffarelli, Roma, Società Editrice Romana, 2012, pp. 225-245.
  • Paolo D’Achille, s.v. Roma, italiano di, in Enciclopedia dell’italiano, diretta da Raffaele Simone, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. II, 2011, pp. 1262-1265; rist., col titolo L’italiano de Roma, in Paolo D’Achille, Antonella Stefinlongo, Anna Maria Boccafurni, Lasciatece parlà. Il romanesco nell’Italia di oggi, Roma, Carocci, 2012, pp. 49-57, 312.

Paolo D'Achille

1 dicembre 2020


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