Dante nella poesia del Novecento

di Maria Antonietta Grignani

Riproponiamo,  grazie alla gentile concessione dell’autrice e dell’editore, l’intervento di Maria Antonietta Grignani, Dante nella poesia del Novecento, al Festival Dante 2021 promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna che si è svolto, nella sua prima edizione, a Ravenna nel settembre 2011. Il testo raccoglie alcune riflessioni sugli influssi di Dante nella poesia novecentesca attraverso esempi e confronti tra passi della Divina Commedia e testi poetici di Montale, Caproni, Luzi, Zanzotto, Sereni. Il lettore è condotto in un breve ma intenso itinerario di “ritorni” a Dante che, pur distorto e frantumato nella percezione e visione della complessità contemporanea, resta serbatoio inesauribile di parole e immagini che coprono una gamma sterminata di situazioni e registri diversi (il testo è pubblicato nel volume Conversazioni di Dante 2021, I/2011, a cura di Domenico De Martino, Ravenna, Longo editore, 2012, pp. 87-94).

Mi limiterò ad alcune riflessioni, anche se mi ero preparata un buon numero di citazioni testuali atte a mostrare la presenza di Dante nella poesia del Novecento, ma vedo che si fa tardi e tra poco si farà buio... Inoltre, quello che è stato detto molto opportunamente da coloro che hanno parlato prima di me, relativo a diversi temi evocati dall’immensa grandezza di Dante, suggerisce di cambiare un po’ rotta.


Sembra giusto rimarcare la seguente circostanza, sottolineata benissimo poco fa da Vittorio Coletti, storico della lingua molto esperto di sintassi. La sintassi italiana di oggi è molto più vicina alla forza, all’evidenza e alla relativa semplicità di Dante (della Commedia e del Convivio), che non alla complicazione di Boccaccio o alla rarefazione di Petrarca. Ma mentre accade questo, la netta sensazione cioè che Dante sia nostro contemporaneo perfino nel maneggio della lingua, nella poesia non è stato decisamente così, almeno fino al Novecento. La fama che ci siamo conquistati di “mandolinisti” e di amatori, in larga parte è legata, certo, agli stereotipi più sciocchi, ma è anche dovuta al fatto che la nostra tradizione lirica è stata sostanzialmente petrarchesca; il che ha portato all’esasperazione della magnifica astrazione del Petrarca, un codice che, usurandosi, nei secoli è diventato qualcosa di accademico e esangue per la gente comune, che vedeva l’enorme distanza fra questa lingua meravigliosa ma impraticabile, costituita dal solfeggio di non moltissimi termini, e la vita, la vita pratica, quella che ha bisogno di ciò che con termine tecnico si chiama “dispersione lessicale”: il ventaglio grande di parole appartenenti a registri molto diversi tipico del Dante della Commedia, mentre il lessico di Petrarca è schizzinoso e selettivo. C’è stato un momento, un tornante nella poesia del Novecento, che grossomodo inizia con la fine della Seconda Guerra Mondiale, con il Neorealismo, e quindi anche con quel tanto di realismo concesso alla poesia. Un tale tornante a mio parere ha avuto la sua spinta più “di massa” – ammesso che di massa si possa parlare a proposito di poeti – nel pieno degli anni Sessanta.


Propongo pochi argomenti che spero significativi.


Mario Luzi nasce come ermetico, sostanzialmente petrarchesco. Ed è solo intorno al 1960 che si rende conto della grandezza di Dante e dell’efficacia della sua lezione sostanziale e formale per un rinnovamento del codice poetico, afflitto da esaurimento e esangue nel suo riportarsi costantemente al soggetto lirico: il viraggio di poetica e di effettivo lavoro sulla parola da parte di Luzi ci dà la misura della crisi di un’epoca e della sua risoluzione nel nome di Dante. Eugenio Montale, invece, linguisticamente petrarchesco non è stato mai, è stato soprattutto dantesco, e tra gli altri nemmeno direi Giorgio Caproni, entrambi con una netta predilezione per situazioni, lessico e rime dell’Inferno.


Cosa succede, allora, in un poeta che era nato sotto una diversa costellazione e con un’idea diversa di poesia, come Mario Luzi? Succede che si mette a ristudiare Dante e arriverà a parlarne con affermazioni come questa: «C’è stato, al suo giusto momento, Dante. E Dante ha ampliato e portato incomparabilmente in alto il livello del paragone», tra dicibile e detto. Dicibile e detto è un binomio che va interpretato anche alla luce del fatto che Luzi è un credente, non così Montale o Sereni o Caproni o Zanzotto. Tuttavia, il problema del rapporto cosa-parola ossia della dicibilità, tema antichissimo ma risorto alla grande nel Novecento, Dante lo ha affrontato soprattutto nel Paradiso (ove l’ineffabilità è inevitabilmente di tipo teologico) in modo audace, starei per dire “muscoloso”, mentre invece i rarefattori della lingua lo hanno affrontato in modo più “arcadico” (uso arcadico nel senso più esteso e banale del termine). Luzi a partire dagli anni Sessanta si rende conto che la poesia italiana non può più andare avanti così com’è andata a lungo, chiusa in se stessa e nel cerchio magico del soggetto “lirico”, e quindi passa armi e bagagli al modello dantesco, con quel di più di tensione metafisica che sta non tanto nell’Inferno quanto nel Purgatorio (Luzi ha preparato un testo Il Purgatorio. La notte lava la mente, adattamento del Purgatorio per la compagnia teatrale Tiezzi-Lombardi, 1990) e soprattutto nel Paradiso con il suo tema-guida della luce che alona di pulsione all’effabilità l’indicibile della visione ultraterrena.


Non ricorro ad esempi analitici, poiché non c’è dubbio che nelle raccolte della maturità di Luzi, da Nel magma in poi, compaiono temi e tessere lessicali nonché foniche  nuovi e appartenenti a registri forti o “realistici”. Perdipiù nella trilogia di cui il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini è il terzo elemento (i primi due sono Per il battesimo dei nostri frammenti 1985 e Frasi e incisi di un canto salutare 1990) compare addirittura la sinopia della “struttura” dantesca delle tre cantiche. Il Viaggio, in particolare, ha la struttura di un itinerario anche terreste da Avignone a Siena, ma, come dice il titolo, pure interiore o celeste verso i luoghi dell’anima, dell’arte e della fede. E i dantismi si fanno sempre più frequenti, sotto il criterio-guida di una lingua-madre o, luzianamente, matria, da “scalpellarsi” più che da corteggiare e dipingere armoniosamente.


Ma il ventaglio del riuso di Dante nel Novecento non solo italiano, nelle varie forme di citazione riconoscibile, citazione occulta o allusiva, al limite persino di ironia e distanza e controcanto, oppure - sul livello più formale - di spinta alle rime o fonìe aspre e chiocce e alle neoformazioni verbali, questo ventaglio di ritorni a Dante è enorme e proteiforme. Nemmeno se avessimo il favore di un tramonto ravennate lunghissimo e il pubblico mostrasse una dedizione certosina, si potrebbe ricostruirlo e imbrigliarlo in precise caselle tipologiche, ma per fortuna la nostra è una conversazione informale e in luogo affascinante di suo, all’aperto.


Diciamo intanto che, a parte il caso alquanto eccezionale di Luzi, un poeta contemporaneo può rinviare solo di scorcio e di taglio alla complessiva situazione del cammino ascensionale di Dante e alla «ideologia di ferro», per dirla con Pasolini, che lo guida.  Perduto come nel primo dell’Inferno, in una selva selvaggia e oscura, sarà perennemente Caproni, che per giunta non crede alla possibilità di esperta guida di un Virgilio, cioè non crede più teologicamente e teleologicamente a un cammino di salvezza: Caproni in diverse sue raccolte si trova in luoghi aspri, in una metaforica selva, sperimenta incontri con delle ombre e perfino con alcune fiere quasi dantesche (Il Conte di Kevenhüller!), però non ha più, come dire, il “quadro completo” e la tensione a superare le difficoltà verso un esito superiore. Non ce lo ha più il filo d’Arianna di un percorso e non ce lo può avere più, un poeta novecentescamente senza dio.


Perciò avremo rinvii e  citazioni più o meno esposte, che riprendono i luoghi canonici e riconoscibili, di Dante, e però li disossano, stritolano, ne producono torsioni, perché la nostra epoca, per l’appunto, non è più un’epoca né di teologie tranquille, né di visioni compatte del mondo. Tanti passi di Andrea Zanzotto ripetono e perfino balbettano e smembrano passi famosi della Commedia. Ne I misteri della pedagogia di Pasque i dubbi sul permanere di un classico modello pedagogico comportano la sillabazione di un passo del Paradiso (XIX, 64.65: «Lume non è se non vien dal sereno / che non si turba mai») con la perplessità che viene per un lato dall’ammirazione per il fondatore della lingua italiana e per l’altro dalla consapevolezza che la centralità pedagogica della parola poetica è ormai perduta: «E rido con Dante nel sereno / che non si turba mai», chiudendo con una citazione balbettata e sforbiciata con un reciso taglio del testo di riferimento: «Lume non è se non vien / si turba mai».


Ci può essere, poi, un innovatore pugnace e “rivoluzionario” come Edoardo Sanguineti, che usa il dantismo in funzione totalmente polemica e antilirica. Non polemica nei confronti di Dante, e nemmeno di Petrarca in quanto tale, ma nei confronti della musica monotona o ronzio abusato della tradizione e sua contemporaneità, di lui Sanguineti. Ma per Sanguineti il discorso sarebbe lungo e complesso.


La stessa cosa, con posture ideologiche e caratteristiche linguistiche diverse, ha tentato di farla Pasolini. Nel racconto solo abbozzato La mortaccia, nel non-finito della Divina Mimesis e poi in quell’ultima opera che è stata pubblicata incompleta – perché incompleta rimase alla morte tragica di Pasolini stesso – che fu intitolata Petrolio, Pasolini ripiglia il tema dei gironi infernali della prima cantica dantesca, adattandolo alla più orribile o problematica degenerazione della contemporaneità. A un certo punto, però, regolarmente smette, non ce la fa a finire, perché non è possibile oggi essere Dante a tutto tondo, ideologicamente, strutturalmente e teologicamente.


C’è, prima negli Ossi di seppia (1925), indi contemporaneamente ai casi citati sopra, l’esempio di Montale, che è  utile luogo per luogo e a vari livelli, perché per Montale quello che conta maggiormente è rinnovare la concretezza plastica delle immagini e la forza creativa della lingua: riprendere le rime aspre di Dante vuol dire per lui soprattutto lavorare per “rendere concreto anche l’astratto”, magari nella forma del “correlativo-oggettivo”, l’equivalente oggettuale di sentimenti e situazioni personali, anche mediante la tradizione contemporanea anglo-americana del dantescamente «miglior fabbro» Ezra Pound, da una parte e, soprattutto, del grande T. S. Eliot. Ingaggia una sorta di gara, Montale, fatta di equivalenti oggettuali e metafore corporee, di elementi fonici forti, di rime aspre e di neoformazioni lessicali, di verbi derivati da nomi, talora mediante il prefisso in-: divallare, ventare, stellare, annottare; e poi inostrare, infuturarsi, indiare. Perché Montale si dedica a una tale competizione? Perché non si riconosce più in una tradizione lirica che era al suo esaurimento: gli interessa già nel 1925 soprattutto il carattere, starei per dire, “materico” della poesia, una pietra dura da lavorare con l’inventività linguistica.


Sono stati fotocopiati per gli astanti due testi di Montale: uno è appunto negli Ossi di seppia il famoso Meriggiare pallido e assorto, dove è evidente il richiamo delle rime del canto dei suicidi di Pier delle Vigne, il XIII dell’Inferno, se non altro per quell’«ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi» (Dante rima scerpi: sterpi: serpi):


Ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo ed or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

 

Ma Montale non si accontenta di prendere in carico la forza verbale di Dante: ci mette parecchio del suo (c’è anche del Pascoli in questo “osso breve”, ma non serve all’occasione di oggi). La terza strofa montaliana è: «Osservare tra frondi il palpitare / lontano di scaglie di mare / mentre si levano tremuli scricchi / di cicale dai calvi picchi», con un’altra rima, originale ma dantescamente forte, fonicamente intensa. E poi ancora in rima una raffica di parole a alto rendimento fonico: abbaglia, meraviglia, travaglio, muraglia, bottiglia.


Un’altra poesia di forte impronta dantesca è il famoso Mottetto del ramarro nelle Occasioni:

       
Il ramarro, se scocca
sotto la grande fersa
dalle stoppie

la vela, quando fiotta
e s’inabissa al salto
della rocca

il cannone di mezzodì
più fioco del tuo cuore
e il cronometro se
scatta senza rumore

e poi? Luce di lampo
invano può mutarvi in alcunché
di ricco e strano. Altro era il tuo stampo.
       

 

È una poesia di epifanie laiche, di amore, ma anche di equivalenze oggettive, costituite da una serie di movimenti sorpresi nell’istante, che sono le apparizioni, le quali possono riportare vittoriosamente o – come qui – non riuscire a riportare alla mente la presenza della donna. Ma importa che, all’interno di una poetica moderna com’è quella montaliana e di Eliot, del correlativo-oggettivo, il mottetto ripiglia un paragone di Inferno XXV, la bolgia dei ladri e di Vanni Fucci, con il serpentello e il paragone con la fulminea apparizione del ramarro sotto la luce ardente del sole estivo: «Come ’l ramarro, sotto la gran fersa / dei dì canicular, cangiando sepe / folgore par se la via attraversa». In chiusura il collegamento è a un passo della canzone di Ariele ne La Tempesta («into something rich and strange»). Sono quindi appaiati il massimo poeta italiano e il grande Shakespeare. Tra parentesi si vede come il Novecento italiano non si possa capire e studiare stando sempre dentro la nostra tradizione, ma si debba ricorrere anche a modelli stranieri, francesi, tedeschi, inglesi.


Tornando al nostro tema, si deduce che Dante autore della Commedia e poeta “petroso” è vitamina per i poeti che non vogliano restare dei puri lirici, per esempio mediante la creazione di immagini formidabilmente plastiche.


Il caso di Zanzotto, ricordato sopra, è complicato, perché Zanzotto è stato contemporaneamente anche molto petrarchesco (La Beltà, Galateo in bosco), è un poeta che teorizza la filiera della letteratura come un patchwork di citazioni e magari di citazioni di citazioni, di rapporti di collaborazione, di continuità e di discontinuità fra poeti, il che può prestarsi perfino a qualche sospetto di formalismo. Ad ogni modo sul realismo dantesco Zanzotto spende parole ben nette, parlando della capacità di «solidificare in un tutto unico immagini diverse, stringendole nelle terzine» e precisando quanto segue in una intervista rilasciata a Niva Lorenzini («il Verri», 39, 2009):

      
Non avrei dubbi nel riconoscere il mio ‘miglior fabbro’ nel ‘miglior fabbro’ stesso dell’indicazione eliotiana, cioè in Dante. Dante è l’inventore della lingua. È il fabbro, cioè colui che fa e che facendo mostra il potere che ha questa lingua.      


Giorgio Caproni addirittura modula e riusa Dante a partire dai titoli: Il seme del piangere del 1959 è dedotto dai vv. 45-46 del XXXI del Purgatorio («udendo le sirene sie più forte, / pon giù il seme del piangere ed ascolta») con una torsione semantica che punta sul valore germinativo di seme quale ‘origine prima’, in riferimento al lutto per la scomparsa della madre Anna Picchi. Il titolo Il muro della terra (poesie composte fra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta) è pure dantesco, dall’attacco di Inf. X: «Ora sen va per un secreto calle / tra ’l muro della terra e li martiri / lo mio maestro, e io dopo le spalle». Di nuovo si tratta di stravolgimento semantico di Dante, perché il muro della terra, in Caproni, non ha il significato che terra ha in Dante, dove la terra è la città di Dite, dalle mura metalliche. In Caproni invece il muro è il confine di mistero e inconoscibilità che avvolge la terra intesa come l’intero pianeta e non c’è un Virgilio a salvare dallo scacco dell’assenza di dio. Si tratta di qualcosa di simile al fenomeno per cui due parole di lingue diverse, che si somigliano nella forma, generano errori nel tradurre, false friend, si direbbe. Qui abbiamo terra, un termine semplice, che è rimasto nella lingua italiana, ma che nel caso di Dante non vuol dire quello che vuol dire usualmente per noi e che Caproni gli fa dire. Un pezzo brevissimo, intitolato Anch’io dice così:


Ho provato anch’io.
È stata tutta una guerra
d’unghie. Ma ora so. Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra.

 

Quindi in Caproni, pur nella sicura consapevolezza del significato originario, il muro della terra diventa un’immagine claustrofobica: il muro che sta intorno all’universo, o comunque intorno alla terra (appunto non nel senso della città) e che non ci permette di sperare più in alcuna teologia positiva. Significativa anche una poesia intitolata non a caso Controcanto ne Il Conte di Kevenhüller, del 1986, dove Caproni stravolge completamente le tessere lessicali dantesche del primo dell’Inferno come tracce, relitti lessicali, ponendole entro un vuoto tipografico (cammino, vita: smarrita, selva, selvaggio: viaggio). Osserviamo che c’è una specie di ritorno quasi ossessivo del primo canto nella poesia di Caproni e, più in generale, nella poesia novecentesca; e d’altronde l’immagine del bosco sacro (The Sacred Wood) che dà il titolo a un libro famoso di Eliot parte pur sempre  da lì, dalla archetipica selva dantesca richiamata e rimodulata in mille modi nella poesia moderna (lo fa anche Torquato Tasso con la selva incantata nel XIII della Gerusalemme liberata).


Le tessere di questo canto incipitario, in Controcanto sono elementi verbali che qualsiasi liceale ha in mente (o aveva, quando si mandava a memoria la Commedia), divenute proverbiale patrimonio di tutti, che tornano tutte quante ma in contro-canto, sbriciolato pessimisticamente il legame musaico del canto dantesco. E questa, appunto, della nostalgia per l’armonia perduta e dello smembramento, è un’altra delle caratteristiche del dantismo dei nostri poeti del Novecento.


Si entrerebbe qui in un discorso critico non pertinente in questa circostanza, dove invece ci si è domandati non tanto il perché quanto in che misura la presenza linguistica di Dante sia dominante nel Novecento (non solo italiano), e sia una sorta di impronta archetipica – e qui riprendo quello che hanno detto Nicoletta Maraschio e Vittorio Coletti – una sorta di sinopia, che si riaffaccia tanto nel parlato italiano quanto nella prosa e nella poesia, dopo secoli in cui il parlato unitario non c’era (o quasi) e lo scritto letterario era avvertito come “iperuranio”, un linguaggio “speciale” per pochi eletti (c’era peraltro in Italia anche la condanna di un perdurante analfabetismo).


Dante, nella sua immensità, è avvertito oggi come più vicino di altri, altrettanto grandi, del passato: Boccaccio è un grande, naturalmente, ma noi non lo avvertiamo così vicino lessicalmente, sintatticamente e, starei per dire, come potenza di creazione di immagini forti; non lo sentiamo noi cittadini e non lo hanno sentito così vicino neanche i nostri scrittori. La proposta di recitazioni dantesche nei teatri, alla radio e sulle pubbliche piazze, che da almeno tre decenni è di grande successo (da Sermonti a Benigni) è la dimostrazione “popolare” della vitalità del padre della lingua italiana.
 

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