Sono arrivate in redazione molte domande sul verbo rimanere; alcune riguardano l’ausiliare (“Ho rimasto a dare dei soldi o sono rimasto a dare dei soldi?” ci chiede un lettore agrigentino); un’altra domanda si riferisce all’uso transitivo di rimanere con il valore di ‘lasciare’ testimoniato nel Napoletano: “[i tuoi genitori] ti dovevano rimanere là”. La maggior parte dei quesiti arriva però dall’Emilia-Romagna, soprattutto da Imola, e riguarda l’uso transitivo di rimanere, tipico, come i lettori stessi dichiarano, dell’area: “Ho rimasto 10 euro nel portafoglio”, “Hai rimasto qualcosa da mangiare?”.
Possiamo subito rispondere molto brevemente a tutti i nostri lettori che il verbo rimanere, usato nell’italiano comune contemporaneo prevalentemente come sinonimo di restare, è intransitivo e appartiene alla categoria dei verbi cosiddetti inaccusativi, che prevedono il verbo essere come ausiliare nei tempi composti (sono, sei, è rimasto ecc.; cfr. La scelta degli ausiliari di Mara Marzullo; si veda anche Uno sguardo generale sugli ausiliari di Raffaella Setti).
Cerchiamo ora di approfondire i temi proposti dai quesiti.
La questione dell’ausiliare
Sappiamo che nell’italiano antico l’ausiliare avere compariva anche con verbi che oggi prevedono esclusivamente essere (cfr. Serianni 1988, 11.33); per quanto riguarda in particolare il verbo rimanere, attraverso una ricerca in Google libri (voci del presente indicativo di avere + l’antico part. pass. rimaso/a/i/e e rimasto/a/i/e), l’impiego è documentabile almeno a partire dal XVI secolo; se riportano due testimonianze, la prima di area settentrionale e la seconda di area meridionale (Ambrogio Calepio, detto Calepino, era bergamasco; Maurolico e Caldo erano messinesi):
Adunum, {Tutti, che non ha rimaso uno} […] adverbialiter sumptum significat omneis, nullo excepto, Curthis: omnes ad unum periere. (Ambrogio Calepino, Dictionarium, Venezia, Giovanni Griffio, 1550, c. 15v, s.v. Adunum)
Appresso forsi qualche tempo anchora, / Alcun d’altro valor più degno vaso / con meglio canto & lyra più sonora / dirrà lo decto & quanto mi ha rimaso […]. (Ad lectorem, in Vita Christi Salvatoris eiusque Matris sanctissime…, Venezia Agostino Bindoni, 1555, carta 50 v.; citato in Giuseppe M. Mira, Bibliografia Siciliana, vol. II, M - Z, Palermo, Gaudiano, 1884, pp. 59-60: p. 60 [Francesco Maurolico continua la Vita Christi scritta nel 1492 da Matteo Caldo])
L’alternanza dei due ausiliari è testimoniata anche nella quinta edizione de Le Maître italien di Giovanni Veneroni ([Jean Vigneron], Le Maître italien. Contenant tout ce qui est necessaire pour apprendre facilement, & en peu de tems [sic], à parler, lire, & écrire en Italien…, Paris, chez Etienne Loyson, 16875), in cui per rimanere si nota “Passé parfait ho rimaso, ou sono rimaso” (p. 116). Procedendo nel tempo le occorrenze si fanno più rare e comincia a prevalere il participio rimasto, come in questo passo, che testimonia l’uso di avere come ausiliare anche per il verbo parere:
Et a questo scopo, pare, & hà paruto sempre a me, che doverebbono indirizzarsi tutti quelli, che particolarmente per mezzo delle Stampe ambiscono di lasciare qualche vestigio, […] cioè al tentare di fare acquisto di qualche luogo fuori della plebeia torma de gli Scrittori infiniti, […], alcun luogo honorevole, se ve ha rimasto vuoto, […]. (Secondo Lancellotti [Perugia 1583 - Parigi 1643], Farfalloni de gli antichi Historici, editi dal fratello Ottavio, Venezia, Giacomo Sarzina, 1636, p. 386)
Questo antico fenomeno, sempre meno frequente nei secoli successivi, tende però a conservarsi in area meridionale, dove l’uso di avere in luogo di essere è un tratto caratterizzante a livello dialettale (cfr. Rohlfs 1969 § 729); se ne trovano testimonianze anche in testi colti riferibili all’area almeno fino alla prima metà del Novecento. A partire dalla seconda metà del secolo, anche in area meridionale le attestazioni tendono a comparire per lo più in trascrizioni di parlato; si veda questa testimonianza di un emigrato napoletano risalente al 1956:
Poi mi sono ammalato una prima volta ed ho rimasto senza poter lavorare per quasi un anno e solo mi ho potuto curare con le economie che mi ero messo da parte per tornare a Napoli, ma non mi dispiaceva perché prima di tutto la salute e poi ci pensavo a tornare a Napoli. (Giovanni Passeri, Dieci storie di emigrati, “Nuovi argomenti”, 21-22 [luglio-ottobre], 1956, pp. 89-125: p. 102)
E troviamo ancora abbiamo rimasto, accanto a si ha allontanato e abbiamo stato, nel racconto di una donna calabrese riportato da Armanda Guiducci nel suo La donna non è gente. L’esistenza emarginata delle più oppresse (Bologna, Rizzoli, 1988 [19771], p. 255).
Concludendo, l’impiego di avere in funzione di ausiliare di rimanere (e non solo) è un fenomeno in passato piuttosto diffuso e che si è radicato in particolare nelle varietà locali dell’area meridionale, benché risulti attestato anche in altre aree geografiche, per esempio nel Nord-Est, sia nei dialetti (cfr. Posner 1996, pp. 15-19: p. 16 per il veglioto; Cordin 2009 per i dialetti trentini), sia nell’italiano regionale (cfr. ancora Cordin 2009). È inoltre diffuso, senza particolare marcatezza diatopica, come tratto “sporadico e marginale”, nell’italiano popolare (cfr. Berruto 2012, pp. 140 e 141). Sarà dunque da evitarsi nelle comunicazioni formali e in tutti quei contesti in cui è richiesto l’italiano comune.
Ho rimasto per ‘ho lasciato’
Se ci rivolgiamo di nuovo all’italiano del passato tramite la consultazione del GDLI (a cui si rimanda per la serie completa delle accezioni del verbo), vediamo che rimanere è (o è stato) anche un verbo transitivo (più specificamente “Tr[ansitivo] Ant[ico] e letter[erio]”; cfr. GDLI s.v. rimanere § 28 per i rimandi bibliografici) con vari significati:
– “deporre” attestato in Nicolò Tommaseo (“rimase imperio e giurisdizione che aveva sopra quella”; Il duca d’Atene [1837]);
– “lasciare di sé” in Carlo Pisacane (“i Goti occidentali e le orde d’Attilia non rimasero altre tracce di sé che mine”; Saggi storici, politici, militari sull’Italia [1858]);
– “Lasciare indietro, collocare in retroguardia” ancora in Pisacane (“Mack si ritirò sotto il cannone di Capua rimanendo forti dietroguardie”; Scritti [vari] inediti e rari [ante 1857]) e in Manzoni (“Il rimanere una parte dell’esercito serviva…”; Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia [1822]);
– “Far concludere in un particolare modo” di nuovo in Pisacane (“un primo combattimento che la polvere, il caldo, il disordine rimasero indeciso”; Saggio sulla Rivoluzione [1860]);
– “Allontanare” in Alessandro Piccolomini (“In cerchio movendo alcuna cosa, quella parte verso noi accostando, e parte da noi rimanendo, giriamo e rotiamo”; Della filosofìa naturale, distinta in due parti…, Venezia, Francesco De Franceschi, 1585; nelle prime due edizioni dell’opera [Roma, Vincenzo Valgrisi, 1551, e Venezia, Francesco Lorenzini, 1560] al luogo si legge però rimovendo, cfr. anche Tommaseo-Bellini s.v. spingimento).
Notiamo subito che tre citazioni su sei sono tratte da opere del napoletano Pisacane; inoltre, provando a sostituire rimanere con lasciare, ci pare che il senso delle frasi, esclusa l’ultima, non cambi di molto; e ancora: in due delle descrizioni basate su un passo di Pisacane il lessicografo ha usato il verbo lasciare: “lasciare di sé”, “Lasciare indietro, collocare in retroguardia”.
I passi riportati nel GDLI, a esclusione dell’ultimo, rimandano tutti al XIX secolo, ma nel corpus di Google libri sono reperibili almeno cinque attestazioni precedenti, in testi di autori originari del sud della Penisola (due napoletani, due pugliesi e un molisano), in cui il verbo assume il valore di ‘lasciare’; ecco due esempi:
[…] Credesi che questa sia la stessa figura, che si mostra ancora al Campidoglio con il segno del tuono sopra una delle zampe della lupa. Cicerone ce n’ha rimasto in versi la relazione del prodigio. (Conyers Middleton, Storia della vita di M.T. Cicerone, tradotta dall’inglese ed accresciuta di note [da Giuseppe Maria Secondo, pugliese], Napoli, Pietro Palumbo, 1744-1745, t. I, nota d), p.132)
Gli antichi geroglifici hanno rimasto più tenebre, e più ignoranza intorno a’ fatti ed a’ costumi dell’antichità, che le istesse lacune delle Istorie Civili, e Letterarie. (Francesco Brencola [molisano], Saggio filosofico-politico-religioso sulla libertà e i suoi diversi aspetti, diretto a ismentire il libertinaggio fomentato dalla falsa filosofia, con note dello stesso autore, Napoli, Michele Morelli, 1792, p. 115, nota (a))
È però nel XIX secolo che le testimonianze riconducibili al valore di ‘lasciare (come resto, conseguenza)’, registrano un notevole incremento, specialmente in testi di àmbito specialistico (diritto, medicina, meteorologia, chimica, storia); qualche esempio:
Art. 436 […]
1.° Pe’ figli morti in attività di servizio nelle armate, […]
2.° Quando i figli hanno rimasto figli attualmente viventi; […]. (Jaques-Marie Boileux, Manuale di dritto civile ossia comentario sul codice civile contenente la spiegazione isolata di ciascun articolo..., Napoli, Carlo Cataneo, 1841, t. I, Libro I, Delle persone, p. 379)
[…]; inoltre se le osservazioni non mentiscono, pare che quando le nubi col loro passaggio hanno rimasto il suolo bagnato, quasi fosse caduta la pioggia […]. (Luigi Palmieri [campano], Lezioni elementari di fisica sperimentale e di meteorologia, vol. III Meteorologia e fisica terrestre, Napoli, G. Nobile, 1865, LEZIONE XI. Elettricità a cielo nuvoloso ed in tempo di pioggia, p. 146)
La soluzione filtrata ha rimasto un residuo formato di silice, granelli di sabbia, e di corpicciuoli lucidi cristallini.
La soluzione acida svaporata a secchezza ha rimasto un residuo deliquescente all’aria. (Giovanni Guarini, Analisi chimica di talune sostanze rinvenute in un vaso a Pompei, “Rendiconto delle adunanze e de’ lavori dell’Accademia delle Scienze: Sezione della Società reale Borbonica di Napoli”, anno II, t. II, 1843, pp. 175-178: p. 177)
I testi citati, e non solo quelli, risultano in qualche modo riferibili a Napoli o alla Campania o comunque all’Italia meridionale (luogo di edizione, luogo di nascita degli autori). Certamente legato a Napoli è questo brano teatrale:
Vit[ale] Vampiri spietati, si alimentano del nostro sangue...
Ant[onio] Non ci hanno rimasto niente....
Mas[aniello] No, t’inganni.... siamo giusti.... ci hanno rimasto qualche cosa.
Tutti. E che?..
Mas. Le fossa per gittarvi i nostri corpi, morti di miseria di fame. (Michele Ciarlone, Masaniello o Napoli nel 1647, dramma storico in 5 parti, Napoli, Salvatore De Angelis, 1846, parte I, scena IV, p. 11)
Già a metà Ottocento l’uso viene notato e stigmatizzato dal filologo e grammatico purista Leopoldo Rodinò:
rimanere mal si adopera bene attivamente per – Lasciare - Es. Ho rimasto (lasciato) il libro a casa (Leopoldo Rodinò [nato a Palermo da genitori calabresi ma vissuto a Napoli], Repertorio per la lingua italiana di voci non buone o male adoperate / compilato sopra le opere de’ migliori filologi con una proposta all’Accademia della Crusca di voci nuove da aggiungersi al vocabolario, Napoli, dalla Tipografia Trani, 1858, p. 185; analoghe osservazioni per restare a p. 181)
Parole simili (“non farai seguire a rimanere il quarto caso, facendolo attivo, come per es.: Ho rimasto il libro nella scuola, come si usa nella bassa Italia”; s.v. rimanere, restare) troviamo sul finire del secolo nella seconda edizione del Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso compilato da Filippo Ugolini (Firenze, Barbèra, Bianchi e Comp., 1898; non così nell’ed. del 1855). E all’inizio del secolo successivo l’uso viene notato e attribuito alla varietà napoletana anche da Edmondo De Amicis, che in A ciascuno il suo (L’idioma gentile, Milano, F.lli Trèves, 1905, pp. 49-55) idealmente rivolto “A una schiera di ragazzi di diverse parti d’Italia” scrive:
Partenopeo carissimo! Conosco un bravo avvocato napolitano, che tiene due cari figlioli, i quali, parlando italiano con me, […] dicono cacciar l’orologio per “tirarlo fuori”, abbiamo rimasto per abbiamo “lasciato” l’ombrello a casa […]. (p. 52)
Con il passare degli anni le reazioni dei grammatici si moltiplicano; un solo esempio:
Rimanere […]. È verbo intransitivo: non usare: ho rimasto per mi è rimasto. Non: ho rimasto pochi soldi, ma mi sono rimasti pochi soldi. Ho rimasto il bastone in casa. Dirai: ho lasciato. (Alfredo Panzini, Elenco dei verbi irregolari, in Id., Guida alla grammatica italiana: con un prontuario delle incertezze libretto utile per ogni persona, Firenze, Bemporad, 1932, pp. 59-65: p. 63)
Contemporaneamente le testimonianze tendono a limitarsi a testi teatrali in dialetto napoletano (per es. in opere di Raffaele Viviani o Eduardo De Filippo), benché sia possibile trovarne, almeno nella prima metà del secolo, anche in testi in lingua, sempre riferibili all’area meridionale. Riportiamo solo un passo di metà secolo di un autore napoletano, in cui l’uso transitivo di rimanere appare in due locuzioni i cui equivalenti di lingua, piantare in asso e lasciare a bocca aperta/spalancata, sono molto frequenti nell’uso comune:
E lo rimango in asso, affrettando il passo senza voltarmi indietro. L’ho rimasto, suppongo con la bocca spalancata che avrà lasciato cadere il suo eterno mozzicone… (Gino Rossetti, La città colorata: cronache d’altri tempi, Napoli, Benvenuto, 1956, p.74)
In particolare l’uso applicato alla locuzione rimanere in asso, che in lingua convive con la “simmetrica” e più conosciuta piantare in asso e vale ‘essere abbandonato bruscamente, lasciato solo’ (cfr. la scheda di Luisa di Valvasone), a quel che ci risulta, è l’unico esempio presente in Google libri e nel web in generale. Vista la diffusione di lasciare/ piantare in asso l’uso di “lo rimango in asso” potrebbe essere intenzionale. Come intenzionale, con probabile intento provocatorio, ne era l’impiego, a partire dal titolo Ho rimasto, in una canzone di Don Backy [Aldo Caponi, nato a Santa Croce sull’Arno, in Toscana, nel 1939, ma vissuto fino al 1947 nella città campana di Nocera Superiore] del 1964, nel cui testo troviamo il verbo con l’ausiliare avere sia nel significato di ‘restare’ (di cui ci si è occupati sopra) sia in quello di ‘lasciare’:
Ancora una volta ho rimasto solo / M’hai lasciato pure tu / […] / Ancora una volta m’hai rimasto solo / E da solo resterò.
Attualmente se ne trovano esempi solo nel parlato riprodotto, come in questo passo tratto da un romanzo ambientato in provincia di Napoli (nella parte narrativa rimanere ha l’ausiliare essere):
presentatore: Bene come avete visto le concorrenti non hanno tradito l’aspettativa […] per la prossima concorrente vi invito a prestare maggior attenzione perché la volta scorsa […] ha lasciato di corsa il palco e ci ha rimasto a bocca asciutta […]. (Carmine D’Ambrosio, suor Elisabetta un ciclone in convento, Lecce, Youcanprint, 2023 [e-book])
Sicuramente è usato nell’italiano locale della rete: si veda questo post pubblicato sulla pagina Facebook di una pescheria napoletana il 4/4/2024 (successivamente modificato in “ha lasciato al timone…”, ma non nella didascalia del video associato; così al 28/10/2024):
Il capitano ha rimasto al timone della sua attività le sue donne e il suo piccolino e noi super orgogliosi di portare da soli questa grande barca!! SFONDA TUTTO!!❤️ Rimanete connessi e guardate che spettacolo stamattina!!
Anche in questo caso, consigliamo ai nostri lettori di evitarne l’impiego nello scritto (a meno che non si voglia riprodurre il parlato dell’area), in contesti formali e in tutte le occasioni i cui si richiede l’impiego dell’italiano comune.
Ho rimasto per ‘mi è rimasto’, ‘ho messo da parte’
Rispondiamo adesso ai lettori che scrivono dalla Romagna. Il GDLI registra un ulteriore significato in cui rimanere può essere usato come transitivo, ovvero “Conservare, mantenere”, per cui non si segnala alcuna restrizione d’uso e si riporta un’unica citazione a corredo (cfr. GDLI § 29):
I clericali... non erano nemmeno un partito, giacché perdendo il predominio non ne avevano rimasta la coscienza.
Una lettrice, che ci scrive da Imola e che ha consultato il dizionario, commenta: “ma l’autore è... Alfredo Oriani!”, riferendosi evidentemente alle origini romagnole dello scrittore. Nel passo, tratto dalla Rivolta ideale (1908; in A. Oriani, Opera omnia, a cura di Benito Mussolini, Bologna, Cappelli, 1934-1943, vol. XIII, 1940, p. 77), il verbo in effetti può essere sostituito da conservare (“non ne avevano conservata la coscienza”), ma può essere interpretato anche con “non gliene era rimasta la coscienza”. Lo stesso Oriani usa anche altrove il verbo con valore transitivo ma in un contesto più “materialistico” analogo a quelli citati dai nostri lettori:
Ho rimasto quindici lire. Quindici lire! Perché ho dovuto darne quattro alla signora Veronica: pranzeremo da lei. (Alfredo Oriani, Olocausto, Milano [etc.], Sandron, 1902, p. 172)
Viste le origini dell’autore, la testimonianza rimanda all’area in cui l’uso è, come affermato dai nostri stessi lettori, tradizionale e vivo tuttora; difficile quindi trarne indicazioni sull’appartenenza o meno all’italiano comune. Consultando di nuovo il corpus di Google libri notiamo che, già negli anni in cui Oriani scriveva, l’uso era stato classificato come “provincialismo”:
Ho rimasto cinque libri. / Mi sono rimasti cinque libri
Il povero Antonio non aveva rimasto nè tetto nè ricovero. / Al povero Antonio non era rimasto nè tetto nè ricovero
(Luigi Falcucci, Provincialismi forlivesi, Forlì, L. Bordandini, 1901, p. 27; [nè: sic nel testo])
E ricordiamo che, oltre all’uso transitivo di rimanere per ‘lasciare’, Alfredo Panzini nella sua Guida alla grammatica italiana, citata più sopra, censurava anche l’impiego di ho rimasto per mi è/sono rimasto/i: “Non: ho rimasto pochi soldi, ma mi sono rimasti pochi soldi”.
Il “provincialismo” però non era da tutti avvertito come tale, anche in ambienti colti; si vedano questi passi riferibili alla prima metà del Novecento:
Fra essi il COPPOLA di cui abbiamo rimasto una serie di ricerche molto importanti sui derivati della santonina… (Luigi Sabbatani [Imola 1863-1928], Progressi della farmacologia in Italia in questi ultimi cinquant’anni, in Atti della Società italiana per il progresso delle scienze: quinta Riunione, a cura di Vincenzo Reina, Romualdo Pirotta, Giuseppe Folgheraiter, Gaetano Grisostomi, Roma, Società italiana per il progresso delle scienze, 1912, pp. 543-562: p. 556)
Dopo di allora ho fatto acquisto di oltre 1600 (milleseicento) strumenti ad arco, […] dei quali, facendo continue selezioni, ho rimasto un gruppo di 120 strumenti tutti in perfetto stato di conservazione e pronti alla prova. (Giuseppe Strocchi [Bologna 1855-Cotignola 1941], Liuteria: storia ed arte per istituti musicali, liutai e musicisti, Lugo, M. Cortesi, 1937, p. 245)
Comunque, come già visto trattando degli usi di area meridionale, a fine secolo le testimonianze sono presenti quasi esclusivamente nel parlato riportato, come in questi passi:
Mia mamma poveretta aveva messo insieme a forza di sacrifici cento lenzuola per il nostro corredo, non ne abbiamo rimasto uno. Tutto, la macchina da cucire, la mia fisarmonica la portarono via i tedeschi, tutto, tutto, le biciclette ce le han portate via i fascisti […]. (Pier Paolo D’Attorre, Maurizio Ridolfi, Ravenna e la Padania dalla Resistenza alla Repubblica, Ravenna, Longo, 1996, p. 39)
E ancora nei dialoghi, lo troviamo anche in anni a noi più vicini:
Lui [il padre] mi ha chiesto se avevo fame, io non lo sapevo ma ho risposto di sì, allora ha chiamato il cuoco. “Cosa abbiamo rimasto di buono?”. “C’è lo stufato di cardi e salsiccia di ieri sera, non è andato granché. Riscaldato il giorno dopo è anche migliore, va bene?” No, per me non andava bene, ma ho risposto con un cenno accondiscendente […]. (Franco Brighi [Forlì 1960; vive a Rimini], Il giorno in cui morì Alejandro Jodorowsky, Asola, Gilgamesh Edizioni, 2020 [e-book])
L’uso è registrato nei repertori che trattano la varietà di italiano locale; nel suo Italiano di Romagna: storia di usi e di parole (Bologna, CLUEB, 2010) Maria Valeria Miniati scrive, associando nella definizione il verbo a restare e avanzare:
rimanére vb 1 ‘restare, avanzare’, in costruzione trans. tipica del romagnolo: Ho rimasto solo 10 euro / Di tutto quel patrimonio che avevano, hanno rimasto due o tre poderi. / Domattina il cane te lo rimani tè (lo tieni, lo costudisci tu) che io devo andare via? (p. 344)
Significato un po’ diverso è testimoniato per Bologna in Parlare italiano a Bologna: parole e forme locali del lessico colloquiale (Sala Bolognese, A. Forni, 1985) di Fabio Foresti e Alberto Menarini, dove rimanere è usato transitivamente per “essere in credito di q.c.: rimango un mese di stipendio; Luigi rimane diecimila lire da me” (p. 124).
Gli esempi riportati in Foresti-Menarini sono forse interpretabili come “mi rimane (da avere/riscuotere) un mese di stipendio”, “a Luigi rimangono (da essere consegnate) da me 10.000 lire”, interpretazione che ricondurrebbe l’uso bolognese di rimanere a quello testimoniato per l’italiano di Romagna. È probabile che il fulcro intorno al quale si sono sviluppati questi valori di rimanere in Emilia-Romagna sia il verbo tradizionale avanzar/avanzèr (corrispondente all’italiano avanzare, usato come equivalente semantico di rimanere da Miniati) che nei dizionari dialettali viene immancabilmente “tradotto” (anche) con rimanere e restare. Si veda per esempio la voce avanzèr nel Dizionario bolognese-italiano, italiano-bolognese = dizionèri bulgnais-itagliàn, itagliàn-bulgnais (Bologna, Pendragon, 2009) di Luigi Lepri e Daniele Vitali, in cui si nota la sovrapponibilità di avanzare e rimanere in alcune espressioni idiomatiche comuni:
avanzèr (avànz) v. avanzare; rimanere; dover ricevere; – coli òs dla pulënt rimanere con un pugno di mosche; – ed stupén restarci di stucco; – pulé rimanere al verde; t al avànz! te lo scordi!; t’avànz dîś èuro da mé devo darti dieci euro; piutòst che – l é méi carpèr (prov.) meglio morire che essere creditori ǁ -èrsen v. pron. risparmiare, accumulare; lu-là zétt e chiêt al s n é avanzè quel tipo pian piano ha accumulato parecchi soldi
L’uso transitivo di avanzare riferito in particolare a somme di denaro come in Lepri-Vitali è testimoniato anche in GRADIT, che, nell’accezione di ‘avere in credito’ (“avanzare dieci euro da qualcuno”; cfr. rimanere in Foresti-Menarini) lo registra come voce dell’uso comune, mentre per ‘avere in più, avere risparmiato’ (“avanzare una piccola somma”; cfr. rimanere in Miniati) lo dà come voce di basso uso (per un approfondimento dell’uso transitivo di avanzare in area settentrionale, dove è particolarmente diffuso, si veda anche la risposta di Valentina Zenoni). È possibile che la sovrapposizione tra avanzare e rimanere abbia spinto rimanere verso l’uso transitivo nel senso di ‘conservare’ (it. “mi sono rimasti 10 euro” > it. loc. “ho avanzato 10 euro” > “ho rimasto 10 euro”).
Anche in questo caso si tratta di un uso limitato a una specifica area geografica, per il quale si consiglia una scelta consapevole, operata in base al livello di formalità e al contesto in cui avviene la comunicazione. È comunque vero che il verbo rimanere usato transitivamente per ‘conservare’ in area emiliano-romagnola risulta molto vitale e tuttora capace di testimoniare una forte identità culturale; in proposito ci pare particolarmente significativo il testo di Franco D’Emilio dal titolo In Romagna “ho rimasto” solo il fango pubblicato il 21/5/2023, in cui si afferma che «“ho rimasto” manifesta la capacità reattiva di ripartire, sollevarsi subito dalla rovina, anche con quel poco in salvo da tanta sventura».
Nota bibliografica:
Matilde Paoli
26 marzo 2025
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
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