Presentazione:
Alla vigilia dell’anno in cui ricorre il centocinquantenario della morte di Manzoni si è tenuto a Parma (in data 7 dicembre 2022), nell’ambito delle attività della scuola di Dottorato di ricerca in Scienze filologico-letterarie, storico-filosofiche e artistiche, una giornata di studio dal titolo La lingua dei «Promessi sposi»: lavori in corso. Era l’occasione per mettere a confronto ricerche linguistiche condotte su fronti diversi, e con differenti metodologie, da giovani impegnati nella tesi di dottorato, o da poco dottori, nella convinzione che il confronto potesse rappresentare, specie negli anni fecondi della formazione, un lievito prezioso di riflessioni. I saggi qui raccolti sono excerpta di lavori in corso di più ampio respiro: li offriamo ad Angelo Stella, che aveva incoraggiato l’iniziativa e attendeva di valutarne i risultati, in memoria di riconoscenza e di affetto, con l’auspicio che l’anniversario manzoniano, giunto ormai al termine, possa promuovere una nuova leva di valenti studiosi.
Abstract:
L’interesse di Manzoni per i modi espressivi dell’uso vivo, tra cui i proverbi, si colloca inizialmente nella ricerca della lingua per il romanzo ed è più tardi orientato all’individuazione di una lingua per la nazione, promossa anche con il progetto di un vocabolario dell’uso fiorentino e la programmata “revista” del Vocabolario milanese-italiano del Cherubini. Rilevato tale interesse nei postillati e negli scritti linguistici manzoniani, dove i proverbi sui quali ricade l’attenzione dell’Autore coincidono parzialmente con quelli adoperati nei Promessi Sposi, il presente contributo si propone di esaminare i proverbi non dichiarati in quanto tali nella Quarantana, ripercorrendone le correzioni apportate da Manzoni e le attestazioni nella tradizione, per rilevare l’apporto manzoniano all’integrazione lessicografica della seconda edizione del Cherubini.
Il romanzo di Manzoni ospita locuzioni e proverbi di assai varia tipologia, offrendosi per questo aspetto come un campo di indagine estremamente interessante[1]. Per quanto riguarda la componente proverbiale, nei Promessi Sposi del 1840-1842 si rintracciano proverbi veri e propri, dichiarati in quanto tali (es. “lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena”) e non dichiarati, sia citati per esteso (es. il lupo non mangia la carne del lupo) che lasciati in sospeso (es. uomo avvertito…), ma anche riformulati con perifrasi o richiamati per allusione (es. “voce del popolo [era, anche in questo caso, voce di Dio?]”, “guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano!”). Vi si trovano, inoltre, modi proverbiali (es. battere il ferro mentre è caldo, dare un colpo al cerchio e uno alla botte, rimanere col danno e con le beffe) ed espressioni variamente classificate come sentenze, massime, stereotipi, anche di conio manzoniano (es. “volete avere molti in aiuto? cercate di non averne bisogno”). In questa sede, si esaminano i proverbi non dichiarati della Quarantana, illustrandone le correzioni intervenute nelle redazioni del romanzo e le attestazioni nella tradizione, per rilevare l’apporto di Manzoni all’integrazione della seconda edizione del Cherubini, che si colloca nella progettata revisione del Vocabolario milanese-italiano[2].
2. Il proverbio negli studi manzoniani
L’interesse di Manzoni per frasi e vocaboli vivi nell’uso parlato e scritto è documentato negli scritti che accolgono la riflessione linguistica manzoniana: quelli editi dall’Autore, come la Relazione del marzo 1868, con la relativa Appendice del maggio 1869, ma specialmente quelli inediti, consistenti in appunti, spogli e abbozzi di opere rimaste incompiute, ora raccolti e pubblicati nell’Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Manzoni[3]. La stessa meticolosa attenzione ai modi dell’uso si riscontra in notevole misura nelle postille di Manzoni, sia esplicite che ‘mute’. Vere e proprie postille esplicite sono quelle ai vocabolari della Crusca veronese, del Cherubini, nelle edizioni del 1814 e del 1839-1856, e del Mésangère, ma anche le postille alle Comoedie di Plauto, nonché quelle meno numerose alle commedie di Terenzio e al Lexicon del Forcellini[4]. Non meno rilevanti sono le postille ‘mute’ di Manzoni al Teatro comico fiorentino e a molti altri testi di lingua, costituite da notabilia e segni di lettura di vario tipo[5].
Nella riflessione manzoniana sulla fraseologia, già avviata durante la redazione della Prima minuta e documentata da vari frammenti raccolti in tali scritti linguistici – soprattutto nelle bozze delle cinque redazioni del trattato Della lingua italiana – sono esaminate le “locuzioni”, ma non i proverbi, i quali invece sono menzionati in genere da Manzoni tra gli esempi di “modi”, “idiotismi” o “riboboli” della lingua[6]. Oltre a tale materiale, gli appunti e gli elenchi lessicali, sia quelli inerenti alla ricerca della lingua per il romanzo, sia quelli successivi che preparano il Saggio di vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze (1856) e la “revista” della seconda edizione del Cherubini, registrano spesso indistintamente locuzioni, proverbi e modi proverbiali.
3. I “proverbi” nel romanzo
La presenza dei proverbi nella Quarantana si spiega principalmente con la volontà di conformare la lingua del romanzo all’uso vivo, restituendo al discorso dei personaggi o alla voce del narratore uno degli elementi più espressivi del parlato. Ma trova un’ulteriore motivazione stilistica nell’intento di Manzoni di rendere verosimile la storia narrata, inserendo un così efficace mezzo retorico nei dialoghi o nei monologhi dei personaggi. D’altra parte, il proverbio costituisce anche un “momento di pausa, di riflessione e di distacco dell’autore dalla sua opera”, divenendo un espediente privilegiato dell’ironia manzoniana (cfr. Cianfaglioni 2006, pp. 133-134), non solo quando è pronunciato dai personaggi, ma anche quando è riferito dal narratore (sia noto o frutto dell’inventiva autoriale).
L’intento ironico è tanto più evidente quando il proverbio è dichiarato attraverso delle glosse metalinguistiche, presenti fin dalla Prima minuta, che sono incentrate il più delle volte su un verbum dicendi e introdotte da formule del tipo “come dice il proverbio”, “ciò che l’uom dice in proverbio”, “lo dice anche il proverbio”, “si dice in proverbio”, o “secondo quel proverbio”, “è un proverbio”, e simili. Nella Quarantana i proverbi dichiarati in quanto tali sono ambasciator non porta pena (V 35, podestà), chi è in difetto è in sospetto (VIII 43, n.), far di necessità virtù (X 71-72, n.), l’abito non fa il monaco (XIX 15, conte zio), il lupo cambia il pelo, ma non il vizio (XIX 16, n.), del senno di poi ne son piene le fosse (XXIV 80, n.), ed è glossata come proverbio anche un’espressione di conio manzoniano, attribuita all’autore secentista del manoscritto: “il nostro anonimo credé bene di formare un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno” (XXV 39, n.)[7].
4. I proverbi non dichiarati nella Quarantana
4.1 Proverbi citati per esteso
Oltre ai proverbi dichiarati, nell’edizione definitiva del romanzo vi è un numero maggiore, ma pur sempre esiguo, di proverbi non dichiarati come tali. In questa tipologia rientrano, innanzitutto, i proverbi citati per esteso, sia italiani che latini: il diavolo non è brutto quanto si dipinge (III 10, Agnese), chi cerca trova (IV 28, anonimo della folla), una le paga tutte (IV 28, anonimo della folla), tutto il mondo è paese (VI 30, Renzo), Dio dice: aiutati, ch’io t’aiuterò (VI 41, Agnese), omnia munda mundis (VIII 78, padre Cristoforo), a chi tocca, tocca (XII 38, anonimo del popolo; e a chi la tocca, la tocca: xxxiii 46, Tonio), il lupo non mangia la carne del lupo (XIV 4, anonimo della folla), una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso (XIV 17, birro), non si può cantare, e portar la croce (XVI 47, mercante), la vigna è bella; pur che la duri (XVI 50, mercante), quando la pera è matura, convien che caschi (XVI 57, mercante), a Roma si va per più strade (XIX 7, n.), i cenci vanno all’aria (XXIV 27, don Abbondio tra sé), dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei (XXV 30, n.), la patria è dove si sta bene (XXXVIII 15, don Abbondio), agli anni non c’è rimedio (XXXVIII 27, don Abbondio), senectus ipsa est morbus (XXXVIII 27, don Abbondio)[8] e vox populi, vox Dei (XXXVIII 41, don Abbondio). Due proverbi sono intenzionalmente ritoccati da Manzoni rispetto alla forma tradizionale e assumono nel romanzo un significato peculiare: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole (XIV 32, Renzo) e quel che va nelle maniche, non può andar ne’ gheroni (XXXVII 39, n.). Altri due proverbi della Quarantana sono riformulati dal narratore: tra due litiganti il terzo gode, parafrasato nella dicitura “tra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo la goda” (XXVI 59, n.), e voce del popolo, voce di Dio, rielaborato nella perifrasi “voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?)” (XXXI 32, n.)[9].
Dei proverbi appena richiamati, di tradizione classica o popolare, solo alcuni sono registrati nella Crusca veronese, da cui Manzoni li desume o in cui ne verifica la corrispondenza toscana. Altri, invece, mancano al vocabolario del Cesari. Passiamoli in rassegna, distinguendo le due categorie, per verificare in che misura i proverbi non dichiarati, e citati per esteso, nella Quarantana entrano nella seconda edizione del Cherubini.
4.1.1 Proverbi registrati nella Crusca veronese
Della prima categoria fanno parte i seguenti proverbi della tradizione letteraria, registrati nella Crusca veronese, ma comuni anche al dialetto dello scrittore.
Il diavolo non è brutto quanto si dipinge. Il proverbio, della tradizione popolare fiorentina[10], è introdotto nella Prima minuta (cfr. FL I iii 14: “il diavolo non è mai brutto come si dipinge”) e confermato nella Quarantana. Negli anni 1835-1836, il Grossi ne annota un esempio desunto dai Dissimili (I, 2) del Cecchi, negli spogli che preparano la Risposta alle critiche al Marco Visconti (SL II, p. 416, n. 561: “il diavolo non è brutto come e’ si dipinge”). Il proverbio, mancante nel Cherubini del 1814, è registrato nella seconda edizione del vocabolario milanese, come corrispondente del milanese el diavol l’è pœu minga inscì brutt come el depensgen[11].
Chi cerca trova. Il proverbio, di tradizione classica[12], è introdotto nella Seconda minuta, nell’accezione ironica di ‘andare incontro a pericoli e disgrazie per propria imprudenza’, e nella stessa forma letteraria registrata nel vocabolario del Cesari e attestata nel Malmantile del Lippi: “Chi cerca truova”[13]. Nella Ventisettana il proverbio subisce il consueto monottongamento, richiesto dall’uso vivo, e la stessa dicitura è confermata nell’ultima edizione del romanzo. Il corrispondente milanese chi cerca trœuva entra nel Cherubini del 1839-1856[14].
Tutto il mondo è paese. Il proverbio, equivalente al latino quoevis terra patria (cfr. Cr. ver., s. v. paese, par. V), è introdotto nella Ventisettana, in sostituzione della dicitura della Seconda minuta: “Da per tutto si vive” (SP i, VI 30). Manzoni lo spiega come segue, nell’elenco delle correzioni allegate alla nota lettera del 9 dicembre 1828 a Gosselin, il traduttore francese dell’edizione Baudry 1827: “on vit partout” (cfr. Manzoni/Arieti-Isella 1986, p. 514). La Crusca veronese registra il proverbio, senza, tuttavia, riportarne esempi nella forma adoperata nei Promessi Sposi. Ma in quella forma si legge in una commedia del Cecchi, La conversione della Scozia (IV, 3), che non figura nel Teatro comico fiorentino, e nella Forza della ragione (II, 9) del Fagiuoli e, al di fuori delle attestazioni fiorentine, nell’Incredulo senza scusa (i, I, 1) del Ségneri e nelle Lettere familiari (i, XII) del Magalotti, tutti autori letti e postillati da Manzoni[15]. L’esatto corrispondente milanese tutte el mond l’è paes è registrato nel Cherubini solo nella seconda edizione (cfr. Cherubini 1839-1856, vol. III [1841], s. v. mónd).
Il lupo non mangia la carne del lupo. Il proverbio, di tradizione classica[16], entra nella Seconda minuta (cfr. SP ii, XIV 4), nell’identica forma in cui è registrato nella Crusca veronese e che è confermata nella Ventisettana: “il lupo non mangia della carne di lupo” (V ii, XIV 4). Nella Quarantana la dicitura del proverbio è adeguata a quella più corrente nella lingua, registrata a fine secolo in Petrocchi 1887-1891 (vol. II [1891], s. v. lupo: “il lupo non màngia la carne di lupo”). Il proverbio ha corrispondenza nel milanese can no mangia can, aggiunto nella seconda edizione del Cherubini (cfr. Cherubini 1839-1856, vol. I [1839], s. v. càn).
Una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Il proverbio, di origine classica[17], è introdotto nel Fermo e Lucia in due occorrenze: nella prima, è adoperato da don Rodrigo nella dicitura una mano lava l’altra, e le due il viso (cfr. FL ii, VII 71). Nella seconda, è citato dal birro nella forma breve e dichiarato in quanto tale: “Una mano lava l’altra, è un proverbio che l’avrete anche nel vostro paese” (FL iii, VII 52). Negli Sposi Promessi è cassata la prima occorrenza e, nella seconda, è eliminata la glossa e riformulato il proverbio nella dicitura una mano lava l’altra, e le due il viso (cfr. SP ii, XIV 17), che si legge nella Crusca veronese e che è attestata nella Spiritata (IV, 1) del Lasca. La dicitura è confermata nella Ventisettana. Tuttavia, il Cioni, incaricato di correggere la prima edizione del romanzo, indica come corrente nell’uso fiorentino la forma una mano lava l’altra, e tutte e due lavano il viso (cfr. Correzioni autografe del Dott. Gaetano Cioni alla prima edizione de’ Promessi Sposi [1827-1828], in Manzoni/Brambilla-Sforza 1900, pp. 295-308, a p. 307), che Manzoni nella Quarantana sostituisce alla precedente, annotando in una postilla al vocabolario del Cesari: “nell’uso attuale: una mano lava l’altra, e tutte e due lavano il viso”. Tale forma è raccolta nella Maniere di dire fiorentine di Luigi Matteucci del 1856 (cfr. SL II, p. 1004, Locuzioni diverse, n. 67). Il corrispettivo milanese ona mano lava l’oltra e tutt’e dó laven el mostacc è registrato nella seconda edizione del Cherubini[18].
Non si può cantare, e portar la croce. Il proverbio, equivalente al latino simul stare et sorbere difficile est (cfr. Cr. ver., s. v. croce, par. XIII), entra nella Ventisettana nella forma non si può mica cantare e portar la croce, col rafforzativo avverbiale mica affine al milanese minga (cfr. V ii, XVI 47), e in sostituzione della dicitura “non si può mica far due fatti in una volta” della Seconda minuta (cfr. SP ii, XVI 47)[19]. Nella Quarantana il proverbio è corretto con la forma recuperata dalla Crusca veronese[20] e la stessa si ritrova nella seconda edizione del Cherubini, come traducente del milanese se po’ minga cantà e portà la cros[21].
A Roma si va per più strade. Il proverbio popolare, attestato nella tradizione, è introdotto nella Seconda minuta (cfr. SP ii, XIX 7) e arriva invariato alla Quarantana[22]. Mancante nella prima edizione del Cherubini, il proverbio è aggiunto nella seconda edizione del vocabolario, come traducente del milanese tutt’i strad mennen a Romma (cfr. Cherubini 1839-1856, vol. IV [1843], s. v. Ròmma). Nei più tardi appunti lessicali viareggini, con cui Manzoni approfondisce, insieme ai collaboratori, il lavoro iniziato a Varramista per la redazione di un vocabolario dell’uso fiorentino, è annotato l’equivalente “Tutte le strade conducono a Roma” (cfr. SL II, p. 978, s. v. strada, n. 528).
Tra due litiganti il terzo gode. Il proverbio, di tradizione latina[23], entra nella Seconda minuta, ma è riformulato così dal narratore, alludendo a Renzo nella controversia tra il governatore di Milano e il residente di Venezia: “fra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda” (SP iii, XVI 59; identica dicitura è in V iii, XXVI 59). È confermato nella Quarantana, con la sola modifica della preposizione (fra > tra) e la ridondanza del pronome la. Un’attestazione del proverbio si rintraccia nel Padre di famiglia (III, 15) di Goldoni[24], autore ripetutamente citato da Manzoni sia negli spogli dagli scrittori sia negli scritti teorici in cui argomenta la difesa della lingua dell’uso vivo: dalla prima redazione del trattato Della lingua italiana[25], avviata nel 1830, all’Appendice alla Relazione del maggio 1869[26]. Il corrispondente milanese del proverbio, tra i duu litigant el terz el god, non è registrato nella prima edizione del Cherubini, ma entra solo nella seconda edizione del vocabolario[27].
Quel che va nelle maniche, non può andar ne’ gheroni. Il proverbio, di tradizione popolare, è introdotto nella Seconda minuta, col significato di ‘quel che è sufficiente o necessario ad una cosa, non può bastare ad un’altra’ (cfr. SP iii, XXXVII 39; la stessa lezione è in V iii, XXXVII 39). Tale dicitura, confermata nella Quarantana, non corrisponde, tuttavia, alla maniera prettamente toscana e più comune, quel che non va nelle maniche, va nei gheroni, cioè ‘quello che non si consuma in una cosa, si consuma in un’altra’, la quale è registrata nella Crusca veronese[28]. La stessa forma è registrata nel Cherubini del 1814, come traducente del milanese quell che no va in sœula va in tomera, a cui è riferita la postilla: “Usatissimo”, con l’aggiunta, in calce alla pagina, della traduzione del proverbio: “Quel che non va nella suola va nel tomaio. M.”[29].
4.1.2 Proverbi non registrati nella Crusca veronese
La seconda categoria è invece costituita dai proverbi, anch’essi citati per esteso nell’ultima edizione del romanzo, ma non registrati nel vocabolario del Cesari. Si tratta, oltre che dei proverbi latini e delle due espressioni di tradizione classica, la patria è dove si sta bene e agli anni non c’è rimedio, di: una le paga tutte, Dio dice: aiutati ch’io t’aiuterò, a chi tocca tocca (e a chi la tocca la tocca), comanda chi può, e ubbidisce chi vuole, la vigna è bella; pur che la duri, quando la pera è matura, convien che caschi, i cenci vanno all’aria, dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei.
Quanto ai proverbi latini, omnia munda mundis è un noto passo paolino della lettera a Tito (I, 15) (cfr. Manzoni/Poggi Salani 2013, in Q VIII 78, nota 100). Senectus ipsa est morbus è una sentenza tratta dal Phormio (IV, 1) di Terenzio (cfr. Manzoni/Poggi Salani 2013, in Q XXXVIII 27, nota 60), introdotta, fin dalla Seconda minuta, dalla formula metalinguistica “come dice” (cfr. SP iii, XXXVIII 27)[30], e, come spiega lo stesso Manzoni in una postilla al Lexicon del Forcellini: “dice; dice però – a foggia d’impersonale – è modo dell’uso vivente toscano vivente”[31]. La sentenza terenziana trova il corrispettivo popolare nel proverbio agli anni non c’è rimedio. Di tradizione latina è anche la patria è dove si sta bene (introdotta in SP iii, XXXVIII 15, e confermata in V iii, XXXVIII 15), traduzione della massima patria est ubicunque bene est, generalmente attribuita a Pacuvio e citata anche da Cicerone nelle Tusculanae disputationes (V 108) (cfr. Manzoni/Poggi Salani 2013, in Q xxxviii 15, nota 26). Attestato nella tradizione medievale, a partire da Alcuino di York, è, invece, il proverbio vox populi, vox Dei (cfr. Tosi 1991, p. 3, n. 1), che nel romanzo è già impiegato in italiano e riformulato mediante perifrasi, nella richiamata frase: “voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?)” (Q XXXI 32)[32].
I restanti proverbi sopra richiamati sono popolari e comuni ai dialetti d’Italia, e in quattro casi sono attestati nella tradizione fiorentina.
Una le paga tutte. Il proverbio è introdotto nella Quarantana in sostituzione della forma meno popolare “un momento le paga tutte” della Ventisettana (cfr. V i, IV 28). Prima che nei Promessi Sposi, il proverbio è attestato in due commedie di Goldoni[33] ed è comune al toscano e ai dialetti settentrionali, centrali e meridionali[34]. Entra nella seconda edizione del Cherubini, dove è registrato come equivalente di vunna je paga tutt (cfr. Cherubini 1839-1856, vol. IV [1843], s. v. vùnna e vœùnna).
Dio dice: aiutati, ch’io t’aiuto. Il proverbio è introdotto nella Seconda minuta, nella forma col verbo al futuro (cfr. SP i, VI 41: “Dio dice: aiutati, ch’io ti aiuterò”; la dicitura è confermata in V i, VI 41)[35] corrispondente alla maniera milanese el Signor el dis: juttet che te juttaroo, registrata solo in appendice alla prima edizione del Cherubini e quindi entrata nella seconda[36]. La forma aiutati ch’io t’aiuto, scelta nella Quarantana, corrisponde a quella più diffusa nell’uso toscano, registrata, ad esempio, in Petrocchi 1887-1891 (vol. I [1887], s. v. aiutare) e in Rigutini-Fanfani 1875 (vol. I, s. v. aiutare).
A chi tocca, tocca, e a chi la tocca la tocca. Il proverbio entra nella Seconda minuta, nelle forme “a chi tocca tocca” (SP ii, XII 38) e “a chi ella tocca, ella tocca” (ivi, iii, XXXIII 46), quest’ultima reduplicata nella battuta di Tonio. Nella Ventisettana, la prima occorrenza è modificata nella dicitura “a chi tocca, suo danno” (V ii, XII 38). Rimane, invece, invariata la seconda occorrenza del proverbio (cfr. V iii, XXXIII 46), che Manzoni spiega così nella ricordata lettera a Gosselin del 1828: “litt.: cela tombe sur qui cela tombe: expression qui signifie à peu près que c’est un malheur inévitable, fatal, sans remède” (cfr. Manzoni/Arieti-Isella 1986, p. 529). Il proverbio è attestato nel Servigiale (III, 3) del Cecchi e, nell’esemplare del Teatro comico fiorentino (t. II, p. 49), è sottolineato ed evidenziato, a margine, da un segno a foggia di I[37]. Lo stesso esempio fiorentino è annotato dal Grossi negli spogli dagli autori per la Risposta (cfr. SL II, p. 419, n. 636). Nell’ultima edizione del romanzo, al cap. XII è ripristinato il proverbio nella forma della Seconda minuta (cfr. Q XII 38: “a chi tocca, tocca”), mentre è confermata l’occorrenza dello stesso nel dialogo tra Tonio e Renzo, con la sola modifica del pronome secondo l’uso vivo (ella > la). Negli appunti lessicali di Viareggio del 1856, presi per la progettata redazione di un vocabolario dell’uso fiorentino, il proverbio è annotato nella variante chi ne tocca ne tocca, corrispondente al milanese “Chi è sott è sott” (cfr. SL II, p. 986, n. 724; la forma milanese è registrata in Cherubini 1814, t. II, s. v. sott). Entra quindi nella seconda edizione del Cherubini, accompagnato dall’esempio fiorentino del Cecchi (cfr. Cherubini 1839-1856, vol. IV [1843], s. v. toccà).
Comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Il proverbio entra nella Seconda minuta (cfr. SP ii, XIV 32) ed è confermato nella Ventisettana, col solo scempiamento del verbo obbedire (cfr. V ii, XIV 32: “comanda chi può, e obedisce chi vuole”), poi nuovamente modificato nell’edizione definitiva. Si tratta della riformulazione manzoniana del comune proverbio comandi chi può, obbedisca chi deve, non registrato nella Crusca veronese, né nel Cherubini del 1814, e, tuttavia, attestato nella tradizione. Si legge, infatti, nell’Uomo prudente (III, 1) di Goldoni[38] e nelle Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia del Pananti[39]. È quindi registrato nella seconda edizione del Cherubini, col corrispondente milanese comanda chi pò, ubbedissa chi deve, o chi tocca, e con l’esempio del Pananti[40].
La vigna è bella; pur che la duri. Il proverbio, introdotto nella Seconda minuta (cfr. SP ii, XVI 50; la stessa dicitura è in V ii, XVI 50) e confermato senza modifiche nella Quarantana, richiama la locuzione trovare una bella vigna, registrata nella Crusca veronese (cfr. Cr. ver., s. v. vigna, par. VII) e nel Cherubini del 1814[41]. La diffusione di quest’ultima espressione nel toscano è confermata dal Cioni, nella risposta al quesito sull’uso milanese di “Vigna in senso di ‘fortuna’, di ‘buona speculazione’”: «Si dice: “ha trovato una vigna”. “Speculazione” si dice, ma è risultato dell’ingegno, dell’accortezza e sim.» (cfr. SL II, p. 105, n. 309)[42]. Il proverbio manca nella seconda edizione del Cherubini, in cui è, però, registrata l’espressione, affine a quella della Quarantana, la vigna l’è durada pocch[43].
Quando la pera è matura convien che caschi. Il proverbio è introdotto nella Seconda minuta (cfr. SP ii, XVI 57: “perché quando la pera è matura, convien ch’ella caschi”) e riscontrato da Manzoni nella Forza della ragione (III, 4) del Fagiuoli[44], di cui annota l’esempio in una postilla alla Crusca veronese: “Quando la pera è matura, bisogna ch’ella caschi. Fag. Forza etc. III. 4.” (cfr. Manzoni/Isella 2005, s. v. pera). È confermato nella Ventisettana (cfr. V ii, XVI 57) e, con l’espunzione del pronome ella, nella Quarantana. Lo stesso proverbio è aggiunto con una postilla integrativa anche alla prima edizione del Cherubini: “quando la pera è mezza, o matura convien che cada”[45], ed entra nella seconda edizione del vocabolario milanese, come equivalente di el pomm quand l’è madur besogna ch’el croda[46].
I cenci vanno all’aria. Il proverbio è introdotto nella Seconda minuta, nella forma “gli stracci vanno all’aria” (SP ii, XXIV 27), poi confermata nella Ventisettana (cfr. V ii, XXIV 27). Tale forma è affine all’uso milanese i strasc van a la fola, o l’è semper i strasc che va a bordell, varianti registrate nel Cherubini del 1814 come traducenti di “I cenci e gli stracci vanno all’aria” (Cherubini 1814, t. II, s. v. strasc). La sostituzione di straccio con cencio, nel passaggio alla Quarantana, è richiesta, ancora una volta, dall’avvicinamento della lingua del romanzo all’uso fiorentino, e nell’esemplare postillato della prima edizione del Cherubini sono cassate dalla traduzione italiana del proverbio le parole “e gli stracci”[47]. Manzoni rintraccia il proverbio nella Forza della Ragione (I, 9) del Fagiuoli, evidenziandolo con una sottolineatura nell’edizione delle Commedie di Gio. Battista Fagiuoli (t. V, p. 48): “i cenci hann’ire all’aria”[48]. Un’ulteriore attestazione fiorentina del proverbio si riscontra nel Poeta di teatro del Pananti[49]. La variante milanese l’è semper i strasc che va a l’ari entra nella seconda edizione del Cherubini (cfr. Cherubini 1839-1856, vol. IV [1843], s. v. strasc).
Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei. Il proverbio è introdotto nel Fermo e Lucia, accompagnato da una glossa esplicativa del narratore, che lo dichiara come tale commentando: “Dimmi con chi tratti e ti dirò chi sei è un proverbio; e | come tutti i proverbj, non solo è infallibile, ma ha anche la facoltà di rendere infallibile l’applicazione che ne fa chi lo cita” (FL iii, IX 41I). Il proverbio si legge anche nel Don Chisciotte[50], romanzo attentamente spogliato da Manzoni negli anni ’40 e di cui egli, come testimonia Cesare Cantù, ne “notò le frasi, che sono identiche colle ancora vive del parlar milanese”[51]. Nella Seconda minuta è eliminata la glossa, ma è mantenuto il proverbio (cfr. SP iii, XXV 29-30: “dimmi con chi tratti, e ti dirò chi sei”), e la scelta è confermata nella Ventisettana (cfr. V iii, XXV 29-30). La stessa forma si legge nei più tardi quesiti di Manzoni a Giovanna Feroci Luti per la revisione del romanzo. Interrogata sulla forma dell’uso vivo («“Dimmi con chi tratti o chi tratti o chi pratichi e ti dirò chi sei”»), la collaboratrice fiorentina segnala tra quelle correnti la forma dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei (cfr. SL II, p. 790, 17, n. 8), che viene introdotta nella Quarantana[52]. Il proverbio non è, però, registrato nel Cherubini.
4.2 Proverbi lasciati in sospeso
La strategia narrativa di Manzoni non si esaurisce nella citazione per esteso del proverbio. Nella Quarantana, infatti, alcuni proverbi non dichiarati sono lasciati in sospeso: uomo avvertito… (I 32, bravo), quando promette dieci… (VII 10, Lucia), dalla vita alla morte… (VIII 18, Tonio), finché c’è fiato… (XXXVIII 9, don Abbondio). Tali proverbi non sono registrati nella Crusca veronese e alcuni di essi sono diffusi nell’italiano comune, mentre altri sono recuperati dal dialetto milanese e adattati alla lingua dell’uso vivo. Vediamoli da vicino, verificando quali sono recepiti nella seconda edizione del Cherubini.
Uomo avvertito…. Il proverbio entra nella Seconda minuta (cfr. SP i, I 32: “Uomo avvertito… ella c’intende”; la dicitura è identica in V i, I 32) e arriva alla Quarantana, con la sola modifica del pronome (ella > lei)[53]. La reticenza, che rispecchia i moduli espressivi di chi lo pronuncia (il bravo che minaccia don Abbondio: “Uomo avvertito… lei c’intende”), fa ritenere che si tratti di un proverbio comune, sebbene sia più diffusa in Italia la forma uomo avvisato mezzo salvato che quella uomo avvertito mezzo munito[54]. Proprio quest’ultima forma è registrata nel Cherubini del 1814, come traducente del milanese omm visaa l’è mezz difes[55]. Mancante nella Crusca veronese, il proverbio è annotato da Manzoni negli appunti milanesi del 1827, nella forma uomo avvertito è mezzo salvo (cfr. SL II, p. 77, n. 1), la stessa che si legge in una postilla manzoniana al Mésangère, per tradurre il francese un homme averti en vaut[56].
Quando promette dieci…. Il proverbio è introdotto nella Seconda minuta, dove è adoperato da Lucia per convincere Renzo a fidarsi di padre Cristoforo (cfr. SP i, VII 10: “Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci…”; e V i, VII 10), ed è confermato nell’edizione definitiva[57]. Il proverbio, in cui l’aggettivo numerale dieci ha valore indeterminato o approssimativo (cfr. Cr. ver., s. v. dieci), può indicare sia abbondanza – come nella formulazione di Lucia – sia scarsità (cfr. LEI, XIX, 490, s. v. decem). Non è registrato nella Crusca veronese, né nel Cherubini e non ne risultano esempi nella tradizione. Nella seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, un’attestazione del proverbio, nella variante quando promette dieci, mantiene uno, si rintraccia in Petrocchi 1887-1891 (vol. II [1891], s. v. prométtere).
Dalla vita alla morte…. L’espressione, che sottintende il passo è breve, è introdotta nel Fermo e Lucia, dove è detta da Tonio per chiedere al curato di mettere per iscritto l’estinzione del proprio debito (cfr. FL i, VII 89: “Che dice [ella] mai?, s’io mi fido, Sig.r Curato = ma dalla vita alla morte...”), e arriva invariata alla Quarantana[58]. La frase, mancante nella Crusca veronese, non è toscana (cfr. in questo senso Manzoni/Bianchi 1959, p. 197) ma lombarda, ed è usata nel romanzo “proprio nella forma ellittica che, a chi sappia capire il sottinteso, la rende molto più efficace della corrispondente toscana”[59]. Nella forma milanese, la stessa è aggiunta in una postilla alla prima edizione del Cherubini, che non registra l’espressione: “Da la vitta a la mort…”[60]. Non entra, tuttavia, nell’editio major del vocabolario.
Fin che c’è fiato…. Il proverbio in sospeso è introdotto nella Quarantana ed è pronunciato da don Abbondio nel dialogo del capitolo finale con Renzo[61]. Si tratta dell’ellissi del proverbio comune finché c’è fiato, c’è speranza, mancante nella Crusca veronese, ma attestato nell’Astuto balordo (I, 7) del Fagiuoli[62]. Ha corrispondenza nel milanese fin che gh’è fiaa gh’è vitta, registrato solo nella seconda edizione del Cherubini, dove è accompagnato dall’esempio dello scrittore comico fiorentino[63].
5. Osservazioni conclusive
Dall’esame dei proverbi non dichiarati nella Quarantana si desume che quelli citati per esteso e registrati nella Crusca veronese mancano nel Cherubini del 1814, ma entrano nella seconda edizione del vocabolario milanese. Le uniche eccezioni sono costituite da quel che va nelle maniche non va ne’ gheroni, del quale è attestata già nella prima edizione del Cherubini la forma affine, e più diffusa, quel che non va nelle maniche, va ne’ gheroni, e da vox popel o popul, vox Dei, versione milanese del proverbio comune, anch’essa registrata fin dalla prima edizione del vocabolario dialettale.
Quanto ai proverbi non registrati nella Crusca del Cesari, ovvero i restanti citati per esteso nella Quarantana e tutti quelli lasciati in sospeso, anch’essi sono aggiunti nel Cherubini del 1839-1856, ad esclusione di uomo avvertito mezzo munito, già presente nel Cherubini del 1814, e di Dio dice: aiutati, ch’io t’aiuto, di cui si legge in appendice alla prima edizione di quel vocabolario la variante el Signor el dis: juttet che te juttaroo, nonché dei proverbi dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei, quando promette dieci… e dalla vita alla morte…, assenti anche nella prima edizione del vocabolario milanese. Quanto a la vigna è bella; pur che la duri, tale proverbio manca nella seconda edizione del Cherubini, in cui, tuttavia, è introdotta l’espressione affine la vigna l’è durada pocch. Infine, del proverbio i cenci vanno all’aria, già presente nel Cherubini del 1814, solo nella seconda edizione del Vocabolario milanese è registrato il più prossimo corrispondente l’è semper i strasc che va a l’ari.
In una lettera del 6 agosto 1827 da Genova, in cui riserva parole di stima per gli amici scrittori, Tommaso Grossi e Giovanni Torti, Manzoni racconta una “vecchiatina” a Rossari, “in quanto anch’egli partecipe di quell’idea di una lingua italiana costituita con il fondo comune a tutti i dialetti” (cfr. Manzoni/Arieti-Isella 1986, pp. 423-426, nota a p. 915): “Uno di quei due nominati in ultimo [scil. Due bravi giovani di Genova] mi disse iersera d’aver trovati nella mia Opera molti modi di dire ch’egli aveva fino allora creduti genovesi pretti. Poco mancò ch’io gli gittassi le braccia al collo, e lo baciassi su l’una e su l’altra gota” (ivi, pp. 424-425). Quell’inaspettata uniformità di locuzioni e proverbi tra tutti o gran parte degli idiomi italiani (e spesse volte non solo italiani), che Manzoni aveva più volte notato e che aveva rilevato espressamente per battere il ferro mentre è caldo (fr., “battez le fer pensant qu’il est chaud”), sembra valere anche per i proverbi qui esaminati, che non sono solo toscani e lombardi, ma “probabilmente di molti forse di tutti i dialetti d’Italia”[64].
Nota bibliografica
Note:
[1] Il presente lavoro si colloca nell’ambito di una tesi di dottorato sulla fraseologia dei Promessi Sposi del 1840-1842, elaborata a partire da un glossario in cui si sono schedate le espressioni fraseologiche e proverbiali della Quarantana [d’ora in avanti: Q], per cui si è fatto riferimento a Manzoni/Poggi Salani 2013. La tesi, dal titolo Fraseologismi e proverbi nell’edizione Quarantana dei Promessi Sposi, è stata discussa presso l’Università di Genova, a.a. 2019-2022. Una tassonomia dei fraseologismi presenti nelle quattro redazioni del romanzo manzoniano e una sistematizzazione che ne colga l’evoluzione in diacronia è stata condotta da Ersilia Russo, nell’ambito di un progetto di dottorato presso l’Università di Firenze.
[2] Si citano abbreviatamente il testo del Fermo e Lucia [ovvero: FL], degli Sposi Promessi [ovvero: SP] e della Ventisettana [ovvero: V], per i quali si fa riferimento ai volumi del piano dell’edizione critica diretto da Dante Isella, rispettivamente: Manzoni/Colli-Italia-Raboni 2006, Manzoni/Colli-Raboni 2012 e Manzoni/Martinelli 2022.
[3] Si fa riferimento a Manzoni/Stella-Vitale 2000a, Manzoni/Stella-Vitale 2000b, e Manzoni/Stella-Vitale 2000c. Gli scritti linguistici sono, d’ora in avanti, citati abbreviatamente: SL [Scritti linguistici editi], SL I [Scritti linguistici inediti I] e SL II [Scritti linguistici inediti II].
[4] I postillati appena menzionati sono riprodotti nel portale Manzoni Online, a cui si rinvia (www.alessandromanzoni.org/), ad eccezione della seconda edizione del Cherubini, le cui postille sono in corso di trascrizione per cura di Jacopo Ferrari, e del Mésangère 1823, di cui sono state trascritte le 106 postille a cura di Sabina Ghirardi.
[5] Sulle postille manzoniane al Teatro comico fiorentino e ad altri testi di lingua, si veda Cartago 2013. Anche per tali postillati si rinvia a Manzoni Online (www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/6229).
[6] Il significato traslato di vocaboli “aggregati in locuzioni speciali”, di cui Manzoni parla nel trattato Della lingua italiana [ovvero: DLI], è caratteristico anche dei proverbi ed è sottoposto anch’esso, come il significato proprio dei vocaboli semplici, all’arbitrio dell’uso: “Ciò che fa essere nelle lingue i rispettivi vocaboli, sia col significato che si chiama proprio, sia con uno traslato, sia considerati ognuno a sé, sia aggregati in locuzioni speciali, non è altro che l’Uso” (DLI, Quinta Redazione, i, II, parr. 161-162, in SL, p. 451).
[7] Alcune osservazioni sulle correzioni relative ai proverbi dichiarati e accompagnati da glosse metalinguistiche, dalla Prima minuta all’ultima edizione del romanzo, sono svolte in Rumine 2023. Per l’esame di ambasciator non porta pena e vox populi, vox Dei, nell’impiego che ne fa Manzoni nel romanzo, si rinvia a Rumine 2022.
[8] Tale proverbio latino è preceduto, fin dalla Seconda minuta, dalla glossa metalinguistica come dice (cfr. Q XXXVIII 27: “agli anni non c’è rimedio: e, come dice, senectus ipsa est morbus”).
[9] Altri proverbi, nella Quarantana, riecheggiano nelle parole del narratore o dei personaggi, come, ad esempio: can che abbaja non morde (cfr. ivi, I 76: “Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano!”, Perpetua), giù vino e su parole (cfr. ivi, XIV 53: “vino e parole continuarono ad andare, l’uno in giù e l’altre in su”, n.), è meglio essere uccel di bosco che uccel di gabbia (cfr. ivi, XVI 2-3: “se posso essere uccel di bosco, – aveva anche pensato, – non voglio diventare uccel di gabbia”, Renzo tra sé), a ognuno il suo mestiere (cfr. ivi, XXXVII 15: “il tempo il suo mestiere, e io il mio”, Renzo).
[10] Cfr. Cr. ver., s. v. diavolo, par. XX. Per le attestazioni del proverbio nell’italiano e nei dialetti, antichi e moderni, cfr. LEI, XX, 146 e 161-162, s. v. diabolus, dove la prima attestazione, del fiorentino antico, è individuata nelle Novelle del Sacchetti, nella forma il diavolo non è mica nero come si dipinge.
[11] Cfr. Cherubini 1839-1856, vol. I (1839), s. v. diavol, che registra el diavol l’è poeu minga inscì brutt come el fan o come el depensgen: “Non è il diavolo brutto come si dipinge”.
[12] Cfr. Cr. ver., s. v. cercare, par. III, che registra il corrispondente latino del proverbio, qui quaerit, invenit. Una prima attestazione di chi cerca trova nei volgari italiani si legge, in padovano antico, nelle Rime di Giovanni Dondi dall’Orologio (ante 1388): “Dice ’l proverbio: chi cercha ci trova; / non cerchiando mi par che mal si prova” (cfr. TLIO, s. v. cercare v., par. 2.1).
[13] SP i, VIII 4. Per la definizione del proverbio, cfr. VOLIT, s. v. cercare, par. 1.c. L’esempio di Lorenzo Lippi, registrato nella sopracitata voce della Crusca veronese, è tratto dal Malmantile racquistato, viii, IV: “Che ben sapesti, che chi cerca, truova”.
[14] Cfr. Cherubini 1839-1856, vol. IV (1843), s. v. trovà. Ma il proverbio è comune anche ad altri dialetti italiani e, nella letteratura dialettale, si legge in un sonetto del Belli (“chi ccerca trova”, per cui cfr. Belli/Vigolo-Gibellini 1978, p. 453, sonetto n. 399, citato da Cianfaglioni 2006, pp. 90-91).
[15] Gli esempi degli autori menzionati sono registrati nella V Crusca, s. v. mondo, par. CXLIX (per cui cfr. la banca dati Lessicografia della Crusca in rete, http://new.lessicografia.it). Per la riproduzione delle postille manzoniane alle commedie del Cecchi (www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/6229) e a quelle del Fagiuoli (www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/5750), alle Opere del Ségneri (www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/10460) e alle Lettere familiari del Magalotti (www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/10480), si rinvia alle relative schede in Manzoni Online.
[16] Cfr. Cr. ver., s. v. lupo, par. VIII, che registra il corrispondente latino lupus alterius lupi carnem non edit, ma non riporta esempi del proverbio nella tradizione.
[17] Il proverbio, derivato dal latino manus manum lavat e attestato nel Flos del Monosini, è registrato in Cr. ver., s. v. lavare, par. III, nella forma “Una mano lava l’altra, e tutte due il viso”, e s. v. mano, e mana, par. CLXXIII, nella forma “Una mano lava l’altra, e le due il viso”.
[18] Cherubini 1839-1856, vol. III (1841), s. v. man (cfr. anche vol. V [1856], s. v. man, dove si legge ona man con l’altra se lava la faccia).
[19] Il proverbio, dichiarato come tale, si leggeva già nei fogli della Seconda minuta, poi espunti dal testo: “Non si può, dice il proverbio, cantare e portar la croce” (cfr. ivi, ii, XIX 15).
[20] La Crusca veronese registra l’esempio del Cecchi, La dote, IV, 2 (“e non si può portar la croce e cantare”), che, tuttavia, non si legge nel Teatro comico fiorentino, ma si ritrova nell’edizione delle Comedie di Gianmaria Cecchi, Venezia, Bernardo Giunti, 1585, libro I, 27r.
[21] Cfr. Cherubini 1839-1856, vol. I (1839), s. v. cantà. Cfr. anche vol. II (1841), s. v. Màrta, dove il proverbio è registrato come equivalente di se po’ minga fa de Marta e Madalenna tutt’a on bott, che nella Quarantana è adoperato nella forma far da Marta e Maddalena.
[22] Per l’attestazione del proverbio nella tradizione toscana, cfr. Cr. ver., s. v. strada, par. VIII. Per altri esempi del proverbio nella tradizione, cfr. GDLI 1961-2002, vol. XVII (1994), s. v. Roma, par. VIII.
[23] Il proverbio deriva dal latino inter duos litigantes tertius gaudet, registrato in Cr. ver., s. v. terzo, par. III, con l’esempio del Malmantile racquistato del Lippi, iii, XXIII: “I due contrarj fan, che il terzo goda”.
[24] Cfr. Goldoni/Ortolani 1935-1956, vol. II, p. 870: “Fia. Oh meschina me! Che sento? / Ott. (Tra due litiganti, può essere che il terzo goda)” (l’esempio è citato in GDLI 1961-2002, vol. XX [2001], s. v. terzo, par. xxxviii). Delle Opere teatrali del sig. avvocato Carlo Goldoni veneziano Manzoni postilla i tomi III e VI, parzialmente riprodotti in Manzoni Online (t. III: www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/8955/reader#mode/1up; t. VI: www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/8952/reader#mode/1up).
[25] Nella prima redazione del trattato DLI, Manzoni affronta l’argomento delle “locuzioni parlate popolari”, di cui sono costellate le commedie in dialetto veneziano di Goldoni, quelle latine di Plauto e Terenzio e le francesi di Molière, che vengono menzionate a sostegno della difesa dell’uso fiorentino (cfr. DLI, Prima Redazione, Appunto 21, in SL II, pp. 250-253).
[26] Nell’Appendice alla Relazione Manzoni ritorna su Goldoni, lodando il commediografo per la sua capacità di scrivere commedie “in puro e bel veneziano” (ivi, cap. VI, parr. 12-15, in SL, pp. 236-238, citazione a p. 237).
[27] Cfr. Cherubini 1839-1856, vol. IV (1843), s. v. tèrz (cfr. anche vol. II [1840], s. v. litigànt: “Voce che usiamo nel dettato Fra due litiganti il terzo gode”).
[28] Cfr. Cr. ver., s. v. gherone, par. III, che non registra esempi della tradizione. Si veda, a proposito di tale proverbio, il commento di Rigutini e Mestica: “Nel capitolo trentottesimo si legge Quel che va nelle maniche non va ne’ gheroni, per significare che quel che si spende per un lato, si risparmia per un altro, mentre la maniera toscana è, Quel che non va nelle maniche, va ne’ gheroni, usata in certi casi per avvertire, che quello che si risparmia per un verso intorno a qualche cosa, suole spendersi poi per un altro. Abbiamo adunque pensato di venire in soccorso dei giovani non toscani, i quali possono correr pericolo d’apprendere in questo libro una toscanità non sempre schietta” (in Manzoni/Rigutini-Mestica 1894: il passo è citato da Polimeni 2011, p. 295).
[29] Postilla a Cherubini 1814, t. II (p. 176), s. v. sœula, per cui cfr. www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/2704/reader#page/184/mode/1up, in Manzoni Online. Si veda anche Cherubini 1839-1856, vol. IV (1843), s. v. sœula.
[30] La stessa dicitura è in V iii, XXXVIII 27, con la sola modifica dell’interpunzione, poi confermata in Q. La formula “come dice” è ricondotta da Antonelli 2008, pp. 156-160, alla voce dei personaggi.
[31] Postilla n. 54 al Forcellini 1827-1831, vol. II (1828), s. v. inquio, per cui cfr. Martinelli 1994, p. 67 (per la riproduzione della postilla, cfr. www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/4284/reader#page/730/mode/1up, in Manzoni Online). Cfr. anche Poggi Salani, in Q XXXVIII 27, nota 59.
[32] Il proverbio latino è già presente in FL i, V 53: “secondo quel proverbio= ella m’insegna | che i proverbi sono voce di Dio secondo quell’altro proverbio= vox populi vox Dei= quel proverbio che dice: ambasciator non porta pena”. Nella Seconda minuta è, tuttavia, espunto da quel luogo del romanzo e aggiunto nell’ultimo capitolo (cfr. SP XXXVIII 41; lo stesso si legge in V iii, XXXIII 41). Il proverbio trova corrispondenza nel milanese vox popel o popul, vox Dei, registrato nel Cherubini fin dalla prima edizione, come traducente di “Voce del popolo o di popolo, voce d’Iddio o del Signore” (Cherubini 1814, t. II, s. v. popel; lo stesso si legge in Cherubini 1839-1856, vol. III [1841], s. v. popol o popel). L’equivalente italiano del proverbio latino è registrato anche in Cr. ver., s. v. boce, par. VIII (“Boce del popolo, boce d’Iddio, o del Signore”), e s. v. voce, par. XXIII (“Voce del popolo, voce d’Iddio, o del Signore”).
[33] Si legge in Goldoni, La buona moglie, III, 14 (“O tardi, o a bonora, el ne ariva, e una le paga tute”, in Goldoni/Ortolani 1935-1956, vol. II, p. 610) e La donna bizzarra, III, 9 (“Una le paga tutte, dice il proverbio”, ivi, vol. VI, p. 1194), per cui cfr. Dardi 2011, pp. 121-146. Si veda anche l’attestazione del proverbio nell’edizione postillata da Manzoni Delle lettere familiari del commendatore Annibal Caro, vol. II (1751), Al Cavalier Rafael Silvago, a Malta, p. 264: “Trovatene, e inviatene dell’altre; che una viene, che paga tutte”.
[34] Il proverbio una le paga tutte è registrato in Gherardini 1852-1857, vol. IV (1855), s. v. pagáre, par. XVII: “(Noi altri Lombardi diciamo Una paga tutte)” (del Supplemento di Gherardini Manzoni postilla i voll. III e V, parzialmente riprodotti in Manzoni Online, rispettivamente www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/7465/reader#mode/1up e www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/7467/reader#mode/1up). Per la diffusione del proverbio in altri dialetti settentrionali, si vedano Sant’Albino 1859, s. v. un, e Casaccia 1876, s. v. pagâ. Attestazioni dello stesso nei dialetti siciliano, bergamasco, genovese, veneto, toscano e marchigiano, si leggono in Pitrè 1880, vol. I, pp. 350-351. La diffusione del proverbio nel toscano è confermata da TOMMASEO-BELLINI, s. v. pagare, par. XXII, e da Petrocchi 1887-1891, vol. II (1891), s. v. pagare (Una volta paga sempre, “Una le paga tutte”; la forma in corsivo è registrata nel dizionario di Petrocchi tra le voci fuori d’uso). Ma si veda anche la lettera n. 77 di Giuseppe Giusti a Tommaso Grossi, Firenze, 24 aprile 1844: “Lasciamoli armeggiare, chè ogni nodo viene al pettine, e una le paga tutte” (in Rigutini 1864, pp. 206-209, a p. 208), e la raccolta di proverbi toscani di Giusti, sia i manoscritti e che le due edizioni, curate da Gino Capponi, del 1853 e del 1871 (www.proverbi-italiani.org/giusti_sala_lettura.asp?m=3, in Proverbi italiani).
[35] Per una panoramica delle attestazioni nei dialetti italiani moderni delle forme aiutati ch’io t’aiuterò, il Signore dice: aiutati ch’io t’aiuterò, chi s’aiuta, Dio l’aiuta e simili, cfr. LEI, I, 726, s. v. adiutare.
[36] Cfr. Cherubini 1814, t. II, Appendice al Vocabolario milanese-italiano, s. v. juttà, dove il proverbio milanese è seguito dall’equivalente italiano: “A tela ordita Dio manda il filo”. La stessa forma entra in Cherubini 1839-1856, vol. II (1840), s. v. juttà, e vol. IV (1843), s. v. Signór.
[37] Cfr. Cartago 2013, p. 270, e, per la riproduzione del passo, www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/6232/reader#page/247/mode/1up, in Manzoni Online.
[38] Cfr. Goldoni/Ortolani 1935-1956, vol. II, p. 297: “Cuo. Comanda chi può, obbedisca chi deve”.
[39] Cfr. Pananti 1817, vol. I, p. 49: “comandi chi può, obbedisca chi deve”.
[40] Cfr. Cherubini 1839-1856, vol. I (1839), s. v. comandà: “Comandi chi può, obbedisca chi deve (Pan. Viag. Barb. I, 49)”. Il proverbio è successivamente registrato in TOMMASEO-BELLINI, s. v. comandare, par. II, e in V Crusca, s. v. comandare, par. XXI.
[41] Cfr. Cherubini 1814, vol. I, s. v. Giuli: Avè trovaa la vigna de papa Giuli, “Aver trovato una bella vigna”. Cfr. anche la postilla a Cherubini 1814, t. II (p. 276), s. v. vigna: «Vigna di papa Giulio. C.» (www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/2704/reader#page/284/mode/1up, in Manzoni Online).
[42] Come osserva Poggi Salani, in Q XVI 50, nota 108, a proposito di la vigna è bella; pur che la duri: “[e]spressioni metaforiche del genere sono registrate nella lessicografia di secondo Ottocento con esempi dell’uso (ma giudicate basse da Fanfani, Voc. [scil. Pietro Fanfani, Vocabolario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1855])”.
[43] L’espressione si legge Cherubini 1839-1856, vol. IV (1843), s. v. vìgna, con il significato di: “La cuccagna è durata poco”. Cfr. anche, s. v. vìgna, l’espressione fin che dura la vigna.
[44] Il proverbio è sottolineato da Manzoni nell’edizione delle Commedie di Gio. Battista Fagiuoli, t. V, p. 134 (cfr. Cartago 2013, p. 190; per la riproduzione del passo, cfr. www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/5145/reader#page/138/mode/1up, in Manzoni Online).
[45] Cfr. Cherubini 1814, t. II (p. 59), s. v. pomm, per cui cfr. www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/2704/reader#page/67/mode/1up, in Manzoni Online). A proposito dell’aggettivo mezza, si vedano gli Appunti lessicali (Viareggio, 1856), n. 702, in SL II, p. 985: “Frutto macolato, meno che mezzo. Una pera mezza”.
[46] Cfr. Cherubini 1839-1856, vol. I (1839), s. v. crodà, dove si spiega: “Quando il pero è maturo convien che cada (Buoni Prov. II, 266) […]. Simile al franzese Quand la poire est mûre elle rombe (Roux Dict.)”.
[47] Ivi, p. 208, per cui si veda www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/2704/reader#page/216/mode/1up, in Manzoni Online.
[48] Cfr. Cartago 2013, p. 191, e, per la riproduzione della pagina, www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/5145/reader#page/52/mode/1up, in Manzoni Online.
[49] Cfr. Poeta di teatro, terza ed. italiana (1824), canto XXXII, in Pananti 1824-1825, vol. I, p. 122: “Han detto, ah qui sommettersi convienci, / Che sempre ad ire all’aria tocca ai cenci” (cfr. V Crusca, s. v. cencio, par. XXIII). Nella forma son sempre i cenci che vanno all’aria, il proverbio si legge quindi nella quinta ed., canto XXXIV, in Pananti 1831-1832, t. III, p. 13: “Son sempre i cenci quei che vanno all’aria”.
[50] Cfr. l’Ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia di Michele Cervantes, p. 89, cap. X: “Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei”, e p. 217, cap. XXIII: “Oh adesso quadra bene il proverbio, soggiunse Sancio: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Oltre a tale esemplare del romanzo di Cervantes, Manzoni possedeva due edizioni francesi, anch’esse conservate nella biblioteca di via Morone: quella del 1836-1837, 2 tt., Paris, Dubochet et C., tradotta da Louis Diardot e illustrata da Tony Johannot, e quella del 1798, 6 tt., Paris, Deterville, tradotta da Florian.
[51] La testimonianza di Cesare Cantù, per la verità “interessata e non sempre attendibile” si legge Cantù 1882, p. 207, dove lo scrittore brianzolo aggiunge di aver pubblicato nel volume Manzoni e il suo territorio (1844) una lista di tali frasi tratte dal Don Quijotte, datagli dall’Autore (cfr. Manzoni/Stella-Vitale 2000c, p. 832, nota 1).
[52] Nella forma della Quarantana, il proverbio dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei si legge nel manoscritto B della raccolta di Giuseppe Giusti e nelle due edizioni, curate da Gino Capponi, del 1853 e del 1871 (cfr. www.proverbi-italiani.org/giusti_sala_lettura.asp?m=3, in Proverbi italiani).
[53] In FL i, I 32-33, si leggeva al suo posto: “era nostro dovere d’avvisarla e l’abbiamo fatto”.
[54] Cfr. Morandi 1879, p. 239: “E avrebbe dovuto sostituirvi avvisato, poiché de’ due proverbi toscani: Uomo avvertito, mezzo munito e Uomo avvisato, è mezzo salvo, quest’ultimo è più comune anche nel resto d’Italia; anzi, in molti luoghi, si dice: Uomo avvisato, mezzo salvato; e quindi la reticenza del bravo, con tal correzione, avrebbe appagato tutti i gusti”. Cfr. poi D’Ovidio 1895, p. 104, nota 3. Un’attestazione del proverbio si legge, inoltre, nell’Ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia di Michele Cervantes, vol. II, p. 147, cap. XVII: “Uomo avvisato mezzo salvato”.
[55] Cfr. Cherubini 1814, t. II, s. v. visà: “Uomo avvertito mezzo munito”. Cfr. Cherubini 1839-1856, vol. III (1841), s. v. òmm, e vol. IV (1843), s. v. visàa.
[56] Cfr. la postilla n. 63 a Mésangère 1823, s. v. deux (p. 201): “Uomo avvertito mezzo salvo”, per cui si veda www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/10415/postille, in Manzoni Online.
[57] In FL i, VII 22, un passo in cui ricorre in modo insistito il verbo promettere nelle parole di Lucia, si leggeva invece: “fate quel che vi dice quest’uomo del Signore, ed io vi prometto che io farò tutto quello che si potrà, tutto quello che vorrete perch’io possa esser vostra moglie”.
[58] Cfr. SP i, VII 71: “Che dic’ella, signor curato? s’io mi fido! ma, dalla vita alla morte…”; e V i, VIII 18: “Ma, siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito… dunque giacchè ella ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così… dalla vita alla morte…”.
[59] Bonora 1973, p. 527, che spiega ancora: “a mettere nero sul bianco, si vuol dire, è bene pensare perché il passo dalla vita alla morte è breve e può essere improvviso, sicchè una ricevuta resterà anche per gli eredi a evitare liti e questioni. E proprio perché nella frase lombarda il Manzoni sentì la forza del ragionamento che essa sottende, la volle far pronunciare a Tonio”. L’espressione è successivamente registrata in V Crusca, s. v. morte: “si dice quando chiediamo un’obbligazione per iscritto, e simili, non per diffidenza, ma per il caso possibile che il debitore o la persona obbligata venga a mancare”.
[60] Postilla a Cherubini 1814, t. II (p. 280), s. v. vitta, per cui cfr. www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/2704/reader#page/288/mode/1up, in Manzoni Online.
[61] Cfr. Q XXXVIII 9, dove don Abbondio ribatte a Renzo, che gli ha chiesto di celebrare finalmente il matrimonio: “Questo non ci ha che fare [scil. la questione della morte di don Rodrigo] […] v’ho forse detto di no? Io non dico di no; parlo… parlo delle buone ragioni. Del resto, vedete, fin che c’è fiato…”. In V iii, XXXVIII 9, si leggeva invece: “fin che l’uomo ha fiato in corpo…” (lo stesso in SP iii, XXXVIII 9).
[62] Il passo si legge nelle Commedie di Gio. Battista Fagiuoli, t. I, p. 202, ma non reca segni di lettura (cfr. www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/5144/reader#page/204/mode/1up, in Manzoni Online).
[63] Cfr. Cherubini 1839-1856, vol. I (1839), s. v. fiàa, e, con l’esempio del Fagiuoli, vol. IV (1843), s. v. vìtta. Il proverbio è diffuso in altri dialetti settentrionali, come il parmigiano, per cui cfr. Pariset 1885-1892, vol. I (1885), s. v. fià (fintant che gh’è fia a gh’ è speranza), e vol. II (1892), s. v. speränza.
[64] DLI, Prima Redazione. Appunti vari, Appunto 22, in SL II, pp. 253-255. L’assunto dell’esistenza di un patrimonio di modi e proverbi comuni ai dialetti italiani tra di loro e con il fiorentino è ripreso nella Relazione del 1868 (cfr. SL, pp. 74-75, parr. 70-73).
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