L'articolo costituisce la rielaborazione scritta di un intervento orale presentato all’interno dell’iniziativa “Il morire e la morte”, promossa nel febbraio-marzo 2019 dalla Fondazione culturale Niels Stensen di Firenze, con la collaborazione dell'Accademia della Crusca. All’interno del fitto programma, oltre a proiezioni di film e letture di classici, erano previste quattro conferenze a più voci, affidate a filosofi, teologi, medici, bioeticisti, giuristi, tutte introdotte da una breve riflessione linguistica sulla parola chiave del tema affrontato. Così il 2 febbraio il pomeriggio dedicato a “Il morire e la morte oggi” è stato iniziato da Ludovica Maconi che si è soffermata sulla parola morte, il 16 febbraio è stata la volta di Cristina Torchia su dignità (a introduzione del tema “Alla fine della vita”), il 2 marzo è intervenuta Matilde Paoli su eutanasia (“Che cos’è l’eutanasia”), e infine il 16 marzo chi scrive ha introdotto la discussione su “Il morire e l’ordinamento giuridico” affrontando le parole legate alle scelte.
A tutti sia ridata la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia. (Papa Francesco, discorso in commemorazione di Don Milani, Barbiana, 20/6/2017)
noi [preti] abbiamo per unica ragione di vita quella di contentare il Signore e di mostrargli d’aver capito che ogni anima è un universo di dignità infinita. (Don Lorenzo Milani Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1958, p. 222)
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana. (Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005 [19581], p. 19)
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. (Dichiarazione universale dei diritti umani, Art. 1, 1948)
Neppure io vorrei esser digerito! – soggiunse il Tonno – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio. (Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Pescia, Fondazione Nazionale Carlo Collodi, 1983, p. 142 [18831])
La parola dignità è classificata nel Grande dizionario italiano dell’uso, diretto da Tullio De Mauro, come parola di “alto uso”. Si tratta cioè di una di quelle parole che ricorrono con grande frequenza nei nostri testi e discorsi, tanto da entrare di diritto a far parte del vocabolario di base dell’italiano, di quel nucleo essenziale di parole che sono usate e comprese da tutti (o quasi).
Nonostante sia questo lo statuto “accreditato” della parola nel nostro lessico, bisogna riconoscere che non è per niente facile darne una definizione.
Che cosa si intende per dignità? Provando a sfogliare i dizionari dell’italiano contemporaneo e a confrontarli fra di loro, si osserverà che i diversi significati e le varie sfumature di senso associate alla parola sono variamente organizzati all’interno della voce: le accezioni sono distinte e i sensi raggruppati in modi vari, secondo criteri diversi da un dizionario all’altro. Questa non completa omogeneità nella trattazione lessicografica della voce dignità è traccia di quanto sia complessa la semantica di questa parola che, come tutte le parole che designano concetti, esperienze, qualità che hanno a che fare con la dimensione dell’umano, sono difficili da determinare e, anzi, mantengono inesorabilmente un margine ineliminabile di vaghezza e indeterminatezza.
Per avvicinarci gradualmente ai significati della parola possiamo partire dalla struttura, dalla morfologia, osservando che dignità è nome astratto correlato all’aggettivo degno, indica quindi ‘la condizione o la qualità dell’essere degni’.
Aggiungiamo che sia l’aggettivo degno che il nome dignità fanno parte dell’italiano fin dalle origini: li troviamo entrambi registrati nel TLIO, il Tesoro della lingua italiana delle origini, documentati in testi molto antichi. Una delle prime attestazioni dell’aggettivo degno è in un verso del Cantico di Frate Sole (1224 circa: Ad te solo, Altissimo, se konfano, / et nullu homo ène dignu te mentovare), mentre la parola dignità (anche nelle varianti dignitate, dignitade, e altre ancora) compare in testi perfino precedenti, come il Ritmo su sant’Alessio della seconda metà del XII secolo.
Entrambe queste parole, indipendentemente l’una dall’altra, provengono dal latino: dignità è una voce dotta, si trasmette per così dire da un libro all’altro, mentre degno è parola popolare che prosegue ininterrottamente la sua strada dal latino all’italiano passando di bocca in bocca. Dal latino dignĭtas -atis, nella forma dignitatem, deriva dignità (che è forma apocopata di dignitate). Dignĭtas, poi, in latino, si costruisce a partire dall’aggettivo dĭgnus, che è a sua volta formato con la stessa radice dec- del verbo decēre. Dĕcet vuol dire ‘si addice, si confà, è adeguato, è conforme (a qualcosa/qualcuno)’; allo stesso modo, l’aggettivo latino dignus, come il suo continuatore italiano degno, ha un primo significato neutro di ‘adatto, adeguato, che si addice’ con cui si istituisce una correlazione fra qualcosa e qualcos’altro che può avere valore sia positivo che negativo. Così in italiano: di una persona o di un comportamento possiamo dire che sono degni di lode, ma anche di biasimo e un discorso può essere degno di attenzione o di critiche.
L’aggettivo degno, però, quando è usato in modo assoluto, senza oggetto/complemento, si carica di una connotazione positiva e acquista il senso di “che ha valore (morale, sociale, intellettuale, spirituale, ontologico)” (TLIO, voce degno, accezione 2). Se qualifichiamo una persona come degna, implichiamo infatti una valutazione positiva: una persona degna merita stima, suscita ammirazione e rispetto, così come un professionista degno, o anche un’azione, un’opera e perfino una cena degna. In questo significato l’aggettivo degno implica un tratto di distinzione, di superiorità, di eccellenza: qualcuno o qualcosa che è degno ‘sta sopra, in alto, è elevato’, tant’è che l’espressione essere degno può essere parafrasata con ‘essere all’altezza’.
È a questo senso positivamente connotato di degno che sono associati i significati fondamentali della parola dignità.
È un’accezione antica di dignità quella che compare nella cultura latina, in particolare negli scritti di Cicerone, in cui la dignitas assume una precisa connotazione sociale e politica poiché è in diretto rapporto con il possesso delle cariche pubbliche. In questo senso la dignità si configura come la qualità essenziale dell’uomo politico, è del singolo uomo che si distingue rispetto agli altri uomini perché possiede quelle qualità morali che lo rendono adatto a ricoprire un incarico preminente nella società. Da qui, poi, con uno slittamento metonimico, la parola dignitas passa a indicare la carica in sé (Ruaro 2009).
È interessante il fatto che, in questo passaggio dall’astratto al concreto, si ha uno spostamento di senso per cui l’idea di valore connessa con il concetto di dignità non è più associata alle qualità che una persona deve possedere per ottenere l’incarico ma diventa una sua diretta conseguenza. In altre parole, occupare una posizione alta nella scala sociale, ricoprire un certo ruolo prevede il riconoscimento di un certo valore, di prestigio, autorità, rispettabilità, e non viceversa.
Questo di “carica elevata, alto ufficio che comporta onori, preminenza, autorità” (TLIO) è il primo significato documentato di dignità in italiano ed è il significato che viene registrato come primo nei dizionari dell’italiano fino a tutto l’Ottocento.
Il ragionamento di Cicerone, da cui deriva l’idea di dignità come qualità del singolo uomo che si realizza nella dimensione sociale e politica, è però più ampio e consente di individuare una seconda accezione del termine, quella secondo cui la dignitas deriva all’uomo dalla sua posizione speciale nel cosmo: l’uomo è superiore agli altri esseri viventi, eccelle nella natura perché è l’unico animal rationale. L’essere dotati di ragione accomuna gli uomini e li pone al culmine della gerarchia della natura. La ragione, poi, è ciò che rende l’uomo capace di coscienza e conoscenza, in particolare di conoscenza del dovere e allora l’uomo realizza la sua dignità agendo in maniera conforme al dovere.
Il ragionamento ciceroniano consente quindi di enucleare una doppia accezione di dignità: in un senso universalistico la dignità è una dotazione naturale dell’uomo in quanto tale, in quanto appartenente al genere umano (alla specie), in un senso particolaristico la dignità si acquista per merito, ed è del singolo uomo che agisce in modo onesto, decoroso, conforme a doveri.
Entrambe queste accezioni si sviluppano e, evolvendosi, arrivano fino a noi.
Il secondo senso, vivo e vitale nell’uso corrente della parola, è quello per cui la dignità si acquista, non si possiede, dipende da comportamenti coerenti con certi valori o principi. È questo significato che rende conto di espressioni come: ha sempre vissuto con dignità; ha affrontato con dignità la malattia, un dolore, una sconfitta; ha reagito con dignità alle pressioni esterne o alle richieste illegittime di un capo. La dignità, in questo senso, si acquisisce ma si può anche perdere, si può esserne o restarne sprovvisti. Si può quindi parlare di una persona senza dignità o di qualcuno che ha svenduto, svilito la propria dignità.
L’idea di fondo implicita in questa accezione di dignità è che essa sia in qualche modo una conquista o, meglio, frutto di “un comportamento che realizza alcune delle possibilità più proprie dell’essere umano [...]. In questo senso, degno è chi vive all’altezza della propria umanità (intesa come compito, non come mera constatazione di appartenenza a una specie)” (Furlan 2009a, p. 22).
Già questo significato di dignità ha in sé una quota di indeterminatezza, nel senso che il contenuto preciso della parola, il suo senso specifico dipende dall’uso che se ne fa nei singoli contesti, per cui il suo valore coinciderà di volta in volta con quello di onestà, decoro, coerenza con un principio, autonomia di giudizio, capacità di accettazione dei propri limiti. L’elenco delle determinazioni possibili non può che rimanere aperto oltre ad essere suscettibile di variazioni attraverso le società e le culture.
In senso universalistico, invece, la dignità umana ha un fondamento ontologico e si caratterizza come qualità intrinseca di ciascun essere umano, indipendente da meriti personali, dalla posizione o dal ruolo sociale e da qualsiasi altra condizione (di età, sesso, appartenenza etnica, culturale, religiosa).
Anche questo significato ci arriva da lontano, attraversa i secoli e si stratifica, raccogliendo un precipitato di riflessioni e di elaborazioni culturali e filosofiche di matrice diversa. A partire dalle radici classiche, l’idea universalistica di dignità riceve un potente impulso dal cristianesimo, secondo cui l’uomo, al di sopra di tutte le altre creature, è intrinsecamente dotato di dignità in quanto fatto a immagine di Dio.
Al di là dei fondamenti e delle giustificazioni che riceve, il concetto di dignità come attributo essenziale e inerente dell’essere umano riemerge a più riprese, attraversando le epoche e le culture: diventa oggetto di riflessione privilegiata in età umanistico-rinascimentale, sostanzia il pensiero e l’elaborazione teorica di molti filosofi occidentali fino a Kant e oltre, e acquista poi un peso determinante nel Novecento.
In età illuministica, nell’elaborazione di Kant in particolare, la dignità si caratterizza come valore incommensurabile che è proprio di ogni uomo. Ogni uomo infatti, nella sua unicità, possiede un valore che non è quantificabile: l’uomo non ha prezzo e “ciò che non ha prezzo, e dunque non ammette alcun equivalente, ha una dignità” (Kant cit. in Crosato 2014). In questa argomentazione trova fondamento l’imperativo morale kantiano secondo cui bisogna trattare l’umanità, nella propria come nell’altrui persona, come un fine in sé e mai semplicemente come un mezzo in vista di altri fini.
L’eredità kantiana, e tutto ciò che l’ha preceduta, assumono una centralità inedita dopo la Seconda guerra mondiale, quando la parola e il concetto di dignità entrano stabilmente anche nel lessico e nella riflessione giuridica.
Nel secondo dopoguerra, infatti, la volontà di reagire alla “catastrofe etica e giuridica” (Zatti 2009, p. 97) del nazismo spinge a cercare nella dignità dell’uomo un fondamento saldo e un baluardo di difesa di un nucleo fondamentale di diritti inalienabili e uguali per tutti.
La parola dignità entra così esplicitamente nelle costituzioni nazionali - a partire da quella italiana approvata nel 1947 e da quella tedesca del 1949 - e nei documenti internazionali, primo fra tutti la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
È evidente che, in questa accezione di valore intrinseco che deriva all’uomo dal fatto stesso di essere tale, la parola dignità assume una portata semantica così ampia e complessa, da non lasciarsi facilmente irreggimentare in una definizione “da dizionario”.
Alla parola dignità è assegnato il “compito” di delineare un nucleo essenziale di qualità che fanno dell’uomo un uomo e che, in quanto tali, devono essere tutelate, rispettate, mantenute intatte e intangibili. Un elenco ristretto di queste qualità, che si configurano come corrispondenti diritti fondamentali dell’uomo, comprende la vita, l’integrità fisica, la libertà di autodeterminarsi, l’identità. Ma, di nuovo, quest’elenco è passibile di molte specificazioni e aggiunte indefinite. Torna, quindi, in primo piano il problema della vaghezza del termine, la cui validità e utilità vengono messe in discussione da molti soprattutto nel dibattito giuridico e bioetico attuale. Si sottolinea da più parti che la parola dignità si presta a usi indebitamente retorici, per cui i fautori di opposte posizioni, per esempio sul fine vita, ne fanno ciascuno la propria bandiera per richiamare consensi senza offrire reali argomenti (in nome della sacralità della vita gli uni, in nome della libertà di scelta gli altri).
È indubbio che gli sviluppi della tecnica nell’età contemporanea abbiano generato possibilità di vita e di cura inedite che pongono problemi altrettanto inediti e che sfidano la tenuta di concetti e parole dai significati tradizionalmente stabili, come il concetto stesso di persona, di natura umana, e di dignità che ad esse è associato.
Tuttavia, da un punto di vista linguistico la vaghezza che sfuma i confini di significato delle parole si pone non come un limite, ma come una risorsa. È ciò che consente alle parole di essere elastiche, duttili e di adeguarsi ai cambiamenti e alle sempre nuove esigenze di significazione di una comunità umana. Sta agli utenti della lingua non sottrarsi al confronto per arrivare a riempire le parole, là dove serve, di contenuti il più possibile condivisi e condivisibili.
Considerando, inoltre, che le dimensioni dell’umano che entrano in gioco nelle fasi estreme delle vita sono complesse, delicate, molteplici e riguardano la dimensione corporea, fisica dell’uomo ma anche la sua vulnerabilità, la sua fragilità, la sua soggettiva capacità di provare sofferenza, l’immagine di sé stesso che ciascuno di noi ha e vuole mantenere, il pregio dell’indeterminatezza di una parola come dignità sta anche nel fatto che a partire da un nucleo indiscutibile di principi e diritti inviolabili da considerare condivisi, si possa rinunciare a definirne il contenuto in maniera troppo dettagliata per poterlo declinare singolarmente in relazione a ogni singola persona.
Nota bibliografica:
Christian Ferrari
Maurizio Landini
Dario Missaglia
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