Proponiamo al pubblico il testo che Giovanni Nencioni presentò in una conferenza tenuta a Firenze nel maggio 1982 all'interno di un corso sul tema "La lingua italiana in movimento" organizzato dall'Accademia della Crusca e poi pubblicato nei «Quaderni dell'Atlante Lessicale Toscano» (1 - 1983). Si tratta di uno scavo, a ritroso nel tempo, nella sua esperienza di parlante, alla ricerca di parole, locuzioni, modi di dire, usi linguistici consueti nella sua famiglia quando lui era bambino e ragazzo e poi gradualmente persi o sostituiti da nuove forme. Nencioni mostra con grande vivacità come sia possibile anche nell'arco di una vita, certo lunga e vissuta in un secolo di profonde e veloci trasformazioni, raccogliere elementi sufficienti a costruire una storia linguistica personale.
1. Quello di oggi, cari ascoltatori, è un incontro singolare: avete davanti a voi un vecchio, sia pure non ancora squarquoio o cascatoio, che si appresta a fare un confronto linguistico fra il suo presente e il suo passato. «Che c'è di speciale?» direte. Riflettete un momento: gli studiosi che lo hanno preceduto su questo scranno, prescindendo dal proprio stato anagrafico hanno attinto ai risultati di ricerche proprie ed altrui e presentato fenomeni obbiettivi e collettivi scientificamente elaborati: lui invece dovrà tenersi dentro gli argini del suo corso biografico e della sua esperienza personale, prendendo il sostantivo esperienza nel suo valore di prassi e di memoria della prassi, anche se l'attributo personale non gli vieti di escludere in essa individui e fatti con cui è venuto a contatto diretto e dei quali potrà fare testimonianza.
Chiarita la differenza, vi verrà spontanea la domanda: Che valore può avere una testimonianza così isolata se perfino il maestro di color che sanno sentenziava che una rondine non fa primavera? E come sarà possibile, in una operazione così soggettiva, scansare quella decantazione memoriale ed esistenziale e quella fisima puristica che portano diritto diritto alla laudatio temporis acti? Che questa, a dispetto del colloso pathos della memoria, può spulezzar via sotto la frusta del distacco critico, resta il problema che oggi si dice epistemologico e che non pretendo di risolvere su due piedi. Qui mi contenterò di aggirarlo, osservando: società e individuo sono, scientificamente, due entità problematiche. Se ammettiamo che siano solidali tra loro, che l'una insomma non stia senza l'altra, perché mai non ci sarà lecito vedere riflessa nell'individuo l'idea che ci siamo fatta della società, e riflessa nella società l'idea che ci siamo fatta dell'individuo? a patto, naturalmente, di non sdrucciolare nell'abuso illativo dell'ab uno (o ab una) disce omnes. Quindi, se colui che vi parla farà delle sortite nell'ambiente che lo circondava e lo circonda, gli siano tollerate.
A questo gioco di rimandi la storiografia tradizionale ci ha del resto abituati. Solo che lì l'individuo è un principe, un condottiero, uno statista, un fatale e, nel campo della lingua, un creatore di stile; un individuo insomma proiettato fuori di sé, a stampare più vasta orma. Nel caso nostro è una persona qualunque, che si è curata di notare i fatti linguistici, di prenderne coscienza. Ma l'esperimento che facciamo oggi ha per l'appunto lo scopo di mostrare come, attraverso la menoma consapevolezza del proprio comportamento linguistico, l'individuo possa sentirsi elemento fattivo e responsabile di una storia, perché le sue abitudini linguistiche sono in realtà delle scelte che lo associano o lo contrappongono al costume e alla cultura della sua società.
2. Immaginate dunque, a Firenze, a cavallo della prima guerra mondiale, un bambino figlio di piccoli borghesi in via di diventare medio-borghesi (uno dei quali si serviva dell'intelletto soprattutto come congegno computistico per sbarcare il lunario), rallevato in casa e diviso fra una casa dove sonavano soltanto le voci della famiglia, e la scuola elementare; privo di confronti linguistici che non fossero co i compagni di scuola, coi nonni e gli zii, con qualche amico dei genitori, con le donne di servizio, per lo più campagnole; privo anche dell'informazione che oggi diciamo convogliata dalle immagini e voci artificiali del cinema sonoro, della radio, della televisione. Un bambino addirittura bamboccio. Ignaro e selvatico, ma schietto: né sornione, né machione, né gestroso, un ficoso che spelluzzica, fa le boccucce e tutti dicono: «Che calìa!» Ma screanzato e piccoso sì, nonostante l'aspetto bofficione: quando metteva peso ritto, erano forbici fino in fondo. La nonna paterna lo spacciava come «ignorante», la mamma, che lo coccolava, riparava ogni volta nel dire che il bambino aveva le cheche e che era fatto così: che delle più piccole cose faceva tanti casimisdei. Il babbo gli rinfacciava la mania, il ripicco, concludendo sempre: «Questo figliolo non ha punto gnegnero. Andrà sempre in cerca di Frignuccio». E difatti era un diociliberi: una ne faceva e una ne pensava, le cavava di sottoterra. Ora gli saltava il grillo di stare alle smerie negli sparaventi e sotto una sizza che levava il pelo, o di strogolare fradicio mézzo nella molletta sotto un'acqua che Dio la mandava; ora, acquattato dietro la cantonata, beccava con la fionda quel randellone del figliolo del dirimpettaio, che era un fumino, o tirava di scancìo una gragnola di sassolini nella sua finestra; ora si fabbricava una rozza ma tonante polvere nera con salnitro, carbone e zolfo. «E un dicatti - faceva indispettita la nonna materna (quella che aveva conosciuto Collodi prima che scrivesse Pinocchio) -, è un dicatti che non c'è preso un coccolone, che non è successa una disgrazia. Ma che vi gira? Labbrate a quello Dio, botte dell'ottanta ci vorrebbero! Se fosse ai ferri miei, lo vedresti !» «Checchè - diceva la mamma, contraria alla pedagogia manesca -, checchè! Non è con le botte che i ragazzi metton giudizio». «Parole sante - ribadiva la nonna - ma non per le buone lane. Con quelle non c'è verso».
E davvero non c'era verso di fargli metter giudizio, né con le buono né con le cattive. A volte la buona lana sortiva di casa tutto pulito, e forse con le meglio intenzioni, ma tornava sudicio come un baston di pollaio. Mi par di vederlo: nero come il bracino, con sulla pelle una roccia alta un dito che ci voleva il sapone da cucina a portarla via, e col grembiule pieno di gore, che insieme al sapone ci voleva il ranno; quando non s'era fatto un sette nei calzoni (figuratevi) di fustagno o di rigatino, che gli diventavano subito ragnati, tanto li arrotava. Per non dire delle corse a rotta di collo, delle arrampicate, delle scalmane: eccotelo stanco rifinito, trafelato, coperto di vidaleschi, di pinzi, dì cocciòle. A vederlo conciato a quel modo, segnato come un ecceomo, anche la mamma gli appioppava una sfilza di titoli di cui brindellone e bracalone erano i più zuccherati. Ma poi, rimboccandosi le maniche : «Santa pazienza! Ovvia, rifacciamoci daccapo!».
Brindellone sì, bighellone mai, perché, bisogna rendergli giustizia, quel diociliberi a scuola ci andava, e ci andava spedito. Si levava a bruzzico per ripassare le poesie imparate a memoria e, una volta a cecce dietro il suo banco, stava zitto e attento. Non era uno che se la sbirbava, insomma, e non c'era bisogno di sfegatarsi a raccomandargli: «Portati bene!». E sì che a scuola quel vecchio maestro, che seminava frasconi striminzito nel suo sarrocchino, dava esercizi che erano supplizi: come «Ricopiate per intero cinque volte la coniugazione del verbo amare!». A casa poi, quando era il tempo di far le lezioni, avresti detto che un accidente senza requie come quello si sarebbe buttato a finirle intrafinefatta a costo di chissà che scerpelloni; invece no: stava a sizio ore e ore, chiotto chiotto, e lavorava di buzzo buono a farle perbene. Non poteva soffrire le libréttine, e neanche la calligrafia: tra le due ugge, tarabaralla! Pure, picchia e ripicchia riuscì a far di conto e a farsi leggere. Ma quel tiritessi, quel biribissaio dell'analisi logica e dell'analisi grammaticale, quelle due cose somiglianti e differenti, distinte e confuse, prima di ritrovarcisi dovette prendere un impegno d'onore con se stesso e vincere la tentazione di fare berlicche berlocche. Per fortuna ogni tanto in quel grigiume c'era una speratina di sole: una filastrocca, una poesia, un raccontino.
Come divertimenti, si contentava di poco. Balocchi non ne aveva certo a bizzeffe; per lo più si baloccava smontando i pochi che gli regalavano e, di nascosto, qualche orologio di casa, per scoprirne l'ingegno. Scoppiata la guerra, col babbo richiamato e mandato al fronte, la famiglia dovette tenersi a stecchetto, fare ammiccino, comprare la roba più vilia. Strinta la cintola (che prima del tesseramento era dimolto lente), ridotti tutti a bubbolare (la legna e il carbone erano cari assaettati) coi piedi e le mani marmati e gonfi di geloni e sotto gli occhi la trucia dei profughi che arrivavano gnudi bruchi, il bambino senza gnegnero e con l'argento vivo capì che bisognava far trentun per forza e rinunciare anche all'uzzolo delle mattane e delle sguerguenze. Cose da non comportare non ne faceva più e se la mamma stanca gli diceva: «Nini, che mi fai un piacere?», non faceva il piecciocci, il piaggellone, ma bordava; se, preoccupata, gli faceva un pappiè, magari ingiusto, non rifiatava, non rispondeva picche; lo pigliava in santa pace. Quando non si sentiva troppo per la quale e era balogio, non ci pensava due volte a prendere l'olio di fegato di merluzzo e, in caso di necessità, il maledetto olio di ricino. La promessa di un semelle, di un chifelle, di un pan di ramerino bastava a fargli trangugiare il peggio beverone. Insomma, rinsavito dalla guerra, il birbante che le levava dalle mani, che ti faceva venir la voglia di sorbottarlo, s'era fatto un omino.
Non credo che ci sia bisogno di tirare in lungo questo stucchevole quadretto nomenclatorio di ottocentesca maniera, perché tutti comprendano che quel bambino ero io e che molte delle parole e modi di dire che ho sottolineato con la voce appartenevano - direbbe un linguista - al codice di cui io ero il naturale destinatario.
3. Quelle parole e quei modi di dire erano usati nella mia famiglia non solo con spontaneità, ma con la convinzione che fossero italiani; di un italiano, va bene, casalingo, ma pur sempre italiano. Il grande confronto e la grande compenetrazione nazionali, prodotti dalle forti migrazioni interne e dai mass-media, non erano ancora cominciati, e ogni regione viveva in un certo suo isolamento e quindi in una sua individua assolutezza; la quale più che altrove era forte in Toscana, dove per tra-dizione ci si riteneva superiori nella lingua a tutti gli altri italiani, non solo di fatto ma anche di diritto, e quindi autorizzati a pretendere, o a supporre, che l'uso toscano avesse forza nazionale. Mancavano, anche nelle persone colte, il senso di relatività linguistica che oggi si è insinuato in noi e il senso dello stretto rapporto che corre tra lingua e cultura. L'astrattezza della teoria manzoniana aveva certamente contribuito a quel dogmatismo, che negli ambienti letterati era degenerato in una specie di «accademia toscana» (Pancrazi).
Quando dico relatività, intendo non solo quella areale ma anche quella cronologica. Il salto delle generazioni non era allora avvertito in modo così brusco come oggi. Che i figli avessero o addirittura cercassero un linguaggio diverso da quello dei padri, non passava per la mente né ai genitori né ai professori della mia fanciullezza. Oggi, a parte le secessioni gergali, coscientemente polemiche, io non ardirei usare le espressioni che ho citate prima se non con fiorentini anziani, oppure per ironico assaggio, dubitando di esser compreso totalmente dai concittadini giovani. Userei invece con meno esitazione parole della cucina, legate ad un aspetto assai tenace del costume: ad esempio pattona per polenta di farina di castagne, migliaccio nel senso di castagnaccio, farina dolce per farina di castagne contrapposta alla farina gialla o di granturco, i cenci, quegli antichi frugalissimi dolci di pasta all'uovo fritta e inzuccherata, che seguitano da tanti anni a ingolosirmi tra carnevale e quaresima, i fagioli coll'occhio, che da bambino mi rifiutavo di mangiare perché credevo mi guardassero, il pinzimonio e il lesso, che avrei conosciuto come bollit solo da adulto, uscendo da Firenze. Eppoi il verbo massaio rigovernare; ma non la rigorosa, almeno in famiglia, distinzione tra colazione (o colezione), desinare e cena, tra far colazione, desinare e cenare, mentre il pranzo era qualcosa di sontuoso e solenne che si riserbava al desinare delle grandi occasioni, in cui si faceva rialto, ci s'impippiava, e venivano gli stranguglioni. «Che degnezza!» diceva la mia nonna collodiana, cuoca esperta, quando assaggiava una pietanza, non certo malvagia, preparata da lei per un pranzo; e poi «S'abbellisca!», quando la offriva all'ospite. Le caste e severe orecchie del padre Cesari e del padre Giuliani sarebbero andate in brodo di giuggiole.
La censura che io m'infliggo, e che m'induce ormai a non usare, fuori di Firenze, codesto, fo invece di fàccio, punto invece di nessuno, e a sostituire padre a babbo (non sono mai riuscito ad arrivare a papà), figlio a figliolo, sabbia a rena, scopa a granata, formaggio a cacio, cuscino a guanciale ecc., e nella stessa Firenze stringa ad aghetto, maglia a camiciola, porta a uscio, ditale ad anello (tanto più che i dolci infantili detti anelli di farina dolce, che improvvisavamo facendo abbrustolire nella brace del veggio o della cecia un ditale riempito di farina di castagne, sono spariti insieme con gli scaldini), tale censura, dicevo, abbrevia la diacronia che sta fra me e i più giovani, contribuendo al livellamento linguistico che è in corso e che è un aspetto della crescente fusione sociale. Abbrevia non solo la diacronia attiva, ma anche quella ricettiva. Insomma, così facendo, certe parole, certe locuzioni si rincantucciano dentro di noi e a snidarvele non basta più la memoria volontaria; occorre la memoria involontaria o provocata, cui ho fatto largo ricorso nel ricomporre il povero vocabolario che vi presento.
La mia diacronia è quindi bifocale: ha un fuoco locale, la Firenze odierna, e un fuoco nazionale, l'odierno italiano comune, per quanto esso sia individuabile e per quanto sia distinguibile, nella «competenza» dei parlanti, dalla tradizione letteraria. Distinzione più difficile per me fiorentino che per altri, come parlante un dialetto particolare che credo di poter chiamare sopradialetto, giacché nelle strutture essenziali coincide con la lingua letteraria ed ha avuto con lei una compenetrazione plurisecolare. Sarebbe infatti possibile che, sul piano del ricordo letterario, io mi trovassi in puntuale coincidenza con un parlante assai più giovane e fornito, sul piano della lingua corrente, di uno strumento in parte diverso dal mio; coincidenza che per lui, specie se non toscano, potrebbe essere ricettiva, per me invece attiva. Chiariamo con un esempio: se io, messo il naso fuori dell'uscio o (più nazionalmente) della porta di casa, dicessi: «Fa troppo freddo. Prenderò il cappotto più grave», sarei meglio inteso da un giovane toscano, per cui grave è, in senso sia proprio che figurato, sinonimo di pesante e, benché voce dotta, largamente entrato nell'uso, piuttosto che da un veneziano o da un milanese, il dialetto dei quali è più nettamente separato dalla lingua letteraria. Così modi di dire come alto come un soldo di cacio, piovere il cacio sui maccheroni devono venire a patti col vocabolario veneziano, milanese, bolognese, che come voce dialettale (e regionale e nazionale) conosce formaggio; il che non esclude che quei modi di dire siano compresi anche con la parola toscana, per la circolazione nazionale di cui essi hanno beneficiato in grazia del prestigio del sopradialetto di appartenenza, e dell'uso letterario. C'è inoltre da osservare che il modo di dire, come sintagma stereotipato, tende a sopravvivere per inerzia memoriale anche quando i suoi elementi singoli siano usciti dall'uso corrente o quando il loro nesso sintattico non sia vigente nel sistema funzionale della lingua, quando cioè si abbia un caso di syntaxe figée (come in raso terra, terra terra, per lo meno, per lo mezzo ecc.). Attenuandosi, ad esempio, nella stessa Toscana la frequenza di uscio a favore del nazionale porta, è da pensare che circoleranno a lungo, vivi e comprensibili, modi di dire e proverbi come prender l'uscio, a uscio e bottega, tra l'uscio e il muro, avere il malanno e l'uscio addosso, il peggio passo è quello dell'uscio, non si trova a tutti gli usci, magro come un uscio, piallata come un uscio. E quando anche in Toscana (se è lecito far previsioni in questa materia) formaggio, che vi sta prendendo piede sotto la pressione del nord, fuori dei sintagmi stereotipati avrà soppiantato cacio, possiamo scommettere che sarà sempre vivo e ben comprensibile il modo esser pane e cacio ('essere molto amici').
4. Ma, senz'accorgermene, sto uscendo dal seminato. (Voi sentite che mi vien fatto di usare locuzioni rurali, cioè di un mondo che, almeno in Toscana, sta scomparendo e a cui tuttavia la mia memoria reale e verbale resta istintivamente attaccata). Rientro dunque... nel seminato dicendo che la mia diacronia non riguarda il solo vocabolario familiare, intriso di elementi vernacolari, ma anche altri aspetti della lingua, non meno, e talvolta più, legati al costume, e perfino certe strutture funzionali del sistema linguistico.
Anzitutto i pronomi allocutivi, cioè gl'indici del rapporto tra gl'interlocutori del dialogo. Dico di passata che anche nei pronomi non allocutivi io noto una differenza tra il mio uso e quello dei giovani, specie non toscani: sento usare dai parlanti esso, essa, essi, esse, dove io uso sempre lui, lei, loro anche per esseri inanimati (come, in tutt'altra categoria, quella delle congiunzioni, sento usare poiché e affinché, mentre io non dispongo che di perché). Segno che la fonte del mio discorso è più parlata e materna, la loro è più scritta e più scolastica, quindi più articolata, più ricca. Ma torniamo ai pronomi allocutivi.
Io davo del Lei, pronome di rispetto, ai miei nonni e, cosa oggi incredibile, alle mie compagne delle classi miste del liceo. E non perché le mie compagne si dessero l'aria della regina Taitù o della signora Tummistufi, o paressero la regina Ester appiè d'un fico (come diceva mia madre), ma perché questa era allora la norma nel liceo «Galileo» di Firenze e, ovviamente, non soltanto lì. Compagne alle quali, se ora le incontro, naturalmente molto matronali anche se ripicchiate, non posso che dare del tu. Perché poi? Per il fatto che rimpiango e quasi mi vergogno, oggi, di non aver goduto della loro confidenza e amicizia, e contro l'innaturalezza del nostro rapporto di allora si ribella un nuovo costume al quale anche noi vecchi abbiamo aderito? Questa interpretazione è confermata dalla ormai inevitabile asimmetria del mio sistema pronominale. Mi spiego: facendo lezione o tenendo una conferenza, io do del Lei al singolo studente o ascoltatore, ma al gruppo nel suo insieme mi rivolgo col voi, non col Loro, come invece facevo agli inizi della mia carriera d'insegnante. Quando, alcuni mesi fa, assistendo nella Scuola Normale di Pisa al seminario di un collega, più giovane ma più accademico di me, lo sentivo rivolgersi ai pochi allievi con tanto di Loro, provavo l'impressione di scostante, di stantio e anche di buffo che a me bambino faceva il pronome espanso lorsignori usato dalla Fata dai capelli turchini nell'apostrofare solennemente i tre luminari della medicina chiamati al capezzale di Pinocchio: «Vorrei sapere da lorsignori ..., vorrei sapere da lorsignori, se questo disgraziato burattino sia vivo o morto» (cap. XVI). Tramontato il lorsignori, evidentemente lo ha soppiantato «nel mio sentimento linguistico», per dirla con Benvenuto Terracini, il Loro, ristabilendo le distanze.
Mi potreste obbiettare: «Distingui! Una cosa è, linguisticamente, seguitare a usar parole o locuzioni che nessuno usa più, e un'altra è scegliere fra due forme ancora vigenti; una cosa è il fatto, notato da un osservatore esperto come Piero Fiorelli, che tu usi naturalmente la forma dittongata cuopre, ormai sostituita da copre, e un'altra che tu preferisca la forma allocutiva voi a un Loro non ancora uscito di circolazione. Nel primo caso c'è una diacronia oggettiva, da pigliarsi con le molle, nel secondo c'è uno sfumato atteggiamento soggettivo». Rispondo: Soggettivo sì, ma non singolo, perché, facendo la scelta, io m'inserisco nell'atteggiamento che va prevalendo nella collettività più giovane e sta modificando le strutture e le funzioni del nostro sistema pronominale. Non per nulla c'è stato lo strutturalismo a insegnarci che la lingua è un insieme di rapporti, e che dove un punto del sistema cede, tende a formarsi un equilibrio nuovo. Così, nel sistema dei pronomi allocutivi, abbiamo i pronomi fondamentali tu per il singolare e voi per il plurale, quelli di cortesia, rispetto, cerimonia Lei o Ella e Loro, le locuzioni pronominali la Signoria Vostra, Vostra Signoria e simili, l'uso pronominale del nome («I miei ascoltatori penseranno ...» invece di «Voi penserete.», insomma tutti quegli elementi di natura diversa che, per la facoltà di trasposizione che anima la lingua, possono assolvere lo stesso ufficio. Ma quegli elementi si correlano tra loro simmetricamente e secondo livelli specifici: il singolare si oppone al plurale, al pronome abituale si sopraordina il pronome di cortesia e quello di cerimonia, all'allocutivo diretto si alterna quello indiretto o dissimulato. Rispondenze e gerarchie che, come ognun vede, non sono soltanto quantitative, ma sociali. Nel sistema pronominale si riflette insomma quella microsociologia, quella antropologia della vita quotidiana che governa la ritualità delle nostre relazioni conversative. In conclusione, se io mi sento di usare a proposito il tu o il Lei trattando con una singola persona, ma solo il voi rivolgendomi al gruppo, vengo a produrre una asimmetria nel sistema e un impoverimento nella gamma sociologica del registro plurale, che dovrebbero essere in qualche modo risarciti. In che modo? I giovani dell'università ci dànno un'indicazione salomonica, operando un taglio anche sul piano del singolare, cioè riducendolo all'unica forma tu, secondati dai nuovi docenti. Ma nella scuola secondaria? ma in altri ambienti di società o di lavoro, dove più di quanto non si creda si tramanda un costume conservatore e gerarchico? Bisogna guardarsi dall'agguagliare il vario mondo all'angolino in cui viviamo, specie se l'angolino è anticonformista e innovatore.
5. Connessa alla allocuzione pronominale è la allocuzione nominale. Cominciamo da quella generica. (Noto di passata che io continuo ad usare spontaneamente il verbo cominciare, mentre lo va sostituendo iniziare, e sento i nostri studenti dire, con non minore spontaneità della mia, «Ho iniziato a scrivere la tesi», cosa che ai puristi non sarebbe garbata). Cominciamo dunque dalla allocuzione nominale generica. Una spia verbale della scarsa tradizione democratica in Italia era, cinquant'anni fa, la mancanza di un corrispondente italiano del pandemio monsieur! francese; alloquire (per dir così) uno sconosciuto col titolo di signore! poteva incontrare remore nell'allocutore e suscitare sospetto o irritazione nell'alloquito. E non essendovi, nel rapporto sociale, un approccio egualitario, era difficile trovare lì per lì un appellativo conveniente ad un uomo che per età o per aspetto paresse di rango inferiore. Alla vaga scaletta sociale non corrispondeva una neppur vaga scaletta verbale. Nell'imbarazzo spesso si faceva a meno dell'appellativo nominale e si ricorreva a forme interiettive e in malo modo surrogatorie: «Oh Lei! Senta Lei! Scusi! Per favore» Riusciva invece più facile rivolgersi ad una donna con l'appellativo di signora, maggiore facilità che vige ancor oggi, tanto che basta sostare in una bottega di generi alimentari o in un mercatino per cogliere un fitto incrociarsi di signora! ... signora! tra le stesse massaie che fanno la spesa; frequenza non altrettanto alta, per l'appellativo signore! , in un ambiente di uomini. C'era semmai verso le donne l'imbarazzo del bivio signora/signorina, risolvibile col fulmineo adocchiamento del dito nuziale o, in mancanza, con una intuizione aleatoria, al rischio, assai maggiore che non oggi, di rettifica da parte dell'alloquita.
Quando conoscevamo il nome proprio (fosse il prenome o il cognome), la difficoltà era superata dal fatto che il sistema ci dava la possibilità, nell'escursione dell'etichetta, di una soluzione intermedia articolata: premettendo signor o signora al prenome o al cognome avevamo il grado alto, con gradazione interna, del livello intermedio; premettendo sor o sora avevamo il grado basso dello stesso livello.
Passiamo all'allocuzione professionale. Negli anni, non pochi, che ho consumato negli uffici dello Stato gl'impiegati maschi si distinguevano in dottori e no, le impiegate, fossero o non fossero laureate, in signore e signorine. E prima, a scuola, io avevo sempre chiamato la professoressa signora o signorina, riservando il vocativo professionale al solo professore. Ancor oggi mi riesce difficile sormontare questa differenza, unificando nel senso dell'appellativo professionale. Se potessi scegliere astrattamente un comportamento, preferirei chiamare anche gli uomini col semplice signore, non fosse che per sottrarli, in pubblico, ad una titolatura martellante, che può eccitare la vanità ma viola la riservatezza sociale. Per me, poi, c'è un altro imbarazzo: quello del genere del nome professionale, quando la lingua consente di distinguerlo: dottoressa o dottore? direttrice o direttore? presidentessa o presidente? signora presidentessa o signor presidente? senatore o senatrice? avvocatessa o avvocato? la giornalista o il giornalista? Vedo che ormai, non solo nell'allocuzione, ma anche nelle presentazioni e nelle citazioni fatte alla radio e alla televisione, il maschile è generalmente preferito; e non per maschilismo trasposto, ma per la volontà di abolire la distinzione di sesso in una funzione che col sesso, e con le discriminazioni che esso tuttora implica, non deve avere a che fare. Non sono soltanto i linguaioli, credete, a sentir crescere l'erba nell'orto della lingua; sono anche i parlanti comuni, spesso assai sensibili ai valori comportamentali e alle implicazioni sociali delle forme linguistiche.
Ed eccoci alla allocuzione nominale propria. Da ragazzo, e a tutt'oggi, io chiamavo e chiamo col prenome i parenti e gli amici intimi, compresi in loro i più cari compagni di scuola; i compagni di scuola diciamo marginali, i conoscenti, gli amici non intimi, col cognome. Mi dicono che nelle scuole, nelle caserme, negli uffici, nelle fabbriche l'appellativo di uso generale è il cognome, mantenuto da una tradizione burocratica; ma che anche lì tra i componenti di gruppi particolari, legati da rapporti più stretti, s'impone il prenome. Nell'università noto che, dentro un gruppo di giovani che si mettono a lavorare insieme, il prenome sostituisce ben presto il cognome, e anche il professore giovane si conforma, arrivando a dare e accettare il tu dagli allievi. In tal caso lo sporadico ritorno al cognome, magari pedantescamente preceduto dall'articolo, è variante ironica. E, a proposito dell'articolo, ho notato tra i giovani il diffondersi del prenome articolato (il Mario, il Berto), evidentemente penetrato dal nord, che però mi sembra sentito come forma nuova e quindi usato con inflessione enfatica. E osservo da tempo una certa predilezione, fra toscani che amano parlare in modo più sorvegliato e distinto, per il prenome femminile non articolato, Maria di contro all'uso popolare la Maria. Ma c'è una novità che mi fa più impressione: il citare (non il chiamare, dove interviene il fattore deittico), il citare una donna col cognome non articolato, mentre un uso inveterato tendeva a mantenere ferma la distinzione di genere del cognome mediante l'articolo femminile, pur accettando la soppressione dell'articolo maschile. Ecco forse un caso di tendenza al conguaglio in una struttura squilibrata. Ma torniamo all'uso del prenome invece del cognome, per rilevare onestamente che, se l'uso del prenome può apparire, ed essere, segno di una socializzazione più intensa, c'è il rovescio della medaglia: può anche costituire un modo di chiusura del gruppo verso l'esterno, e comunque la tendenza spontanea dei suoi membri a proiettare i prenomi all'esterno produce, in chi è fuori del gruppo, difficoltà di identificazione e spesso anche equivoci. A me non di rado capita, appunto per la spontaneità e per la scarsa duttilità di comportamento dei giovani, di dover chiedere generalità più complete: «Rosanna ... Ma chi? Cristina ... Ma quale?».
Abbandonando il tema dei mezzi allocutivi, coi quali si apre e si mantiene il contatto fra i dialoganti, è opportuno accennare alle formule di congedo. Oggi è divenuto di uso sopra regionale il confidenziale ciao (cioè «schiavo» passato attraverso il veneziano), formula non solo di congedo ma generalmente di saluto, come il colto e insieme confidenziale salve. Il rapporto più rispettoso e sostenuto dispone di arrivederci, arrivederla. L'antico addio è rimasto a esprimere un commiato sempre confidenziale, ma immalinconito da un affettuoso rammarico per il distacco da persona cara. È dunque una forma che i linguisti direbbero marcata, cioè di uso più limitato e più specifico. Ho tuttavia osservato che in caso di commiato di gruppo, precisamente di commiato gridato e insistito, la parola addio viene preferita come struttura foneticamente più adatta e perde ogni inflessione malinconica. Orbene: devo confessare che qui la mia diacronia mostra tutte le corde: non mi è mai venuto fatto di pronunciare la parola ciao e nel commiato confidenziale (e anche come formula generale di saluto) continuo ad usare addio, che, essendo per me (eccetto qualche sporadico e ironico salve) unica, non è marcata, cioè non ha necessariamente una inflessione di rammarico. È questo uno dei tratti più arcaici del mio idioletto fiorentino, non più condiviso dai miei familiari. Al quale tratto, per esaurire il tema dei saluti, vorrei affiancarne un altro, di carattere insieme cronologico e areale: non ho mai usato il saluto buondì (né la parola dì, sia in unione libera che in altre unioni bloccate, quali mezzodì, oggidì; parola che a Firenze è rimasta soltanto in formule o proverbi: il buon dì si vede dal mattino); né ho mai usato buon pomeriggio, ma sempre buona sera, perché la parola pomeriggio manca al mio vocabolario spontaneo, che assorbe la nozione nel più largo e perciò ambiguo sera. E non c'è migliore prova dell'appartenenza di una parola al vocabolario spontaneo che l'essere essa presente in un sintagma abituale: ad esempio, per me è abituale dopo mangiato e non dopo pranzo, per il restrittivo valore che pranzo ha per un vecchio fiorentino, come ho accennato prima. A proposito del primo elemento di queste formule di saluto, voglio aggiungere che i miei nonni dicevano talvolta felice notte, io ho sempre detto, al pari dei miei genitori, buona notte; tra le quali due formule sento correre una frontiera più vasta.
6. Un aspetto significativo dell'antropologia e della ritualità che caratterizzavano il mondo dei miei anni verdi erano i tabù, che, non illudiamoci, continuano ad esistere, seppure diversi, anche nel mondo che si vanta spregiudicato: sono censure volta a volta sessuali, religiose, superstiziose, politiche, ideologiche. Alberto Moravia ha detto acutamente che ai tempi della sua giovinezza c'era il pudore del sesso, non quello del cuore; e che oggi, al contrario, manca il pudore del sesso e impera quello del cuore. Ed è vero: me ragazzo, il sesso veniva intravisto attraverso il torbido velo della donna fatale, e le canzonette sentimentali imperversavano; ma ragion voleva (e faceva) che sopra quello struggimento dolceamaro si librasse italianamente la stella della mamma, purificatrice di tutte le impurità, rasciugatrice di tutte le lacrime. Anche i giornali per ragazzi, dal Corriere dei piccoli e dal Giornalino della domenica ai più modesti, e i primi fumetti, non puntavano sul violento, sul truculento, sul seminudo, e il loro sentimentalismo e perbenismo erano spesso riscattati dall'ironia (si pensi al signor Bonaventura di Sergio Tofano o all'americano Fortunello). In casa il sesso era rimosso del tutto, sia dal comportamento che dal linguaggio; e, salvo qualche sfondone che il babbo, per il fatto di essere un uomo, si permetteva in momenti di irritazione, le parolacce, se intese come tali, erano evitate in ossequio al principio di Giovenale che maxima debetur puero reverentia. Ho detto «se intese come tali», perché accadeva che le donne di casa sciorinassero giochi di parole e motti di tradizione popolare decisamente equivoci, dei quali però non percepivano il vero significato (come ho potuto constatare per mia madre). Figuriamoci che, a offendere il pudore vittoriano perdurante nella educazione borghese, l'arditismo e il fascismo scagliarono il motto me ne frego, che oggi farebbe l'effetto di una cartuccia caricata a salve.
L'esercizio del pudore e il controllo rigoroso del proprio comportamento cooperavano col sistema sociale, oltre che ad una severa riduzione del vocabolario (anche le funzioni fisiologiche femminili venivano taciute), a una precisa qualificazione dei valori semantici. La signora, nel senso di donna maritata, era ben distinta dalla signorina, che nella famiglia occupava un rango inferiore. Oggi la mera distinzione nominale comincia a dar fastidio a molte donne. La parola fidanzata o fidanzato, schifata da molti giovani contestatori, era usata con un preciso senso sociale e giuridico, del quale mancano gli americaneggianti sostituti odierni ragazzo, ragazza. L'unione libera, che oggi si vale del neutrale compagno, compagna, allora era gravata da termini come amante, amico, amica, metresse, il primo dei quali poteva però avere accezione passionale, polemica e persino eroica. Ecco un altro delicato settore del vocabolario messo in crisi dal mutamento del costume! Ma mentre si usavano parole pesanti per qualificare le deroghe all'unione legittima e all'ordine familiare (basti pensare al feroce spreco di bastardo), nella condanna del malcostume femminile (di quello maschile io ragazzo non ho mai sentito parlare) si ricorreva all'eufemismo per non offendere le orecchie dei ragazzi e delle donne: il termine prostituta, e quel puttana che oggi soddisfa le bocche di uomini e di donne, io non li ho mai uditi in casa mia, né in case affini alla mia, e neppure, a maggior ragione, parole più triviali. Udivo di tanto in tanto (sottolineo che la mia testimonianza si limita alla mia cerchia, perciò bisogna andar cauti nelle illazioni sociologiche) il modo allusivo una di quelle o il termine mondana o il francesismo cocotte, con le gradazioni «cocotte di alto, cocotte di basso bordo»; e sciantosa, divètta, ballerina erano spesso i loro impropri sostituti eufemistici. Mi sembra inoltre che la condanna contenuta in quegli epiteti, specie i più popolari, si appuntasse soprattutto sull'aspetto morale del malcostume, mentre oggi, in clima di libertà sessuale, si appunta sull'aspetto professionale o su eccessi inaccettabili. È un caso di mutamento dei significati nel permanere dei significanti.
Ricorreva invece, a casa mia, l'espressione fare all'amore nel senso di conversare in famiglia tra fidanzati, che allora aveva; espressione che oggi si ritira anche dagli ambienti provinciali e paesani per la concorrenza nazionale di fare l'amore con senso sanamente fisiologico. La parola vergine, poi, era rigorosamente ristretta al linguaggio liturgico e noi ragazzi, parlando con le ragazze, non avevamo bisogno di usarla, non essendo ancora cominciata l'educazione e la sperimentazione sessuale. Ci pareva spinta, e non pronunciabile davanti a donne, anche la locuzione metaforica rifarsi una verginità. In famiglia, quando i grandi si impegnavano in giudizi ginecologico-morali su qualche fanciulla, dicevano: «Vi giuro che è ancora come mamma la fece».
Ovviamente i maschiacci del tempo mio, per apparire veramente maschi, sfoggiavano tra loro un gergo crudamente sessuale, si raccontavano barzellette sconce, cantavano canzonacce e, come i maschi di tutti i tempi, si credevano in dovere di rasentare l'abbiezione. In che modo parlassero tra loro, su certi argomenti, le femmine, cioè le nostre compagne di scuola, quando sbattolavano strette a conciliabolo (e ce n'era qualcuna spepera o, come mia madre diceva, schiribillante), poco sapevamo. Supponevamo, comunque, che il loro linguaggio non fosse indecente o equivoco come il nostro. Altrimenti, in un costume in cui la distanza tra i sessi tendeva a contrapporre schematicamente le Beatrici alle Frini, la nostra delusione sarebbe stata insanabile.
7. Ho già detto che i modi di dire, come sintagmi stereotipati, tendono a sopravvivere per inerzia memoriale anche alla morte dei singoli termini che li compongono. Ora vorrei mostrare che tendono a perpetuarsi anche oltre l'estinzione dei loro riferimenti, dei loro realia.
Ricordo di aver visto, da bambino, i centesimi di lira ancora in corso. Non solo me ne regalava la nonna paterna, dal nobile nome mazziniano di Giustizia, ma me li guadagnavo io stesso, d'estate, col sudore della mia fronte. E come? Correndo ad acchiappare lucciole, che, imprigionate sotto un bicchiere rovesciato sul marmo del comodino quando andavo a letto, nottetempo producevano ognuna un centesimo e misteriosamente sparivano. Al mattino, invece delle lucciole trovavo sotto il bicchiere le monetine di rame, che potevo mettere nel salvadanaio.
Correndo la moneta, era anche corrente il modo di dire non vale un centesimo, oppure non vale un duino (la moneta da due centesimi), poi mutati, con la progressiva svalutazione della moneta (mi faceva notare Fiorelli), in non vale un soldo, non vale una lira; ma più in là non siamo andati, e c'è ancora chi (io sono tra quelli) insiste a dire non vale un centesimo. Del resto, se si consulta un buon vocabolario sotto le voci centesimo, soldo, lira, si vedrà che la maggior parte dei modi di dire monetari è formata con le prime due parole; segno della stabilità dei sintagmi fraseologici piuttosto che di quella della nostra moneta.
Tengono ancora duro in me i modi formati con misure di peso o di lunghezza ormai uscite (con l'eccezione di risma per la carta) dal sistema metrico e ponderale ufficialmente ammesso. Libbra, oncia, piede, braccio, palmo, dito ricorrono tuttora nella mia fraseologia, ma non li sento quasi più in quella dei nostri giovani, almeno dei cittadini. Ai giovani invece che provengono dalla campagna, specialmente ai pendolari, il contatto col mondo rustico dà il gusto di conservare, per reazione al conformismo della città, il capovolto blasone di un mondo arcaico. Eccoli dunque a sfoderare, con aperta compiacenza, il tempo che s'è messo a dolco, il tempo che fa culaia, il cielo che rogna, il cielo a pecorelle, modi non più di loro ma al più dei loro genitori; e anche quei motti e quei proverbi (soprattutto meteorologici) che sono legati al ciclo della vita agricola e conservano l'esperienza di un costume, almeno in Toscana, morente. Voglio elencarvi qui, come documento etnologico, quelli che anch'io seguito ad usare senza intenzione, spontaneamente: menar o tirar l'acqua al proprio mulino, essere l'ultima ruota del carro, chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, comprare la frusta prima del cavallo, buttarsi sull'imbraca (anche questo di riferimento equino), uscire dal seminato, darsi la zappa sui piedi, mettere il carro innanzi ai buoi, salvare capra e cavoli, fare d'ogni erba un fascio, tirar sassi in piccionaia, sudicio come un baston di pollaio, menare il can per l'aia, can da pagliaio, cercare un ago nel pagliaio, mangiare a quattro palmenti ecc. Alcuni sopravvivono senza essere più compresi nella loro motivazione, altri sono trasposti in termini più moderni: essere il fanale di coda. E la modernizzazione ha investito altre locuzioni, non rustiche: ad esempio, dove si diceva a briglia sciolta oggi si dice a ruota libera; invece di correre a più non posso e (in senso metaforico) andare al galoppo, si è poi detto, sempre metaforicamente, a tutto vapore, a tutto gas, in quarta, in presa diretta. Di questi modi più moderni io presi ad usare, se ben ricordo, a tutto vapore.
Ho elencato dei modi di dire, non dei proverbi. Il proverbio, contenendo una massima di vita, è ideologicamente impegnativo; perciò mi sarebbe impossibile pronunciare fuor d'ironia un proverbio che pur mi è familiare ed anche simpatico, come donne e buoi dei paesi tuoi.
Mostrano più persistenza - almeno nel mio ambiente - alcuni modi connessi alla favolistica o ai Vangeli, o a quel tanto dei Vangeli che è passato nella conoscenza popolare. L'uva è acerba, farsi la parte del leone, essere una volpe e simili sono tuttora vivi anche tra i giovani; sopravvivono invece tra persone anziane o mature porgere l'altra guancia, fare da Marta e da Maddalena, seminare zizzania, essere come Cristo in croce, come Cristo fra i due ladroni, essere un calvario, essere una via crucis, la moltiplicazione dei pani.
«Non dorme, contraffà i ciechi», diceva la mia nonna collodiana, senza sapere che Vincenzo Borghini, in pieno Cinquecento, aveva osservato che il verbo imitare, che allora prendeva piede, era parola dei dotti, mentre il verbo del popolo fiorentino era contraffare. Diceva anche, la mia nonna, ufizio (con una sola effe), spera per specchio, all'erta per 'in gamba' (un giovane all'erta); e chiamava fottuttìo un factotum borioso. Mia mamma, donna di temperamento, bollava come all'acqua di rose, a bagno Maria i caratteri inconsistenti o tiepidi, ma annusava l'acqua antisterica e l'aceto dei sette ladri, che rianimavano dai disgusti e dai deliqui, e prendeva un legno anziché una carrozza. Cito queste ultime parole, tornando dalla campagna in città, perché stanno nella mia memoria come il montaliano topo d'avorio nella borsetta di Dora Markus.
Non la prima guerra mondiale, che ci serrò in quella morsa le cui ganasce erano la nostra stentata realtà casalinga e il fronte; non il fascismo, che candì di una terminologia effimera le pagine dei giornali e la nostra vita quotidiana, riuscirono a cambiare notevolmente l'uso linguistico mio e delle persone con cui, in ragione della mia età e del mio lavoro, venivo in contatto. Del tempo fascista mi accompagnano, ad esempio, pochi relitti: il senso dispregiativo di borghese, camerata e gerarca in accezione negativamente politica, balilla, squadra e squadrismo, il modulo marcia su..., il concetto persecutorio di angolino (ripulire gli angolini), battaglia e tutta la sua costellazione militare trasposta nella vita civile e ormai passata al linguaggio sindacale, naturalmente la Causa col C maiuscolo, l'uso trito della gran parola rivoluzione (già iscritta nel piano nobile della mia memoria, insieme col ça ira carducciano, dal mio indimenticabile professore di ginnasio agli Scolopi Alessandro Francini Bruni), l'autarchia economica, l'escogitazione non-belligeranza in luogo dell'imbelle neutralità, la littorina delle Ferrovie dello Stato, l'ormai innocuo dopolavoro. Un contributo terminologico più specifico è indubbiamente venuto da due ideologie di cui il fascismo aveva cercato di tenere all'oscuro i giovani cresciuti sotto i suoi labari: il marxismo e la psicanalisi; contributo del quale si vale quasi inevitabilmente anche chi non le professa, perciò sfocando i significati tecnici. Il caso più evidente è quello del termine psicanalitico complesso, che io non ricordo di aver usato da giovane. Dicevo allora senso d'inferiorità, che era cosa assai meno impegnativa.
Ma un arricchimento lessicale per afflusso di oggetti o concetti nuovi non costituisce di per sé un mutamento qualitativo della lingua. Indubbiamente la mia lingua scritta ha acquistato via via tecnicismi indispensabili (o così ritenuti) al mio lavoro professionale; eppure non vi ho avvertito un radicale cambiamento da quella che era in due miei temi liceali, che ho conservati non per il mio scritto, ma per le osservazioni con cui li aveva postillati il mio professore Francesco Maggini. Rileggendoli, vi ho trovato un italiano colto ma non chiuso, e quell'atticismo toscano che c'inculcavano i nostri maestri invitandoci a cercare la proprietà e ad evitare l'ambiguità, la ridondanza, le parole iniziatiche. E di tale magistero fanno fede appunto le postille a matita del mio antico professore, che la pensava come Pietro Pancrazi: «Obbligandosi a parlare col linguaggio comune, un filosofo stimola sé a pensare o a ripensare la sua idea, il suo concetto in modo più concreto, direi più plastico. Che è poi una riprova, quasi un traguardo della verità». Da allora, salvo l'acquisto di tecnicismi via via indispensabili (o così ritenuti) al mio lavoro professionale, e di una maggiore padronanza dell'articolazione sintattica, il carattere del mio scrivere non è cambiato; anzi, invecchiando, ha manifestato la tendenza a tornare indietro (o andare avanti, secondo l'opinione), cioè a semplificarsi, a ritradursi. Ma basta di questo, e voi perdonatemi la breve incursione nella lingua scritta, che, se non sia quella di scritture buttate giù, come certe lettere confidenziali, impegna, nelle persone colte, la sciabica della memoria riflessa e in quasi tutti una volontà di correttezza se non di stile di tutt'altra cosa che ora intendo parlare.
8. Negli ultimi venti anni ho visto mutare, intorno a me, la denominazione dei mestieri: allo spazzino si è sostituito il netturbino, al facchino il portabagagli, al trombaio o stagnino l'idraulico, alla donna di servizio o domestica (non dirò serva!) la collaboratrice domestica o la sigla colf, al contadino l'agricoltore, all'ortolano l'erbivendolo o il verduraio, al pizzicagnolo il salumiere, al dottore il medico (non voglio aggiungere che ortopedico ha sostituito ossaio, benché questo duro nome io da ragazzo l'abbia sentito). La lista potrebbe continuare, ma è più che sufficiente a mostrare che molti dei mestieri elencati nei vocabolari «domestici» o «metodici» dell'Ottocento sono stati ribattezzati; e così facendo, sotto la spinta di pressioni sindacali e di necessità legislative, si è ottenuto il duplice scopo di elevare la dignità del mestiere e di unificarne nazionalmente la denominazione. Inutile domandarsi che cosa è avvenuto di tanti altri mestieri più specializzati e indagare su quelli introdotti dallo sviluppo industriale più recente, alcuni dei quali costituiti da pseudogrecismi tecnici o da calchi anglosassoni; giacché escono dalla mia sfera personale di esperienza, dentro la quale ho l'assunto di tenermi.
Contemporaneamente si è avviato un processo più generale: i giovani usano un vocabolario più specifico del mio, in senso tecnico, paratecnico o burocratico, ma non in ragione del loro mestiere o professione; e questo linguaggio specifico ma non professionale va diffondendosi non solo tra le persone colte. In queste, semmai, è più esteso e continuo, nelle altre saltuario, e la differenza può essere un indice sociolinguistico. Il verbo fare, ad esempio, buono a tutti gli usi, è spesso sostituito da verbi più meticolosi o più pedanti, come in effettuare una gita, un sopralluogo, eseguire un lavoro, compiere o perpetrare una cattiva azione, commettere un errore, una gaffe, esercitare un mestiere, muovere o esperire querela, addurre un esempio, esplicare un'azione, operare una scelta ecc. E anche dare, del resto: conferire un incarico, somministrare un purgante ecc. Ma l'indiscriminato gioco «a pugnino più sù» di rincalzatura sinonimica, a cui credo collabori anche l'insegnamento scolastico, va ben oltre. Precisare cede il passo, più o meno a proposito, a puntualizzare, centrare a focalizzare, rinviare a procrastinare, agguagliare a equiparare, pareggiare, eguagliare a perequare, accusare, incolpare, imputare a incriminare, passare a transitare, trasportare a veicolare, acquistare ad acquisire, aumentare a incrementare, supporre a ipotizzare, risolvere a soluzionare, richiedere a postulare, proibire a inibire, preferire a privilegiare, fornire a erogare, omettere, trascurare a disattendere, morire a decedere, sbrigare una faccenda a espletare una pratica, forare il biglietto a obliterare, patrocinare, sostenere, finanziare a sponsorizzare; e poi passato o trascorso a pregresso, estinto a perento, antico, disusato a obsoleto, ricercato, raffinato a sofisticato, adatto a idoneo, facoltativo a opzionale, stancante a defatigante, principiante a esordiente, digestivo a eupeptico, giusto a esatto: «è giusto» dicevamo tutti un tempo, indiscriminatamente, e dico io ancor oggi, mentre i giovani dicono a proposito «è esatto», distinguendo tra la giustezza (tecnica) e la giustizia (retributiva), due concetti che, se non fosse intervenuto il Musichiere a lanciare la formula, resterebbero ancora confusi; dico confusi nel parlar tradizionale, che suole muoversi tra gli estremi di una denominazione analitica degli oggetti e fenomeni quotidiani e arcaiche indistinzioni nel campo dei concetti cardinali. Perché la lingua materna è, prima che la lingua della mamma, la lingua delle madri antiche e antichissime e tramanda i rottami (direbbe Vico) della loro intuizione del mondo.
Com'era da aspettarsi, anche nei sostantivi e in certe locuzioni avverbiali si è avuto un processo analogo a quello accennato prima: la vecchia ghiacciaia di famiglia è diventata un frigorifero, una medicina è diventata un farmaco, la cura una terapia, il veleno un tossico, il calmante un sedativo o un analgesico, una pasticca una compressa (la reviviscenza con specificazione semantica di pillola si deve alla propaganda degli anticoncezionali), la macchina del treno un locomotore, il cozzo un impatto, il punto di vista un'angolazione, il terremoto un sisma o sismo, il diluvio un nubifragio, l'inondazione un'alluvione, il bisogno una esigenza, lo scopo un obiettivo, l'accordo o armonia in senso metaforico una sintonia; a parte si è coturnato in a prescindere, prima in precedente, un altr'anno o l'anno che viene in l'anno prossimo o venturo. Talvolta dietro una neoformazione c'è la pressione dell'anglismo, come nel caso di opzionale, obliterare, sponsorizzare ecc., o del francesismo, come per soluzionare ecc.; talvolta il neologismo risponde al bisogno di una articolazione o specificazione concettuale: ad esempio in derivati come ottimale nei confronti di ottimo, direzionale nei confronti di direttivo, decisionale nei confronti di decisivo, permissivo nei confronti di indulgente. Si dà infine anche il caso di parole che vengono preferite ad altre per la loro maggiore produttività derivativa: l'anglofrancesismo esaustivo, ad esempio, consente di formare l'astratto esaustività, mentre l'italianissimo esauriente è, per il medesimo fine, sterile. E anche tra due parole schiettamente italiane, come capire e comprendere, il fatto che la seconda, di uso più colto della prima, prenda il sopravvento è certo dovuto alla sua capacità di proliferazione: vedi appunto comprensione, comprensibile, comprensivo, comprensività e finanche lo scherzoso comprendonio, mentre capire, nonostante la sua più acuta intelligenza, se ne sta solo soletto. La fecondità sembra dunque uno dei fattori - ci sia concesso dire - promozionali della lingua.
Certe preferenze sanno di pretenziosità scientifica e possono dispiacere: alludo a enucleare o estrapolare invece di estrarre, ricavare, a biunivoco invece di reciproco, a idiosincrasia o allergia invece di insofferenza, avversione, incompatibilità, a sporadico invece di raro, saltuario, a stocastico invece di casuale, a contestualmente invece di simultaneamente, a cefalea o emicrania invece di mal di capo, a còriza o rinite invece di raffreddore. Si risente infatti il mio io antico: «Quei solenni sostituti vengono spesso da discipline tecniche dove hanno significati che i nostri saccenti non saprebbero definire, tant'è vero che spesso li usano in modo approssimativo. Perché indulgere a tale scempio, che è anche una mistificazione?». Ma il mio io moderno lo rimbecca: «Forse hanno bisogno di parole apparentemente più precise, in realtà più obiettive delle nostre, e gli sembra che i vocaboli tecnici o burocratici servano allo scopo anche nel parlare corrente. Quanto alle locuzioni e combinazioni fraseologiche, cercano di ridurne il numero e la varietà, per disporre di una serie limitata ma certa e comune a tutti; è passato il tempo che Edmondo De Amicis esaltava il tesoro di modi di dire del "vivente linguaggio della Toscana", tesoro non comune neppure a tutta la regione e atto, più che ad unirla, a dividerla dalle altre regioni italiane. C'è poi un fatto di economia, di sintesi, perché una sola parola tecnica può risparmiare quella che le grammatiche chiamano circonlocuzione e io più banalmente giro di parole. O non è una volontà economica, in un mondo così consumistico, quella che tira credibilità al senso di 'fiducia che otteniamo nell'opinione degli altri' o disponibilità al senso di 'cortese disposizione a prestarsi alle richieste altrui', o affidabilità al senso di 'capacità di dare affidamento'? E non è gusto e capacità di sintesi - la sintesi propria di una civiltà tecnologica - il mettere a frutto la ricchezza suffissale e prefissale dell'italiano per la formazione di termini ad alto grado di specializzazione e di farcitura semantica, quali, tanto per dire, decongestionamento, disincentivazione, idoneazione, interdisciplinarizzare ecc.? e il riattivare quella facoltà di composizione di cui la nostra lingua era diventata stitica e tale sarebbe rimasta se qualche audace non avesse forgiato un netturbino, un metronotte, un eurocrate? Avviene qualcosa di simile anche nella sintassi, nella sintassi, per esempio, da nominalizzazione, per cui sostantivi astratti e spesso catene di sostantivi astratti si sostituiscono a frasi verbali. Leggi il tuo giornale: "La soluzione dei problemi del mezzogiorno postula l'incrementazione della produttività delle sue imprese, l'intensificazione della iniziativa privata, la migliore utilizzazione dei contributi dello Stato, la moralizzazione della vita pubblica". Era più agile, e forse più chiaro e più energico, scrivere: "I problemi del mezzogiorno si risolveranno soltanto quando le sue imprese produrranno di più, l'iniziativa privata diverrà più intensa, i contributi dello Stato saranno utilizzati in modo migliore e la vita pubblica si farà più morale". Ma la sintassi sarebbe stata più complicata, a causa del costrutto subordinato e dell'uso dei verbi al futuro nella forma attiva e passiva. Vedi dunque che anche nella sintassi si va verso il concentrato, il semplice, il lineare. E finalmente, qualcuna di quelle parolone ti vien fatto di adoprarla anche a te, perché ti paiono dare più peso al discorso, quando prendi toni più professionali o professorali. Tu hai, è vero, l'accortezza d'introdurle in un contesto che le puntella in modo che non trinquellino e che perdano l'effettaccio; ma il tuo cedimento c'è stato e secondo me doveva esserci. Vecchio mio, dammi retta. O che sei cilusco? O che vuoi fare il nesci e startene in panciolle davanti al gran movimento della lingua d'oggi, tenendoti a bocca dolce coi motti del Cupolone? Quasi che a forza di dire "Io non me ne giovo, io non ci metto sale né pepe, io non voglio arrapinarmi, io son per l'oche" ti riesca startene fuori. Manco per sogno! Ci sei dentro fino al collo, ci sei. E non la puoi tenere a bada la lingua, non gli puoi dire: "Fermati, perché sei bella come sei!" Ormai ha preso l'aire, e te con lei, e non vi fermerete più».
9. A quest'ora, che è l'ora di stendere, capisco bene che non posso più stare, inne onne, a fare ai quattro cantoni con l'io antico e con l'io moderno e a bambinare il vocabolario. Butto giù buffa e dico quel che mi par di pensare o piuttosto di sentire di questo mondo di parole, giudicandolo per quel tanto che ne passa attraverso il colino della mia esperienza personale.
Mi direte: "Ecco lo sdrucciolone! Ci sei cascato! Avevi detto di tenerti dentro la tua esperienza personale, di evitare l'ab uno disce omne, e ora fai il passo più lungo della gamba". Un momento: già ho detto che la mia esperienza personale coinvolgeva, per confronto, quella non degli altri (che sarebbe troppo), ma di altri con cui sono venuto e vengo a contatto (e perciò mi rifaccio semmai al principio a paucis disce omnes; e che questo fatto, e il fatto che nell'individuo e pur sempre riflessa la società, mi consentiva di guardare oltre la punta del mio naso. Ricordato ciò, mi sento meno esitante a dirvi quello che sto per dire e vi prego, a ogni modo, di prendere la mia interpretazione come una proposta provvisoria, bisognosa di ben maggiore e più oggettiva campionatura.
Vi darò, per accentuare la relatività del mio giudizio, una sua prima versione in chiave mammistica e populistica, che è la più grossa, se non la più vera, nel mazzo di chiavi di ogni italiano. E lo farò, perché mi sarà più facile, con una (diceva la vecchia retorica) «prosopopea». Consentitemelo.
Mi par dunque di vedere una donna grassoccia e matura, ma ben portante e, sì, belloccia. Sta seduta, ma in testa non ha né torre né corona né stelle, né in braccio la cetra. Ha l'aria, tutto considerato, di una buona madre di famiglia. E cuce. Passa e ripassa gugliate di grosso filo grigio nel mezzo di una gran tovaglia arlecchina. Non dunque per coprire tutti i suoi colori: non ci riuscirebbe e forse non le garberebbe. Cerca soprattutto di formare nel mezzo della tovaglia un centro di quel colore uniforme, in modo che i figlioli, quando si sederanno a mangiare intorno alla tavola (spera che almeno una volta al giorno il business o la fabbrica glielo permetta), si sentano più raccolti, più simili, più uguali. Certo, quel colore sarà povero, spento, quel centro sarà piccolo, ma sarà comune, finalmente comune.
Ed ecco, fuor di figura, una versione più realistica, ma non meno relativa. Io avverto che operano attorno a me, dentro di me, due forze contrarie. Quella che mi rigetta al parlare della mamma e della nonna, al linguaggio delle Madri schierate nella catena delle generazioni, ricco di linfe profonde, uniche, inimitabili; non un linguaggio, ma un mondo. (Proprio alcune settimane fa, a Pisa, un eminente psicolinguista angloamericano, Michael Studdert-Kennedy, sottolineava l'enorme quantità d'informazione linguistica, e non solo linguistica, che il dialetto convoglia e l'impossibilità, per un adulto, d'imitarla, cioè d'imparare perfettamente un dialetto. Cosa di cui è invece capace il bambino nei suoi primi anni di vita, data la straordinaria facoltà d'imitazione che possiede). In quel parlare fidato io mi sento a casa mia, posso unirmi visceralmente con chi mi è caro ed escludermi da chi non è, posso tuffarmi a occhi chiusi. E non c'è poi tanto distacco tra quel parlare, casalingo sì ma di una casa vecchia e grande e famosa come il Cupolone, e la mia lingua scritta, nella quale - se voglio - posso arroccarmi con pochi, e fare miei giochi e vocalizzi, o tener vivi o ravvivare bei modi e belle parole del buon tempo antico. Così facendo, ho dalla mia anche Giacomo Leopardi: «[...] infinite parole e modi sono andate, e vanno tutto giorno in disuso, le quali però tuttavia son fresche e vegete, ancorché di fatto antichissime: e siccome si possono usare senza scrupolo, così di tratto in tratto, qua e là, questa o quella si vien pure adoperando da qualcuno in modo che tutti le intendono, e nessuno nega o può negare di riconoscerle o sentirle per italiane» (Zibaldone, p. 1893, 10-12 ottobre 1821).
Ma d’altra parte l’ideale dell’Italia postunitaria, bramosa di un’unità più che politica, l’ideale di una lingua media – parlata e scritta ma anzitutto parlata – veramente comune, mi assedia oggi come non mai. E assedia, indipendentemente dalla consapevolezza e dalla volontà, tutti. È in atto da alcuni anni, e con una intensità e rapidità tipiche del mondo odierno, un vasto confronto, non più tra i dialetti, ma tra gl’italiani regionali; e un forte processo di compenetrazione e di superamento, che tutti più o meno subiamo, perché tutti siamo spinti verso il crogiolo in cui prima o poi fonderemo. Ma che cos’è che rende così diversa la condizione nostra da
quella dei nostri padri, la condizione di me vecchio da quella di me ragazzo? Facciamo insieme una corsa a gambe levate attraverso la storia linguistica dell’Italia. Dalla morte di Dante a tutto il Quattrocento l’opera di unificazione linguistica, così importante per il formarsi di una coscienza culturale nazionale, fu condotta dagli scrittori non toscani e dai mercanti fiorentini, entro un ambito socialmente ristretto; nel Cinquecento la consapevolezza dell’importanza del processo provocò l’intervento dei grammatici e delle università «volgari», le accademie, una delle quali, la Crusca, assunse all’inizio del Seicento il compito di guida dell’uso letterario. Col famoso Vocabolario, che rispecchiava solo in parte le teorie di Pietro Bembo, perché conteneva due anime, quella aristocratica e quella popolare, conciliabili soltanto a Firenze, la Crusca costituì un modello di lingua letteraria che divenne un canone puristico, esercitante senza dubbio un’azione limitativa e costrittiva ma contribuente d’altra parte al rafforzamento e mantenimento dell’unità. Da allora il purismo, cioè la fedeltà ad un modello normativo di buona lingua e di bello scrivere, dominò, nonostante la rivolta illuministica, l’uso letterario italiano. La concezione sociale che il Manzoni ebbe della lingua trasferì il modello dal registro del fiorentino classico al registro del fiorentino vivo e parlato, ma sostituì al purismo aulico un purismo dialettale. Nell’Italia postunitaria la gestione del purismo passò alla scuola nazionale, che divenne, mediante le grammatiche, i vocabolari, le raccolte di «esempi di bello scrivere», le correzioni degli insegnanti, il principale strumento della formazione linguistica dei giovani secondo un ideale o classicistico o manzoniano. Quando i ministri della pubblica istruzione del Regno e i programmi della scuola statale s’interessarono della lingua, questa entrò nel giro della politica culturale e non lo abbandonò più. Cosicché, comparsa la radio (e poi la televisione), i suoi dirigenti, rendendosi conto della efficacia e della responsabilità del nuovo mezzo in fatto di lingua, mutuarono dalla scuola lo scrupolo puristico; istituirono corsi di ortoepia per gli annunciatori e promossero la compilazione di un Dizionario d’ortografia e di pronunzia (DOP), che richiese il faticoso appianamento di conflitti teorici e pratici e fu l’ultimo soprassalto del purismo morente Da quando la scuola ha contestato l’insegnamento linguistico, giungendo fino a sostenere l’abolizione della grammatica e del libro di testo come fautori di una tradizione di lingua aristocratica e quindi non rappresentativa dell’intera società italiana, e la radio e la televisione, senza aperte discettazioni e polemiche, si sono praticamente disinteressate del problema, la nostra lingua si muove, per la prima volta dopo secoli, da sola, in tutta libertà. Ben pochi, tanto meno le vecchie accademie o i linguisti di professione, osano dar pareri e prescrizioni; e chi pone quesiti di lingua e chi risponde nelle rubriche dei giornali e dei periodici sembra il rudere di un mondo crollato e sommerso dal gran mare dello spontaneismo. Se ripenso allo scrupolo con cui mio padre, ignorante di latino, s’imponeva di scrivere in buon italiano pur occupandosi di ragioneria, una sconcertata tenerezza mi occupa il cuore. Si fa presto a dire che la lingua comune è un bene sociale e che, come tale, va rispettata e protetta. Ma come? Non è la taccia di purista che fa paura; è che, come in tanti altri campi, anche in questo della lingua sono venute meno le antiche certezze. Non è venuto meno il discutere, anzi! Ma ai princìpi, che prima ne costituivano l’oggetto, si è sostituito il metodo. E a formare nuove certezze non basta la convinzione di questo o di quello; occorre un tessuto, anche conflittuale, di convinzioni socialmente diffuse. Quella che si va formando e diffondendo non è certo fautrice di interventi; al contrario! Se il fiume – essa ammonisce – della coscienza collettiva che si realizza nella lingua si muove spontaneo di quella spontaneità della storia dal tempo lungo che travalica le generazioni e prepara un futuro scarsamente prevedibile, non turbiamolo con le nostre barchette di carta, che finiranno travolte e inghiottite. Ma – ci domandiamo – è poi sicuro che quel moto sia affidato alle correnti della storia lunga, o non piuttosto dominato, almeno in parte, da strategie contingenti, più insidiose e dannose del vecchio purismo? da forze che, pilotando la lingua,
pilotano anche la mente?
La marcia verso una unità superiore è comunque un fatto certo, e siccome costituisce l’intensificarsi di una tendenza plurisecolare, accettata da una sequela di generazioni, non può essere un miraggio, una falsità. E allora, cercando di ragionare serenamente, mi dico: Il superamento del dialetto nell’italiano regionale ha chiesto un prezzo, che è stato pagato. E il superamento dell’italiano regionale nell’italiano nazionale, comune, non chiederà anch’esso un prezzo? E non ci converrà di pagarlo?
Se si va sostituendo la locuzione etnificata, cioè avvinghiata al costume e al sentimento locali, con una più generale o generica, magari uno slogan somministrato dalla cosmopolitica circolazione dei mass-media; se si prediligono entro un certo ambito semantico (e quale che ne sia di volta in volta il motivo) parole meno alonate di connotazione, meno pregne di memoria e di suggestione, meno ambigue, parole che apportino all’uso segni denotativi, neutri, assicuranti una comunicazione convenuta e livellata; non si fa che riconoscere l’aspetto linguistico di quella uniforme cultura tecnologica e burocratica che va sottentrando alla tradizionale diversificata cultura antropologica col nostro consenso o almeno con la nostra quotidiana accettazione. Certo, quelle parole nella loro rigidità e secchezza poteranno gran parte delle frange e dei peneri pendenti dai nostri vecchi, sugosi discorsi; ma, in cambio, daranno più funzionalità, ossia coerenza, tra il pensare, il fare e il dire. Procureranno, è vero, in certi settori una forte riduzione del lessico, ma in compenso più speditezza e sicurezza. E l’unificazione di tipo letterario e puristico perseguita dalla Crusca non fu anch’essa una riduzione delle troppe particolarità della lingua e una semplificazione delle superfluità dell’uso, come non può non essere ogni unificazione, soprattutto quando vi si accompagna l’estensione sociale? Né ci si venga a obbiettare che il nuovo lessico è più convenuto che preciso, più pseudotecnico che tecnico, più schematico che razionale: un lessico nazionalmente comune, sia pur ridotto, non può, per la contraddizione che non lo consente, costituire una lingua settoriale, tecnica, la quale è propria degli specialisti. Il fatto però che le principali fonti di questo italiano comune siano, col lessico intellettuale, le lingue tecniche, la terminologia burocratica, l’anglismo internazionale – fonti su cui i mass-media si librano come api in cerca di nettare – assicura a questo linguaggio una impronta europeizzante o europeizzabile, che si manifesta anche nei moduli compositivi sintetici e spregiudicati, arieggianti quelli dei tecnicismi. O non è anche questo, per una lingua ormai cenerentola come la nostra, un positivo affaccio sul mondo? E tanto più positivo di quello avveratosi in età illuministica e durante l’Ottocento, perché l’europeizzazione di allora avveniva nella lingua intellettuale e scientifica, l’europeizzazione odierna avviene anche nella lingua comune.
A mostrarvi il rapporto tra questa tendenza linguistica e il vivere sociale e a richiamarvi al problema delle forze che la influenzano, farò due esempi: uno di grado frivolo, l’altro di grado serioso. La esordiente canzonettista che giorni fa, alla televisione, ha dichiarato che il successo canoro avrebbe soluzionato la sua vita può essersi, secondo un’interpretazione puristica, macchiata del peccato di inutile forestierismo, ma può invece, secondo un’altra valutazione, avere imboccato la via di un italiano sopraregionale, standardizzato in senso pseudotecnico ed europeizzante.
L’esempio serioso concerne chi vi parla. Per molti anni io non ho saputo che cosa precisamente fossi e rappresentassi in un mondo arruffato e contraddittorio, in una – come dicono gli americani – changing society.
C’era, sì, il gran concetto di classe, che avrebbe dovuto aiutarmi a trovare un porto e un ancoraggio; a farmi almeno vedere qual era il mio posto. Ma quel concetto mi tornava troppo rigido ed elementare per inquadrare la intrecciata e mobile realtà sociale dell’Italia; eppoi mi confinava in quella borghesia su cui il fascismo aveva sputato il suo disprezzo e che il socialismo, almeno allora, ostracizzava. Ecco che oggi alla classe si è sostituita la classificazione, cioè un ordine categoriale sancito da una rete terminologica, in forza della quale io son venuto a sapere che appartengo alla categoria degli intellettuali; categoria che esiste non solo di nome (nomina sunt consequentia rebus!), dal momento che molte persone riconoscono di appartenervi formando gruppi che firmano manifesti sotto l’insegna di quell’illustre e burocratizzato latinismo.
Quanto dico non è né celia né dileggio. È la percezione – se volete, rabdomantica – della lentissima ma inesorabile forza con cui una cultura nuova, potentemente plasmatrice, unificatrice e livellante occupa linguisticamente il centro della marginosa, screziata, toppata tovaglia dell’italiano regionale.
Ciò che di costume, di colore, di passione, ciò che di particolare, segreto, antico va perduto in questa operazione è nel conto aperto. Ma è proprio questo il prezzo che, su opposte rive, il Manzoni e l’Ascoli pensavano di far pagare agl’italiani per l’unità della lingua? E troppo presto per rispondere; ed anche per verificare la previsione fatta da Ferdinando Martini nell’ormai lontano 1926: «Io fermamente credo che al cadere del secolo ventesimo la lingua italiana sarà sostanzialmente diversa da quella che era al cadere del secolo antecedente». Si potrebbe semmai rispondere al Martini che un secolo è tempo troppo corto per il mutamento «sostanziale» di una lingua, e di una lingua come l’italiana.
Christian Ferrari
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