"Cantucci" d’autore. Sulle funzioni testuali delle parentesi tonde nei Promessi Sposi

di Arianna Redaelli

Presentazione:
Alla vigilia dell’anno in cui ricorre il centocinquantenario della morte di Manzoni si è tenuto a Parma (in data 7 dicembre 2022), nell’ambito delle attività della scuola di Dottorato di ricerca in Scienze filologico-letterarie, storico-filosofiche e artistiche, una giornata di studio dal titolo La lingua dei «Promessi sposi»: lavori in corso. Era l’occasione per mettere a confronto ricerche linguistiche condotte su fronti diversi, e con differenti metodologie, da giovani impegnati nella tesi di dottorato, o da poco dottori, nella convinzione che il confronto potesse rappresentare, specie negli anni fecondi della formazione, un lievito prezioso di riflessioni. I saggi qui raccolti sono excerpta di lavori in corso di più ampio respiro: li offriamo ad Angelo Stella, che aveva incoraggiato l’iniziativa e attendeva di valutarne i risultati, in memoria di riconoscenza e di affetto, con l’auspicio che l’anniversario manzoniano, giunto ormai al termine, possa promuovere una nuova leva di valenti studiosi.

Abstract:
L’attenzione rivolta da Manzoni nei confronti dell’apparato interpuntivo dei Promessi Sposi è nota, ed è testimoniata dalle continue modifiche che intorno a esso s’addensano fin sulle bozze di stampa, non meno che dalla complessità delle scelte infine confluite nell’edizione definitiva. Verosimilmente tale complessità è dovuta, almeno in parte, a un cambio di rotta che proprio nel secondo Ottocento interessa la punteggiatura italiana (direzionata verso una ratio d’uso comunicativo-testuale più che morfosintattica e/o pausativa), e dunque a una coscienza più matura dei rapporti che intercorrono tra interpunzione e testo. In questa prospettiva, uno studio approfondito della punteggiatura del romanzo consentirebbe, da un lato, di verificare le preferenze d’intervento di un Autore il cui apporto è stato determinante per tale mutamento d’uso dell’interpunzione; dall’altro, di gettare luce sulle sue strategie di costruzione del testo, delle quali gli elementi interpuntivi sono indizi importanti.

In questo alveo intende collocarsi l’articolo, che propone un’indagine complessiva delle parentesi tonde manzoniane (un segno ante tempus comunicativo) nell’edizione Quarantana dei Promessi Sposi. Lo scopo è in specie di osservarne le funzioni testuali, le quali, considerata la travagliata vicenda redazionale del romanzo, si intrecciano talvolta con osservazioni d’ascendenza filologico-comparativa provenienti dal confronto tra le diverse fasi di lavoro.

1. Premessa

Nella storia della punteggiatura italiana, l’Ottocento si distingue come un secolo particolarmente significativo, tanto per le novità della trattatistica quanto per il contributo di singoli autori (cfr. Mortara Garavelli 2003, pp. 130-132), tra i quali, in primo luogo, Manzoni. I due aspetti sono strettamente correlati: nel secondo Ottocento, infatti, il sistema interpuntivo subisce una rivoluzione funzionale che da un paradigma intonativo-pausativo e/o morfosintattico lo porta a ragioni d’uso di natura strettamente comunicativo-testuale[1]. Il cambiamento si registra soprattutto all’interno delle grammatiche sensibili all’esperienza linguistica dei Promessi Sposi (cfr. Ferrari 2018a, pp. 185-198): l’ipotesi che la lezione interpuntiva di Manzoni sia stata il ‘primo motore’ per la formulazione teorica e la diffusione di un nuovo modo d’intendere i segni pare lecita, e sembrerebbe in effetti avvalorata da alcune recenti ricognizioni a campione sul romanzo (cfr., in particolare, Ferrari 2020; Lala 2020, pp. 166-168).

Pur trattandosi di un terreno scivoloso sia dal punto di vista diacronico (per la complessità evolutiva del sistema manzoniano, che subisce continui ritocchi da parte dell’autore fin sulle bozze di stampa della Quarantana) sia dal punto di vista sincronico (per le difficoltà di interpretazione delle scelte confluite nell’edizione definitiva e per l’assenza di riflessioni metalinguistiche di Manzoni sull’argomento), uno studio puntuale della punteggiatura dei Promessi Sposi promette di offrire risultati interessanti. Consentirebbe infatti, da un lato, di ricostruire più precisamente una tappa fondamentale per la storia della punteggiatura, esemplificando le dinamiche tra aderenza alla norma e innovazione negli usi di un Autore il cui apporto è stato determinante per la forgiatura di una nostra lingua italiana; dall’altro, permetterebbe di valorizzare, accanto agli aspetti lessicali e morfosintattici, le logiche e strategie manzoniane di costruzione del testo[2], delle quali gli espedienti interpuntivi sono indizi importanti.

Le scelte operate in questa sede consentono di vagliare soprattutto il secondo itinerario d’indagine. Il contributo propone un’inchiesta generale sulle parentesi tonde – un segno dal ruolo ante tempus comunicativo – nei Promessi Sposi del 1840-42. Dopo un breve inquadramento del contesto normativo e metodologico di riferimento, seguirà una panoramica descrittiva delle preferenze di intervento e delle funzioni testuali del segno. La presenza relativamente limitata delle parentesi tonde nel romanzo ha consentito di prendere in esame tutte le attestazioni (per un totale di 163 nella Quarantana), tuttavia selezionate a livello esemplificativo, e di allungare lo sguardo alla Ventisettana e alle redazioni precedenti per sintetiche considerazioni di tipo filologico-comparativo[3]

2. Una “vera interpunzione”: dalle grammatiche a Ghisalberti

Le parentesi tonde occupano una posizione peculiare nel panorama interpuntivo: oggi come nei secoli passati, assolvono al compito di introdurre “nel testo un confine di Enunciato”, assegnando “all’Unità Testuale che delimitano lo statuto di Inciso, ovvero di Unità posta su un diverso piano semantico-pragmatico, secondario rispetto al piano principale del testo” (Pecorari 2018, p. 109). La loro ubicazione è variabile, benché mai incipitaria, e così anche il tipo di costituente ammesso al loro interno, che può essere più o meno esteso e, con una flessibilità ancor maggiore nell’italiano contemporaneo, appartenente a qualunque categoria formale.

Per inquadrare il contesto entro il quale si colloca il corpus sottoposto a studio, sembra utile tratteggiare almeno a grandi linee lo sfondo normativo di riferimento (cfr. Pecorari 2020b). Nelle grammatiche italiane del Settecento, la presenza delle parentesi nel novero dei segni interpuntivi non è affatto scontata (le parentesi mancano del tutto, per esempio, nelle Regole ed osservazioni della lingua toscana di Salvatore Corticelli), mentre diventa più stabile in quelle ottocentesche. Si segnala poi un’oscillazione terminologica forte: sino a Ottocento inoltrato, con parentesi si usa indicare tanto il segno quanto l’intera proposizione con funzione incidentale[4]. Laddove il grammatico si inoltri nella descrizione della parentesi, i criteri prevalenti sono riconducibili a tre categorie: “la pesantezza morfosintattica del costituente inserito, la sua espletività e indipendenza sintattico-semantica, e le funzioni comunicative che esso riveste nel testo”[5]. Vengono cioè prescritte, ex negativo, quando l’inciso è lungo (ma non troppo, onde evitare difficoltà di ricostruzione e interpretazione della sequenza in cui si trova), e la sua eventuale eliminazione non arreca danni al senso complessivo della frase. Solo in modo sporadico, invece, si manifesta l’attenzione alla tipologia di contenuto delle parentesi, cui si riconosce la possibilità di intrattenere relazioni logico-semantiche con il piano principale del testo, soprattutto, e schematicamente, con funzione commentativa o esplicativa[6]. Non fanno eccezione, in questo percorso tutt’altro che lineare, neppure le grammatiche e i trattatelli d’impronta manzoniana, che si distinguono soltanto per l’apertura della trattazione ad alcuni casi d’uso specifici (chiaramente tratti dai Promessi Sposi: cfr. infra, § 3.4), e per l’aggiunta, nella grammatica di Cappuccini e Morandi, di qualche riferimento alle possibilità grafiche del segno, disponibile ad accogliere eventuali rinvii bibliografici[7].

Alla luce di tale impostazione interpretativo-prescrittiva, riscontrabile sino ad almeno inizio Novecento (cfr. Pecorari 2020b, p. 631 e pp. 633-634), meglio si comprendono le considerazioni di Fausto Ghisalberti, che al sistema di punteggiatura dei Promessi Sposi riserva particolare attenzione, anche filologica, in un’intera sezione dello studio preparatorio all’edizione critica Barbi-Ghisalberti del 1942. La menzione alle parentesi tonde si trova in dirittura di conclusione, al secondo punto del paragrafo intitolato Segni grafici, categoria entro la quale sono comprese le “minuzie che hanno la loro importanza a dar quell’ordine e quella forbitezza esteriore che il Manzoni non trascurava”[8]. Una posizione liminare, potremmo dire, che tuttavia si spiega con le considerazioni che Ghisalberti esibisce a seguire, volte perlopiù a giustificare gli emendamenti correttivi destinati a confluire nel testo in pubblicazione.

Le sue note si addensano intorno all’interazione tra le parentesi e gli altri segni interpuntivi, la virgola soprattutto. Dopo aver brevemente discusso alcuni casi in cui la virgola o diverso segno considerato segmentante e/o dotato di valore pausativo compaiono prima della parentesi di apertura (invece che dopo, come ci si aspetterebbe), Ghisalberti commenta:

Noi stentiamo a capire come il Manzoni potesse credere che il segno di chiusura della parentesi potesse servire al lettore come segno di pausa o di stacco, dove pausa e stacco è assai più necessario […]. Eppure tale fu da principio il suo uso prevalente. Bisogna inferirne quindi che anche il segno di parentesi fu considerato da lui come una vera interpunzione o come il più efficace surrogato di essa, e che per conseguenza, poiché la parentesi si inserisce come un vero e proprio inciso nella membratura del periodo, il Manzoni ritenesse più logico segnare prima che la parentesi si aprisse, quelle interpunzioni che fossero richieste dall’articolazione naturale del discorso. [9]

Rinunciando a un’analisi puntuale delle singole occorrenze rinvenute, si sofferma poi sulle ingerenze tipografiche che avrebbero indotto l’Autore a una parziale regolarizzazione degli usi[10]. Nonostante le preliminari remore, si ritrova così indotto ad ammettere la versatilità, nel romanzo manzoniano, del segno parentetico, e a concludere che Manzoni “sentiva […] il bisogno di distinguere caso da caso, e assai più avrebbe fatto se da ultimo non si fosse arreso ai consigli dei revisori”[11].

3. Le dimensioni testuali delle parentesi nei Promessi Sposi 

Il ruolo di parentesi e parentetiche in genere è stato recentemente oggetto di numerosi studi, in riferimento a corpora di lingua scritta, prevalentemente d’uso[12], e di lingua parlata. In questo breve contributo si adotta la proposta terminologica del modello interpuntivo basilese, che riconosce alle parentesi tonde tre ordini di funzioni testuali: enunciativa, referenziale e logico-argomentativa[13]. Tali funzioni corrispondono a connessioni semantiche che prendono parte all’architettura del testo nel suo complesso, tra singoli enunciati ma anche, sebbene più raramente, tra interi movimenti testuali. Con le dovute cautele, il modello risulta idoneo anche per un testo letterario – per sua stessa indole reticente di fronte a catalogazioni rigide – dove rappresenta un valido fondamento sul quale elaborare schemi d’analisi in cui i dati si incrociano in maniera non sempre lineare con opzioni estetico-letterarie, e che restano dunque aperti a un più vasto novero di possibilità.

3.1 La dimensione enunciativa: tra polifonia e dialettica del vero

La maggior parte delle parentesi che si incontrano nella redazione definitiva del romanzo instaurano con il piano principale del testo una relazione di tipo enunciativo, che corrisponde alla possibilità di introdurre, mediante il segno, un piano locutivo secondario rispetto a quello dell’enunciato in cui si inseriscono (cfr. Pecorari 2018, p. 118). Entro questa categoria generale, si riconoscono tuttavia casi diversi, da distinguere anzitutto in base alla voce prima cui si riferiscono.

3.1.1 Voci tra parentesi: i personaggi

Quando si trovano inserite nelle battute dei personaggi, le parentesi rivestono esclusivamente un ruolo di “sdoppiamento virtuale”: l’inciso che delimitano lascia cioè emergere, isolandolo, il punto di vista soggettivo di chi parla (o, altrove, scrive). Preliminarmente si può osservare che tali sdoppiamenti – che si trovano tanto in contesto dialogico quanto, come si vedrà, monologico, nelle sequenze di pertinenza del narratore – generano nella lettura un effetto assimilabile a quello delle parentetiche che si producono nel parlato: acquistano così una natura quasi teatrale (perché rivolte direttamente o indirettamente a un interlocutore), che lascia affiorare la primazia della dimensione orale in modo se possibile più evidente di quanto non accada quando dal segno interpuntivo si solleva una voce realmente altra[14].

In contesto conversazionale, le parentesi irrompono nell’Enunciato inserendovi invocazioni, esclamazioni, considerazioni o commenti a latere del discorso, domande retoriche o inviti diretti agli interlocutori. Per esempio, la voce di Lucia che riferisce a Gertrude le ingerenze di don Rodrigo (1), quella del Cardinal Federigo in colloquio con l’Innominato (2) e infine la voce della vecchia che racconta a Lucia della “gran conversione” (3) accolgono tra parentesi un’invocazione all’autorità divina:

(1) E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!) vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. (IX 34)

(2) Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono […]. (XXIII 17)

(3) “M’ha mandata il nostro curato,” disse la buona donna: “perché questo signore, Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto!), ed è venuto al nostro paese […]”. (XXIV 13)

Tali appelli sono concentrati, come si vede, in momenti caratterizzati da particolare pathos ed espressività, e aprono uno spiraglio sull’opera di regia – per restare nei termini della resa teatrale di certi innesti parentetici – che la Provvidenza presta alla realtà storica degli eventi[15]. Si addicono poi, i primi due soprattutto, allo spirito profondo del personaggio: lo stesso si può dire delle domande retoriche, che s’infittiscono – quasi pausa riflessiva e altera, la cui autonomia illocutiva è fortemente attenuata dalla ripresa verbale al condizionale e dalla formulazione ellittica – nel discorso d’ammonimento del Cardinale a don Abbondio:

(4) Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. (XXV 55)

(5) Ah! se v’avessero provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io dirvelo?) d’amarli, appunto per questo. (XXVI 22) [16]

Coerentemente con le movenze tipiche della loro perizia oratoria, si accertano invece che gli interlocutori ascoltino a dovere, tramite incidente parentetica, gli abili affabulatori, come sono – pur mossi da scopi ben diversi – fra Galdino (6) e Ambrogio Fusella (7):

(6) Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. (III 51)

(7) A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. (XIV 45)

3.1.2 Voci tra parentesi: il narratore

Dall’analisi delle parentesi associate alla voce del narratore, emergono invece considerazioni più complesse. Innanzitutto, le parentesi narratoriali possono produrre, dal punto di vista enunciativo, tanto uno “sdoppiamento virtuale” quanto uno “sdoppiamento reale”.

3.1.2.1 Diegesi narrativa e “sdoppiamenti reali”

Le attestazioni in cui le parentesi hanno un ruolo propriamente polifonico, cioè di “sdoppiamento reale”, sono in realtà esigue e si possono ricondurre a due modi d’uso: entrambi sono accomunati dalla mediazione forte del narratore. La prima riguarda la possibilità di delimitare una fonte enunciativa effettivamente alternativa rispetto a quella che guida il piano principale, attribuendole la responsabilità di un determinato contenuto testuale[17]. La modalità è affine, ma non identica, a quella affidata nell’italiano contemporaneo alle lineette doppie (cfr. Longo 2018, pp. 139-140), e attestata per le parentesi ancora nei testi d’uso settecenteschi (cfr. Pecorari 2020a, p. 198); non però identica, si diceva, perché se nel caso di lineette e parentesi settecentesche l’intrusione dello scrivente può avvenire anche nei limiti imposti da un discorso diretto o da una citazione, nel romanzo manzoniano è inserita entro materiale linguistico rielaborato e/o citato indirettamente. La somiglianza si rinviene invece nel riferimento alla fonte, che si accompagna in genere (a fare da cornice) a un verbum dicendi, naturalmente compreso entro parentesi:

(8) Nella lettera, il segretario d’Agnese, dopo qualche lamento sulla poca chiarezza della proposta, passava a descrivere, con chiarezza a un di presso uguale, la tremenda storia di quella persona (così diceva); e qui rendeva ragione de’ cinquanta scudi […]. (XXVII 25)

(9) Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, veniva l’arcivescovo Federigo. (XXXII 18)

Da un lato, tale modalità d’uso delle parentesi si confà all’impalcatura storico-argomentativa retrostante la narrazione; dall’altro, come si può già parzialmente osservare in (9), essa si mostra disponibile ad assecondare l’atteggiamento del narratore onnisciente e analista, che interviene sulla fonte con commenti in prima persona, anche offuscandone l’indicazione stessa:

(10) Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno), l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. (VII 79) [18]

In qualche caso, l’espediente gli consente inoltre di gestire lo sdoppiamento (e il compartimento di responsabilità) ab origine dei livelli narrativi, id est quello dell’anonimo manoscritto[19], e di prenderne ove necessario le distanze, in una commistione tra sdoppiamento reale e virtuale:

(11) Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultimi anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore. (IV 8) [20]

(12) Gli s’era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende; gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più); e n’aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e d’aiuto, in qualunque occasione. (XIX 51)

(13) L’uomo (dice il nostro anonimo: e già sapete per prova che aveva un gusto un po’ strano in fatto di similitudini; ma passategli anche questa, che avrebbe a esser l’ultima), l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un inferno che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. (XXXVIII 62)

La seconda modalità d’intervento, invece, è incoraggiata dalla – e si trova entro la – citazione diretta delle gride. Data la complessa articolazione linguistica di questi provvedimenti legislativi, qui le parentesi ospitano di solito “note del narratore”[21], destinate a chiarire termini ed espressioni rimasti indistinti o di difficile interpretazione. Le note sono rese evidenti grazie all’impiego del carattere tondo su base corsiva della citazione[22]:

(14) Il 23 maggio poi dell’anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che… ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità dei delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro… (I 20) [23]  

(15) Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che copra il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d’inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all’arbitrio di Sua Eccellenza. (III 28) [24]

3.1.2.2 Diegesi narrativa e “sdoppiamenti virtuali”

Quanto agli “sdoppiamenti virtuali”, è entro la voce (o meglio: le voci) del narratore, ‘controcanto’ dei personaggi, che la polifonia simulata dalle parentesi manifesta la reale ampiezza delle sue possibilità. Certo, non meno di Galdino e Fusella, anche il narratore è accorto oratore, e come loro invita il proprio interlocutore, cioè il lettore, a focalizzare l’attenzione dove il racconto lo richieda[25]; e al pari del Cardinale fa propria la tecnica della domanda retorica incidentale con duplicazione del verbo al condizionale[26]. Ancora, nelle parentesi del narratore si ritrovano delle esclamazioni, espresse talvolta nella forma di aforisma moralizzante[27] e, in un singolo caso, di apostrofe rivolta a un personaggio[28]. Ma l’impiego delle lunulae con funzione enunciativa “virtuale” da parte della prima voce narrante risponde anche ad altri e più articolati scopi.

In primo luogo, lo sdoppiamento prodotto dalle parentesi è strumento efficace per gestire quell’ironia valutativa con riserva moraleggiante che è caratteristica tipica del narratore manzoniano: rende infatti chiaro il contrasto tra lo sfondo, relativamente oggettivo, e l’inciso di commento, che può essere anche neutro nella sua formulazione specifica (o persino non avere l’aspetto di un commento vero e proprio), ma assume i tratti del faceto proprio in virtù della sua posizione nell’organizzazione testuale. È il caso della seconda incidentale tra parentesi in (16), dove l’insinuazione, a prima vista riflessiva e convenzionale, diviene subito dopo ironica e poi amara, e getta infine “un grave giudizio morale su tutta la vicenda” (Manzoni/Poggi Salani 2013, p. 202n); e di (17), in cui si profila come un’interrogativa sospesa che ammicca, senza esplicitarlo, al motto popolare vox populi vox Dei:

(16) La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo)[29] escludere da que’ due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d’una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s’era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla […]. (XXVII 2)

(17) Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli auguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi […]. (XXXI 32)

Significativamente, la modalità di interrogazione valutativa dell’ultimo esempio è il frutto di un’acquisizione progressiva sul testo, volta a ottenere una maggiore allusività globale[30]. In effetti, le parentesi possono talora funzionare da segnale filologico di mutamenti testuali[31], e più in generale di quel processo denso di ripensamenti che è l’iter correttorio manzoniano. A rafforzare l’ipotesi, si veda (18), dove l’innesto parentetico include un sottinteso ironico che si comprende solo tornando alla sua prima formulazione (19) in FL (cfr. Manzoni/Poggi Salani 2013, p. 206n):

(18) Entrati, videro gli altri, de’ quali avevan già sentita la voce, cioè que’ due bravacci, che seduti a un canto della tavola, giocavano alla mora, gridando tutt’e due insieme (lì, è il giuoco che lo richiede), e mescendosi or l’uno or l’altro da bere, con un gran fiasco ch’era tra loro. (VII 63)

(19) Ad un deschetto stavano seduti due facce di scherani, giuocando alla mora, e gridando quindi tutti e due ad un fiato, come si farebbe in una controversia[32]: fra i due giuocatori stava un gran fiasco di vino dal quale andavano essi versando a vicenda. (i, VII 56)

A partire da SP e poi in V l’intero passaggio subisce una complessiva rielaborazione, avvicinandosi alla forma che prenderà nella redazione finale, e il paragone viene cassato. Soltanto in Q compare però l’inciso tra parentesi, che rivà in parte alla versione originaria, la quale evidentemente Manzoni ritenne di dover recuperare (e lo si osserva dal tono avversativo del seguito da virgola), similitudine esclusa.

Altrove, le parentesi assolvono a una funzione “metalinguistica”[33]: segnalano un’attenuazione o una riflessione che riguarda la validità delle scelte terminologiche operate. Nel romanzo, tale funzione coinvolge direttamente – sottintendendovi spesso, o manifestando apertamente, un intento valutativo – la distanza tra il tempo (e la lingua) della narrazione e il tempo (e la lingua) del racconto:

(20) Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. (IV 48)

(21) Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. (IV 48)

(22) Non solo da’ molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all’ambizione, e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il pensiero, e si rivolse altrove. (XXII 40)

(23) Il 23 di novembre, grida che sequestra, agli ordini del vicario e de’ dodici di provvisione, la metà del riso vestito (risone lo dicevano qui, e lo dicon tuttora) che ognuno possegga […] (XXVIII 5)

Se si considerano la centralità che l’elemento linguistico riveste nella stesura dei Promessi Sposi e la proiezione dell’attenzione lessicografica autoriale sul narratore, non stupisce che la modalità “metalinguistica” delle parentesi trovi riscontro nel testo manzoniano sin da FL[34].

Infine, come già nota Gibbons, le parentesi enunciative che si aprono alla ‘doppia voce’ del narratore gli consentono di gestire la materia del vero (del vero ‘etico’ soprattutto)[35]. A un livello basilare, contengono incisi commentativi di (auto)conferma, che si rifanno all’intero contenuto del piano principale:

(24) Né in questo sarebbe stata la difficoltà: giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano. (Introduzione 14)

Oppure, entro un discorso citato indirettamente, a una sua parte. È quanto accade in (25), dove esse garantiscono l’autenticità di quel che segue, in contrasto con quanto riportato prima:

(25) E a fine d’indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. (IX 62)

Non sembra un caso che quest’ultimo passaggio provenga dal capitolo IX, ove la vicenda della monacazione di Gertrude si intreccia con le persuasioni e i sottili inganni psicologici della sua famiglia, e ove la distinzione fra ciò che è vero da ciò che non lo è può apparire ambigua. Per Manzoni, si sa, la verità non è un dogma: è piuttosto un dato che va discusso, e raggiunto, in un lungo procedimento dialettico che passa attraverso il dubbio, la diffidenza, persino la negazione. E poiché in questo processo il lettore ha bisogno di essere orientato, ecco innesti parentetici che contengono interrogativi dubitativi con accezione retorica, che talvolta, come accade in (26), giungono curiosamente al risultato di smentire la fondatezza della supposizione (in questo caso di Agnese), invece di consolidarla; litoti (per usare un termine formale), quale in (27); massime di validità più generale (28):

(26) Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue congetture allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro, dovrebbe presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da lavorare e da stabilirsi, se (e come dubitarne?) stava fermo nelle sue promesse, perché non si potrebbe andare a star con lui? (XXV 19)

(27) Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo ogni situazione. (IX 82)

(28) Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e l’afferma anche il Tadino, che monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. (XXXII 44)

L’esempio in (28) consente di accennare brevemente a un altro – l’ultimo per ora – ordine di considerazioni. In alcuni casi l’inserzione di un inciso, per sua natura destinato a interrompere la linearità dell’enunciato con un contenuto di portata gerarchicamente inferiore, interviene in aggiunta sul costrutto che lo ospita, inducendo un meccanismo di duplicazione: un elemento linguistico che precede (anche non immediatamente) la parentesi di apertura viene ripetuto, spesso identico, subito dopo quella di chiusura:

(29) La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata a quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti. (X 14)

(30) Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. (XII 9)

(31) S’era immaginato (come sempre in tempo di carestia rinasce uno studio di ridurre in pane de’ prodotti che d’ordinario si consumano sott’altra forma), s’era, dico, immaginato di far entrare il riso nel composto del pane detto di mistura. (XXVIII 5)

Si tratta di un fenomeno per la maggior parte endogeno[36] (l’innesto parentetico e il piano della locuzione primaria sono generati dalla medesima voce, cioè quella del narratore[37]), e presente, pur più sporadicamente, sin da FL, il cui esito più evidente è quello di riprodurre una fictio narrativa “in presa diretta” (forse favorita pure dalla lunghezza incidentale), talvolta ulteriormente accentuata da una parziale variazione dell’elemento duplicato, cui viene annesso un verbum dicendi, in prima persona e al tempo presente.

3.2 La dimensione referenziale

Sono pochi i casi in cui le parentesi aggiungono informazioni utili alla riuscita di un atto di riferimento che rischia di apparire oscuro, e sono tutte di pertinenza narratoriale[38]. Le parentetiche che si muovono entro tale dimensione agiscono a vantaggio del lettore, rimuovendo ostacoli che potrebbero comprometterne il processo di comprensione. È quanto accade quando le parentesi contengono precisazioni di carattere geografico:

(32) Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s’era messo l’assedio a un forno. (XII 46)

(33) Il protofisico Lodovico Settala […] riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. (XXI 10)

o linguistico, tramite glossa di un termine specialistico, in genere di ambito storico-politico (34), oppure traduzione di tessera alloglotta (35):

(34) Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare. (XII 14)

(35) Né sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del vocabolo monathlich (mensuale); giacché, nell’incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese. (XXXII 29) [39]

O, ancora, quando svelano l’identità di un referente indicato con termine generico nel piano principale del testo:

(36) “Monza è di qua…” e si voltava, per accennar col dito; quando l’altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d’improvviso per la vita, l’alzò da terra. (XX 31)

(37) Per riparar dunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comprar roba di nessuna sorte da’ soldati ch’eran per passare […]. (XXVIII 71)

Talvolta, però, le ricadute dell’esplicitazione contenuta tra parentesi sono più ampie, ed essa risulta non solo utile, ma indispensabile, nonostante la sua collocazione tra parentesi le attribuisca un ruolo marginale a livello testuale. Se ne può trarre un saggio dagli esempi che seguono, dove gli incisi sciolgono il nome proprio di un personaggio del romanzo non ancora introdotto o, se introdotto, non meglio identificato:

(38) Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. (II 77)

(39) Un certo conte Attilio, che stava seduto in faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui, senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, accortosi dell’intenzione modesta del buon frate, “ehi! ehi!” gridò: “non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti”. (V 26)

Si osservi come in (39) – ma vi sono anche altri esempi indirizzati in tal senso – la precisazione referenziale sia complicata da un’aggiunta in prima persona plurale, che stabilisce un forte legame con la dimensione enunciativa.

3.3 La dimensione logico-argomentativa

Sul piano logico-argomentativo, le parentesi racchiudono un contenuto connesso da una relazione logica al piano principale[40], il cui grado d’incidenza sulla progressione testuale è però basso (cfr. Pecorari 2018, p. 113). Fra le parentesi dei Promessi Sposi, non sono molte quelle che si muovono entro tale piano, ed è dunque difficile avanzare solide considerazioni di carattere generale.

Si può comunque notare una parziale prevalenza delle relazioni di specificazione, realizzate mediante diversi costrutti sintattici (soprattutto, in ordine di frequenza e di esemplificazione, relativa appositiva, frase sintatticamente non integrata o apposizione nominale):

(40) Certo, di quelle baruffe (che avevan sempre a un di presso lo stesso principio, mezzo e fine), non rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l’acerba predicatrice, la quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza […]. (XXVII 36)

(41) Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l’entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi […]. (XXII 26) [41]

(42) cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. (XIX 37) [42]

e di motivazione:

(43) Il frate chiamò con un cenno il giovine, il quale se ne stava nel cantuccio il più lontano, guardando (giacché non poteva far altro) fisso fisso al dialogo in cui era tanto interessato […]. (XXVI 66)

Concettualmente fra le due tipologie c’è una differenza che non è soltanto semantica: se la relazione di specificazione prevede già di per sé che il secondo congiunto, cioè quello tra parentesi, sia subordinato al primo, quella di motivazione può presentare anche un contenuto dominante, la cui dominanza esce però annullata dalla collocazione tra parentesi. Le parentesi manzoniane, tuttavia, si oppongono a questa generalizzazione, non essendo dotate di particolare dinamismo: il segno interpuntivo perlopiù conferma solo la subalternità dell’innesto, a cui sarebbe arduo agganciare un movimento logico ulteriore anche se quello non si trovasse fra parentesi.

Un numero davvero esiguo di parentesi, infine, ospita un inciso che si lega al piano principale del testo secondo una relazione di aggiunta, e crea una gerarchia tra contenuti che starebbero altrimenti sullo stesso piano[43].

Un caso interessante è invece rappresentato dall’esempio che segue, tratto dall’incontro tra Federigo, Lucia e la madre, la quale riferisce al cardinale delle sorti di Renzo:

(44) Domandò allora dove fosse il promesso sposo, e sentendo da Agnese (Lucia stava zitta, con la testa e gli occhi bassi) ch’era scappato dal suo paese, ne provò e ne mostrò una maraviglia e dispiacere; e volle sapere il perché. (XXIV 75)

L’addizione parentetica, oltre a fornire un complemento descrittivo rispetto alla terza figura che compare entro la scena narrata nel piano principale, delinea un’opposizione tra il dinamismo dei due personaggi che prendono la parola (il cardinale e Agnese) e l’intimorita staticità di Lucia. Guardando all’evoluzione del testo, significativamente la parentetica compare in modo stabile a partire da SP, ed è simultanea a un preciso intervento contenutistico: in FL, infatti, il cardinale intima ad Agnese il silenzio con uno sguardo e alla fine è Lucia che, tra i singhiozzi, si sforza di parlare[44]. Sebbene escluso dalla progressione testuale, dunque, l’elemento tra parentesi si configura come parte integrante del testo (e la sua centralità viene ristabilita poco dopo anche a livello testuale, quando Lucia interviene a confermare “con voce sicura” la rispettabilità del giovane), accentuandone piuttosto l’intensità complessiva.

3.4 Casi particolari

A concludere questa breve disamina degli impieghi parentetici manzoniani, si segnalano alcuni casi particolari.

Nei capitoli XVIII, XXVIII e XXXIV, si incontrano attestazioni parentetiche che includono un intero periodo: la parentesi di apertura è preceduta dal punto fermo e prosegue sino al punto fermo successivo, collocato fuori dalla parentesi di chiusura. Il segmento linguistico che vi è incluso inizia con la lettera maiuscola. Si tratta di una modalità d’uso registrata nella grammatica di Cappuccini e Morandi, i quali dichiaratamente la desumono dai Promessi Sposi[45], e ancora oggi considerata “non molto frequente ma tuttavia possibile” (cfr. Cignetti 2011, p. 50):

(44) Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporaneamente il governo). (XVIII 38)

(45) Veniva rimosso per i cattivi successi della guerra, della quale era stato il promotore e il capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta sotto il suo governo. (Quello che aveva fatto per la peste, o non si sapeva, o certo nessuno se n’inquietava, come vedremo più avanti, fuorché il tribunale della sanità, e i due medici specialmente). (XXVIII 73)

(46) Renzo s’abbatteva appunto a passare per una delle parti più squallide e più desolate: quella crociata di strade che si chiamava il Carrobio di porta Nuova. (C’era allora una croce nel mezzo, e, dirimpetto ad essa, accanto a dove è san Francesco di Paola, una vecchia chiesa col titolo di sant’Anastasia). (XXXIV 34)

Come si vede, gli incisi sono tutti riconducibili alla dimensione logico-argomentativa, in (45) congiunta a quella enunciativa, e si trovano in sequenze narrativo-descrittive. Pur nella loro peculiarità, la natura testualmente subalterna di inciso è confermata dal fatto che non vi sia alcun legame tra questi e il testo che segue.

In altri due casi, le parentesi includono una frase sintatticamente completa ma che si trova nello spazio di un discorso diretto ed è caratterizzata da minuscola iniziale:

(47) “Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio…” (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch’era a farcele star tutte) “s’è fatto scrupolo di darle una briga di più. […]” (XVIII 50)

(48) “[…] Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere…” (l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); “che gloria,” proseguiva Federigo […]. (XXIII 15)

In effetti, si tratta di intrusioni del narratore onnisciente che mostrano l’atteggiamento (e, in (48), più precisamente lo stato emotivo) dell’interlocutore diretto di colui che parla, e che le fanno rassomigliare a parentesi “didascaliche”[46], affini a quelle che si incontrano nei testi teatrali (per tornare un’ultima volta a tale genere testuale). Le parentesi di (48), poi, ospitano un contenuto tematicamente tutt’altro che secondario: è anzi una anticipazione utile a comprendere quanto l’innominato gradisca, nella sua dura franchezza, il lungo discorso del cardinal Federigo nel suo svolgersi, dunque ancor prima che sia concluso. Il suo felice stupore viene infatti ribadito poco oltre (XXIII 18), in una rappresentazione breve che però occupa l’intero capoverso successivo.

Seguono infine due casi, per così dire, intermedi fra gli ultimi presentati, in cui un periodo completo, introdotto però di nuovo da maiuscola, si trova tra le virgolette di un discorso diretto (49) o tra le lineette di un discorso pensato (50):

(49) “[…] La conosco quell’arme; so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con la corda al collo.” (In cima alle gride si metteva l’arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola). “Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisci chi vuole.” (XIV 32)

(50) – […] Se lascio scappare una occasion così bella, – (La peste! Vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!) – non ne ritorna più una simile! – (XXXIII 34)

Si tratta, rispettivamente, di un innesto di motivazione e di un innesto di commento. I casi riscontrabili entro tale tipologia sono solo questi due in tutto il romanzo, ma forse sarebbero stati di più se – come già suggeriva Ghisalberti – non fossero intervenute alcune ingerenze tipografiche a regolarizzare gli usi eterogenei dell’Autore. È infatti curioso notare come la modalità d’impiego delle parentetiche appena descritta non dovesse apparire consueta neppure al redattore che corresse – dialogando ‘per carta’ con lo stesso Manzoni – le bozze di stampa della Quarantana[47]. Lo si desume da un fascicolo contenente il capitolo X, e proprio in corrispondenza di un caso simile a quelli appena mostrati[48], dove si trova una nota di mano del tipografo, il quale, considerato l’accumulo di segni interpuntivi in uno spazio davvero ristretto, propone di sopprimere le virgolette: “Essendovi le parentesi mi sembrano inutili le virgolette..”. Alla qual nota Manzoni risponde, sempre ‘per carta’, di suo pugno e altrettanto estesamente, piegandosi solo in parte al suggerimento: “Mi par che sia meglio levar le parentesi”[49]. La doppia revisione dà i suoi esiti: queste ultime risultano in effetti espunte dal passaggio in tutte le edizioni di riferimento (ma restano, come s’è visto, altrove).

4. Conclusioni

L’indagine corpus-based condotta sulle parentesi dei Promessi Sposi ha messo in luce diversi aspetti relativi all’impiego del segno entro l’architettura testuale.

Innanzitutto, si è potuto osservare come, sebbene le parentesi manzoniane rivestano funzioni pertinenti tanto alla dimensione enunciativa quanto a quelle logico-argomentativa e referenziale, la prima sia nettamente maggioritaria e qualitativamente più differenziata; il che tutto sommato non sorprende in un romanzo come quello di Manzoni, e più in generale in un testo letterario, ma piuttosto accerta la predilezione autoriale per un uso delle parentesi che meglio si presta al servizio delle voci, piuttosto che alla struttura storico-dimostrativa sottesa alla narrazione. In buona parte dei casi, le parentesi costituiscono una sorta di ‘cantuccio’ (che è tale anche perché gerarchicamente subordinato al livello principale del testo), dal quale l’Autore, tramite la voce del narratore onnisciente, commenta, orienta, valuta, suggerisce, persuade. Talvolta convergono verso la dimensione enunciativa anche parentesi che avrebbero altro scopo logico, per esempio di specificazione; e sempre alla stessa dimensione è deputata, almeno parzialmente, la gestione delle fonti e più in generale della responsabilità di alcuni contenuti testuali che partecipano a validare, con sguardo critico, quel vero storico che sta alla base di tutta la narrazione (espediente dell’anonimo manoscritto compreso).

Si è inoltre cercato di mostrare come, in certi casi, le parentesi costituiscano un importante indizio filologico, poiché consentono all’Autore, nel passaggio da una redazione all’altra, di gestire macro-modifiche contenutistiche (è quanto accade, per esempio, nel dialogo tra Lucia, Agnese e il cardinal Federigo) o di variare le proprie strategie testuali, magari conducendo alcuni costrutti verso un minore tasso di esplicitezza (un esempio è nella rielaborazione del proverbio latineggiante vox populi vox Dei).

Complessivamente, infine, si è visto come la scelta dei contenuti da porre tra parentesi prenda le mosse da una prassi piuttosto stabile, che nel caso manzoniano si lega a fili stretti ad alcuni punti fermi della tecnica narrativa (si pensi alla retorica dell’ironia e all’idea della verità come concetto dialettico). Non mancano però eccezioni in questo senso, che alcune grammatiche, fedeli al modello manzoniano, si preoccupano di recuperare e normare, ma che non sono in definitiva entrate nell’uso corrente italiano, malgrado l’influenza che su di esso hanno avuto l’Autore e il romanzo. L’osservazione di tali casi consente di gettare uno sguardo anche sull’ascendenza della revisione tipografica sull’apparato interpuntivo dei Promessi Sposi nella loro versione licenziata: probabilmente a tale revisione, e già lo notava il Ghisalberti, si devono alcune delle oscillazioni d’uso riscontrabili sul testo. Resta naturalmente aperta la possibilità di interrogare in questa prospettiva anche gli altri segni di punteggiatura.


Nota bibliografica: 

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Note:

[1] Cfr. Ferrari 2018a, pp. 185-194. In base alla concezione comunicativo-testuale, la punteggiatura è sensibile al tipo di connessione che vige tra i costituenti del testo e partecipa alla sua architettura semantico-informativa. I segni interpuntivi segmentano e creano legami, gerarchizzano, introducono valori interattivi, come le inferenze e gli effetti polifonici, e, in aggiunta, possono riprodurre aspetti prosodici di un parlato rappresentato o avere funzioni puramente grafiche. L’evoluzione ottocentesca verso tale ratio riguarda prevalentemente i segni segmentanti, vale a dire virgola, punto, punto e virgola e due punti. Per un dettagliato approfondimento degli usi comunicativo-testuali della punteggiatura nell’italiano contemporaneo, si rimanda a Ferrari 2018b.
[2] L’attenzione nei confronti degli aspetti testuali delle prose manzoniane si è d’altra parte recentemente sollevata grazie a lavori che hanno combinato le acquisizioni più aggiornate nell’ambito degli studi sull’Autore con gli strumenti della linguistica del testo, tra i quali si cita almeno Bricchi 2021.
[3] Per la Quarantana (d’ora in poi Q), il testo e la paragrafazione sono di Manzoni/Poggi Salani 2013. Per le redazioni precedenti, le edizioni di riferimento sono invece quelle del piano dell’edizione critica diretta da Dante Isella, e in particolare: per la Ventisettana (d’ora in poi V), Manzoni/Martinelli 2022; per gli Sposi Promessi (d’ora in poi SP), Manzoni/Colli-Raboni 2012; per il Fermo e Lucia (d’ora in poi FL), Manzoni/Colli-Italia-Raboni 2006.
[4] È ciò che accade, tra le altre, nell’ottima (per la lunghezza e l’esaustività della trattazione interpuntiva) Lessígrafia italiana di Giovanni Gherardini: “Un senso inserito dentro a un periodo o per modo d’avvertimento, o per digressione, o per altro motivo, e che ne potrebb’essere tolto via senza pregiudizio all’intero costrutto, si chiama una parentesi. Se la parentesi è breve, si suole racchiuderla fra due virgole; se è lunga, la poniamo fra le due semilune o fra li uncinetti quì dietro segnati nel titolo di questo paragrafo, e che parentesi medesimamente chiamiamo” (Gherardini 1843, pp. 544-545). I corsivi sono dell’originale. Per le varianti della nomenclatura interpuntiva nel Settecento, si veda anche Fornara 2008, pp. 172-174.
[5] Pecorari 2020b, p. 630. Pecorari si occupa di un arco cronologico ben più ampio (dal Cinquecento a inizio Novecento), ma buona parte delle considerazioni svolte nel suo studio sono applicabili anche al solo periodo qui considerato.
[6] Così nella grammatica settecentesca del Rogacci: “Specie di virgola è ancor la Parentesi, cioè due quasi C, il primo secondo la figura ordinaria, il secondo al rovescio, dentro a quali si chiudono le proposizioni, che, staccate dal senso principale, soglion talora inserirsegli dentro: ò queste siano esclamazione […]; ò pongano qualche eccezzione e modificazione a ciò, che vuol dirsi […]; ò ne contengano qualche conferma […]” (Rogacci 1720, p. 350). Per l’Ottocento, si legga invece cosa ne scrive il Cauro: “La parentesi serve a rinchiudere parole o sensi, i quali, perchè presentano concetti indipendenti, potrebbero sopprimersi; ma vi s’inchiudono, in quanto chè si reputano giovevoli a schiarire il senso principale” (Cauro 1845, p. 244).
[7] “Un caso particolare di questo fatto generale, è quando, riferito un brano altrui e chiuso col punto fermo, si aggiunge tra parentesi qualche indicazione” (Cappuccini-Morandi 1895, pp. 273-274).
[8] Ghisalberti 1941, p. 184. Oltre alle parentesi, tra i “segni grafici” si trovano le virgolette e i trattini (in un unico sottoparagrafo), e i puntini di sospensione.
[9] Ivi, pp. 191-192.
[10] La circostanza di altro segno interpuntivo intermedio a precedere le parentesi è in effetti piuttosto frequente in V, mentre lo è molto meno in Q (in Manzoni/Poggi Salani 2013 si attestano due casi soltanto, e riguardano la virgola): l’osservazione di Ghisalberti è dunque ben più che pertinente, e naturalmente andrebbe meglio chiarito il ruolo specifico che hanno avuto anche i singoli editori (e non solo il ‘primo’ redattore) in relazione a tali scelte tipografico-interpuntive.
[11] Ghisalberti 1941, p. 192. D’altronde, se è vero che l’espressione metaforica del capitolo XIX 23, “e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo”, sarebbe indice di salda coscienza manzoniana nei confronti della centralità e del ruolo della punteggiatura nel testo, non sembra lo sia di meno la locuzione avverbiale per parentesi, usata al modo del contemporaneo per inciso e probabilmente legata all’oscillazione terminologica registrata dalle grammatiche di cui supra. La locuzione si ritrova per ben due volte, e sempre entro il segno interpuntivo delle parentesi, in FL [ii, IV 7: “(atto per parentesi che il Marchese faceva rarissimo)”; ii, VIII 85: “(il qual prurito quasi invincibile, per parentesi, è cagione a molti furbi di scoprirsi da sé, e di rovinare così i loro affari; che è un peccato)”], e ancora in una prima correzione di SP [iii, XXXVII 42, f. 171b: “(il quale, per parentesi, non avrà alla fine il compenso di riveder Lucia; e se per farci rabbia, come s’usa, volesse dire che il levar gli occhi da questa storia è una consolazione non inferiore a quella, noi gli risponderemmo francamente ch’egli esagera)”]. Non se ne ha più traccia, invece, da V in poi. Per l’uso della locuzione tra parentesi nell’italiano di oggi, cfr. Fiorentini-Sansò 2019.
[12] Per un’eccezione relativa a un testo letterario, e più specificamente poetico, cfr. Frigerio 2022.
[13] L’eventuale ricorso ad altra terminologia viene segnalato ad locum.
[14] Cfr. infra, § 3.1.2.1. In effetti, come già fa notare Gibbons, non è una coincidenza che si sia recentemente insistito sullo studio degli schemi di realizzazione prosodica del fenomeno (cfr. Gibbons 2017, p. 82; in proposito, si vedano per esempio Moneglia 2021 e Schneider 2007).
[15] Pur con strumenti d’analisi differenti, di tipo contrastivo, alle medesime considerazioni giunge anche Gibbons 2017, p. 84.
[16] Come noto, le domande retoriche si concentrano sin da FL nel lungo rimprovero di Federigo, infervorato predicatore, a don Abbondio; tuttavia, solo a partire da SP, dove compare per la prima volta (5), Manzoni fa uso dell’espediente dello sdoppiamento enunciativo tramite parentesi.
[17] Per l’effetto di “deresponsabilizzazione” prodotto dall’inciso di natura polifonica, cfr. anche Cignetti 2011, pp. 131-133.
[18] L’allusione ironica è a Shakespeare, stando all’opinione polemica espressa da Voltaire in merito alla poetica classicista (cfr. Manzoni/Poggi Salani, p. 212n): la fonte enunciativa secondaria viene dunque in questo caso ulteriormente mediata.
[19] I riferimenti al livello narrativo del manoscritto sono naturalmente molteplici, e non di esclusiva pertinenza delle parentesi; altrove nel testo, l’inciso con riferimento esplicito alla voce dell’anonimo si trova tra virgole (cfr., per esempio, XVIII 12; XXXIII 70; XXXVIII 52).
[20] La cornice costituita dal verbum dicendi è qui sostituita da un altro tipo di formulazione.
[21] Mi rifaccio qui alle considerazioni di Pecorari 2020a, p. 202, che osserva come, nei testi giornalistici settecenteschi, compaiano tra parentesi delle aggiunte esplicative, di mano dello scrivente, simili alle odierne “note del redattore”. Pur nella chiara differenza dei generi testuali, gli usi sono infatti strettamente raffrontabili.
[22] Come d’altronde accade ogni volta che una citazione diretta proviene da altro testo scritto, secondo un uso differenziato dal discorso diretto orale e dal discorso pensato che forse Manzoni desume dai grammatici illuministi (cfr. Redaelli 2021, pp. 585-586). Tale differenziazione d’uso compare a partire dalla Ventisettana.
[23] La coppia di sostantivi non è ‘originale’: la glossa di chiarificazione riprende in questo caso il lessico stesso della grida, e infatti si ritrova, identica, per ben tre volte nei paragrafi precedenti (cfr. I 14 e 19).
[24] Secondo Gibbons, l’inciso parentetico servirebbe in questo caso anche a offrire “un commento obliquo sulla natura impersonale del governo spagnolo in Lombardia, dove il potere è senza faccia e dove ogni suo rappresentante è sostanzialmente intercambiabile” (Gibbons 2017, p. 85).
[25] “Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro […]” (IV 21). In alcuni casi, l’appello al lettore ha anche la funzione di orientarlo nella comprensione, ed è corredato da una nota di carattere esplicativo. Così accade quando il narratore riferisce dell’attenzione pretestuosamente rivolta dal governatore don Gonzalo alla fuga di Renzo: “Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme, nella sua faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa è politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quel fracasso che sapete a proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne di conseguenza” (XXVII 11).
[26] “In mezzo però alla festa e alla baldanza, c’era (e come non ci sarebbe stata?) un’inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a durare” (XXVIII 2).
[27] Come nell’episodio che coinvolge il giovane fra Cristoforo, prima Lodovico, in cui l’inciso esclamativo tra parentesi ha anche la funzione di anticipare, in maniera quasi topicalizzante, le sorti della vicenda: “e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso” (IV 21).
[28] L’apostrofe, introdotta dall’ammiccante e biasimevole interiezione ah, è rivolta ad Agnese: “Trovò però il verso d’accomodarla con un piccolo stralcio: raccontò del matrimonio concertato, del rifiuto di don Abbondio, non lasciò fuori il pretesto de’ superiori che lui aveva messo in campo (ah Agnese!); e saltò all’attentato di don Rodrigo, e come, essendo stati avvertiti, avevano potuto scappare(XXIV 72).
[29] Questa prima parentetica contiene invece un rinvio intratestuale (nello specifico, a V 52).
[30] In FL si legge infatti: “Molti fra i medici stessi, facendo eco alla voce del popolo, la quale in questo caso – se è lecito fare una eccezione ad un proverbio – non era certamente voce di Dio, ridevano al nome di peste […]” (iv, III 22).
[31] Cfr. anche Gibbons 2017, pp. 76-82, che osserva come le parentesi, nel passaggio da una redazione all’altra, consentano all’autore di gestire anche faticose digressioni.
[32] Da segnalare anche la variante alternativa di FL: “controversia tra dotti” (cfr. Manzoni/Poggi Salani 2013, p. 206n).
[33] La definizione si deve, in questo caso, a Tucci, che se ne serve per descrivere più in generale la funzione di talune Unità Parentetiche del parlato (Tucci 2010, pp. 648-650). Sulle glosse metalinguistiche nei Promessi Sposi, invece, cfr. Antonelli 2008.
[34] Di seguito alcuni esempi da FL: “Uscivano secondo il solito dalle botteghe dei fornaj quei fattorini che con una gerla carica di pane andavano a portarne la quantità convenuta, ai monasteri, alle case dei ricchi, insomma (per dirla con un termine milanese, che la lingua toscana dovrebbe ricevere poiché non è altro che una applicazione speciale e analoga d’un vocabolo toscano) alle poste loro” (iii, VI 9); “Scesa la scaletta, […] i birri afferrarono, l’uno la destra l’altro la sinistra di Fermo, e le allacciarono con certi strumenti, che (per quell’uso comune d’ingentilire le cose col nome) si chiamavano manichini […]” (iii, VIII 31); “Per alcuni il capo degli untori (il bisogno creò allora il vocabolo) era senza dubbio il tal principe che voleva far morire gli abitanti del ducato, per impossessarsene a man salva […]” (iv, IV 47).
[35] Gibbons in realtà si spinge oltre, affermando che “se vi è un tema che attraversa la presenza narratoriale espressa tramite lo strumento parentetico è quello della verità” (Gibbons 2017, p. 87).
[36] Soltanto 2 attestazioni, su 17 totali rilevate, sfuggono alla regola. Nella prima, l’inciso narratoriale frammenta un discorso diretto (e si deve precisare che, in questo caso, la ripetizione potrebbe essere parte stessa del discorso): “Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: – diavolo d’un frate!  (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello.” (IV 61); nella seconda, una citazione diretta: «E perché, tanto nel lazzaretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, “si diceua(gli ultimi argomenti d’una opinione battuta dall’evidenza son sempre curiosi a sapersi), “si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti”» (XXXI 70).
[37] Soltanto 2 attestazioni, su 17 totali, sono riferibili alla voce dei personaggi. Si tratta tuttavia di fenomeni parzialmente diversi, ove la ripetizione non è tanto funzionale alla riproduzione della fictio narrativa, bensì, piuttosto, alla riproduzione verosimile del parlato dei personaggi. A confermarlo, si noti la distanza fra i due ho visto del primo esempio, che entrano così a far parte di costrutti sintattici diversi, uno coordinato all’altro (il che li allontana pure dall’essere una duplicazione vera e propria): “Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene” (III 11); “e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c’era chi aizzava), costoro, dentro come disperati” (XVI 46).
[38] D’altra parte, è proprio tramite altro inciso parentetico di tipo enunciativo di voce del narratore che Manzoni dichiara quanto sia fondamentale la chiarezza espositiva: “(ci dispiace di dover discendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza lo richiede)” (XV 49).
[39] Si tratta, per la verità, di un caso unico, che si trova fra l’altro in una sequenza già largamente dedicata a una riflessione metalinguistica sul termine monatti.
[40] Per le relazioni logico-argomentative e una loro catalogazione, si veda Ferrari 2014, pp. 131-177.
[41] L’impressione generale è che tale costrutto sia preferito per specificazioni relative al dato storico (altri esempi sono in IV 32 e VII 34).
[42] Anche in questo caso, si noti l’interconnessione tra dimensione logica e dimensione enunciativa, realizzata tramite il dico finale.
[43] Per esempio: “Non è per voi una nuova ragione d’amar queste persone (e già tante ragioni n’avete), che v’abbian dato occasione di sentir la voce sincera del vostro vescovo, che v’abbian dato un mezzo di conoscer meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con loro?” (XXVI 22).
[44] «“Le dirò io… cominciava Agnese, ma il Cardinale le diede un’occhiata la quale significava ch’egli sperava la verità più da Lucia che da Lei, onde Agnese ammutì; e Lucia singhiozzando rispose: Fermo, povero giovane non è qui: s’è trovato in quei garbugli di Milano, e ha dovuto fuggire; ma son certa ch’egli non ha fatto male, perché era un giovane di timor di Dio”» (iii, III 85).
[45] “Si mette pure dentro la parentesi il punto fermo, quando le parole racchiuse in essa non formano parte d’un altro periodo, ma sono un periodo di per sè medesime. E di periodi interi messi così tra parentesi, ce n’è molti anche nei Promessi Sposi” (Cappuccini-Morandi 1895, p. 278). Pecorari individua un caso di questo tipo (definito “particolare”) anche in un giornale di fine Ottocento (cfr. Pecorari 2020c, p. 223).
[46] Quando gli incisi costituiscono “un periodo a sé stante e si pongono a livello di Capoverso”, uscendo “dalla dinamica della struttura informativa del costituente” e consentendo “il disvelamento dello scrittore” – come avviene nei casi presentati – Cresti parla di “Incisi di Capoverso” (Cresti 2020, pp. 48-49).
[47] Il cosiddetto “Tesoro manzoniano” è oggi conservato presso il Fondo Manoscritti della Biblioteca Nazionale Braidense, a Milano. Alcuni fascicoli, tra cui quello citato, si trovano inoltre digitalizzati sul sito Manzoni Online, dove sono liberamente consultabili: www.alessandromanzoni.org.
[48] «“[…] V’aspettano…” (È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti.) “V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. […]”» (X 29). L’annotazione si trova a piè di pagina 197 del Capitolo X, in BNB, Manz. B. VI. 3. Per la versione digitalizzata su Manzoni Online: www.alessandromanzoni.org/manoscritti/659/reader#page/24/mode/1up.
[49] La nota risulta ancor più significativa se si pensa che la maggior parte degli interventi, soprattutto interpuntivi, operati sulle prove di stampa, sono ‘muti’, tanto da parte del tipografo quanto di Manzoni.


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