Eutanasia

di Matilde Paoli

L'articolo costituisce la rielaborazione scritta di un intervento orale presentato all’interno dell’iniziativa “Il morire e la morte”, promossa nel febbraio-marzo 2019 dalla Fondazione culturale Niels Stensen di Firenze, con la collaborazione dell'Accademia della Crusca. All’interno del fitto programma, oltre a proiezioni di film e letture di classici, erano previste quattro conferenze a più voci, affidate a filosofi, teologi, medici, bioeticisti, giuristi, tutte introdotte da una breve riflessione linguistica sulla parola chiave del tema affrontato. Così il 2 febbraio il pomeriggio dedicato a “Il morire e la morte oggi” è stato iniziato da Ludovica Maconi che si è soffermata sulla parola morte, il 16 febbraio è stata la volta di Cristina Torchia su dignità (a introduzione del tema “Alla fine della vita”), il 2 marzo è intervenuta Matilde Paoli su eutanasia (“Che cos’è l’eutanasia”), e infine il 16 marzo chi scrive ha introdotto la discussione su “Il morire e l’ordinamento giuridico” affrontando le parole legate alle scelte.

Il termine eutanasia è quel che si definisce un cultismo, una parola di tradizione dotta: si tratta cioè di uno di quei termini che non sono arrivati fino a noi per tradizione popolare e ininterrotta. I cultismi sono per lo più di termini “tecnici” che appartengono a lessici specialistici; spesso sono coniazioni recenti (buona parte di queste forme risale al XVIII secolo) create artificialmente con elementi greci o latini.

Eutanasia invece non è una costruzione artificiale, ma piuttosto un recupero: è, infatti, una parola greca che appartiene al patrimonio antico di quella lingua. La voce non è passata attraverso la tradizione latina: non compare nei lessici né del latino classico, né in quelli della media e bassa latinità, fatta eccezione per i rarissimi casi in cui la si riporta con asterisco, come corrispondente del latino placida mors. I latini che la usarono erano pienamente consapevoli della sua appartenenza alla lingua greca.

Se la forma attuale è pressoché identica a quello originaria, il significato è mutato: ciò che a noi interessa è proprio la sua evoluzione nel tempo.
Composta da εὖ «bene» e dal tema di ϑάνατος «morte», eutanasia significa letteralmente “buona morte”. Questo concetto apparentemente chiaro è in realtà variamente interpretabile: cosa debba intendersi per buona morte dipende, infatti, dai tempi, dai luoghi e dalle culture. Poteva essere così intesa la morte eroica in battaglia nell’antichità o anche la morte nelle guerre “sante”. Una buona morte può essere per qualcuno in determinate circostanze anche il suicidio.

Inoltre una buona morte può essere intesa in senso fisico, in senso etico, in senso spirituale.
In senso fisico la buona morte può riferirsi a una circostanza naturale o indotta, volontaria o involontaria: per fare un unico esempio, una buona morte poteva (e forse può ancora essere) quella inflitta per finire l'avversario gravemente ferito in battaglia con il colpo di grazia (espressione datata in italiano 1771, da confrontare con il francese coup de grâce, 1671). Non a caso nel Medioevo e ancora nel Rinascimento si indicavano col termine misericordie (XIII sec.) i pugnali a lama lunga e sottile utilizzati a questo scopo.
In senso etico può indicare la morte cui si va incontro come cosa giusta e con sereno spirito di accettazione e che può apparire come il perfetto compimento della vita. Anche in questo caso la morte può essere indotta e anche auto inferta: così era talvolta nella Grecia antica il suicidio.
In senso spirituale infine la morte è un trapasso necessario, non una fine ma un cambiamento: se è bella, è il risultato di ogni scelta fatta nella vita.

Per seguire l’evoluzione del significato di eutanasia, ovvero per capire come il valore di ‘bella, buona morte’ abbia condotto al suo significato odierno, cercheremo di ripercorrere, seppur a grandi linee, le vicende della parola.
L’ingresso ufficiale di un termine in una lingua è quando viene registrato nella lessicografia; per eutanasia ciò accade relativamente tardi, ovvero nel XIX secolo. In realtà la sua storia per così dire “sotterranea” prende avvio molto prima, già nel XVI secolo.
Per quanto riguarda il percorso “alla luce del sole” troviamo la prima registrazione nella lessicografia di lingua nel Vocabolario universale italiano, compilato a cura della società tipografica Tramàter e C. (7 voll. Napoli, 1829-1840) in cui se ne rileva l’appartenenza all’ambito specialistico della teologia: “eutanasia (Teol.) […] Morte felice o passaggio dolce e tranquillo ed in istato di grazia”.
Si citano come fonti due opere lessicografiche specialistiche coeve: il Dizionario etimologico di tutti i vocaboli usati nelle scienze, arti e mestieri che traggono origine dal greco di Bonavilla Aquilino pubblicato a Milano nel 1819-1821 e il Dizionario enciclopedico della teologia, della storia della chiesa, degli autori che hanno scritto intorno alla religione, dei concilii, eresie, ordini religiosi ec. del celebre Abate Bergier tradotto in italiano nel 1827-1831.
Questa seconda opera è appunto la traduzione della Théologie di Nicolas Bergier, III tomo (1790) dell’Encyclopédie méthodique (Paris, chez Panckoucke), in cui euthanésie è definita come la “mort heureuse de ceux qui passent sans douler, sans crainte et sans regret de cette vie a l’autre ou qui meurent en état de grâce”[‘morte felice di chi passa senza dolore, senza paura e senza rimpianto da questa vita all’altra, o chi muore in stato di grazia’].
La morte a cui ci si riferisce è chiaramente il trapasso dalla vita terrena a quella spirituale e il suo definirsi buona dipende dall’avvenire tale passaggio in “stato di grazia”. 

Secondo questa attestazione la voce sarebbe giunta in italiano attraverso il francese tra il XVIII e il XIX secolo. Lo stesso francese l’avrebbe acquisita relativamente tardi: secondo il Tresor de la langue francaise (TLFi) la prima attestazione in quella lingua risalirebbe al 1771 nel Dictionnaire universel françois et latin, vulgairement appelé Dictionnaire de Trévoux.
Sembrerebbe quindi trattarsi di un cultismo di ambito specialistico (in particolare teologico) tardo settecentesco, giuntoci tramite il francese, il cui significato pertiene alla fisicità della morte (“senza dolore”), ma soprattutto al trapasso spirituale (“in stato di grazia”).

Nel Supplimento a' vocabolarj italiani (1852-1857) di Giovanni Gherardini di poco posteriore al Tramàter troviamo però qualcosa di diverso; qui eutanasia è definita semplicemente “morte tranquilla e naturale”, senza alcun accenno all’uso in ambito specifico. Gherardini cita inoltre un passo dalla traduzione delle Vite dei dodici Cesari di Svetonio:

La morte (d’Augusto) fu agevole, secondo che sempre aveva desiderata; perché, ogni volta ch’egli intendeva, alcuno essere morto presto e senza tormento o stento alcuno, pregava li Iddii che concedessero tanto a lui, quanto a tutti i suoi simili, eutanasia, chè così era solito chiamarla; che vuol dire buona morte. [qui e oltre neretto mio]

Dopo la registrazione del Gherardini, il termine viene accolto nel Dizionario della lingua italiana, di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini (Unione tipografico-editrice torinese, 1861-1879); vi appare però come voce ormai desueta, come segnalato dalla presenza della crux. La definizione rimane inalterata e si riporta, benché in forma ridotta, il passo dalle Vite di Svetonio.

La traduzione delle Vite dei dodici Cesari citata da Gherardini e dal Tommaseo-Bellini è quella “in volgar Fiorentino” di Paolo Del Rosso “cavalier Gerosolimitano”, uscita in Roma nel 1544. Questa testimonianza ci riporta indietro di due secoli rispetto all’attestazione in ambito teologico giuntaci per tramite francese; ci riporta alla cultura rinascimentale che “traduce” in italiano la cultura umanistica che trovava nel latino la sua lingua.
In tale clima culturale la circostanza che Augusto si augurasse una buona morte usando il termine greco euthanasia ebbe un certo successo, tanto che nel XVI secolo diviene quasi un topos letterario. La troviamo per esempio citata nella Vita del sereniss.mo S.r Guiglielmo Gonzaga duca di Mantoa, et di Monferrato &c. Descritta da Lodouico Arriuabene, del 1588, laddove si tratta della morte del signore il quale

morì di morte assai mansueta et piacevole, duono, ch’a’ mortali rade volte conceder si suole, tra’ quali uno ne fu Cesare Augusto, di cui si legge che qualunque volta egli udiva dire ch’alcuno di questa vita con poco o niun dolore sentire et senza stentare passato fosse e pregava gli Iddii, ch’a sé et a gl’altri amatori della virtù, facessero grazia di buona morte, la quale esso, grecamente favellando chiamava Euthanasia.

In pieno Seicento il termine è ancora impiegato a illustrare una esemplare conclusione della vita, ma in questo caso si tratta della morte di santi. Ne abbiamo un esempio nel Panegirico in lode di san Uomobuono cremonese di Giovanni Rhò della Compagnia di Giesù Detto nel Duomo di Cremona l’anno Mille seicento cinquant’uno. In quest’opera il riferimento all’ambientazione classica sfuma e la forma si cala totalmente nella cultura religiosa. Ecco quindi cosa intendevano i cattolici del secolo XVII per buona morte:

con beatissima sorte, innanzi all’altare del Crocifisso, a ginocchia piegate, a braccia stese, assistendo al divinissimo sagrificio, quando appunto s’intonò l’Angelico inno del Gloria in Excelsis, ella [l’anima di Uomobuono] con un sospiro, quasi la sua parte mortale cantando, a congiungersi con gli Angioli felicemente volando trapassò. Se questa non è Euthanasia, come favellano i Greci, qual sia di non saperlo io liberamente confesso. Qui concorrono tutte le circostanze che per rendere felice la morte desiderare si possono.

Siamo quindi arrivati al valore del termine francese che pertiene all’ambito teologico.

Ma in un testo edito a Venezia qualche decennio dopo, nel 1728, Le vite de' Santi per tutti i giorni dell'anno, con brevi riflessioni morali nel fine d'ogni Vita, opera del Rev. Padre Giovanni [Jean] Croiset della Compagnia di Gesù. Traduzione di Selvaggio Canturani (tomo III), laddove si descrive ancora la morte di Sant’Uomobuono Confessore, praticamente con le stesse parole, non si parla più di euthanasia bensì della “morte la più dolce e la più santa”.

Cosa è cambiato nel frattempo? Troviamo una spia di ciò che si stava muovendo nel panorama culturale europeo nel Belveder intellettuale un testo di Franciscus Matthias de Kirchoffen pubblicato a Venezia nel 1678. In esso si parla di euthanasia exterior, concetto introdotto nel 1660 in ambiente tedesco, “per distinguer quella che risguarda la preparazione dell’anima”: evidentemente il riferimento agli aspetti “fisici” della buona morte stava di nuovo emergendo. All’ambito culturale tedesco si deve poi l’espressione più recente (risalerebbe al 1676) ed esplicita euthanasia medicinalis. Per comprendere di cosa si tratti leggiamo un passo dal Belveder intellettuale:

stimo eziandio non solo appertinere alla carica del Medico il restituire la sanità ma che mitighi eziandio i dolori e cruciati. Né questo stesso solo però perché quel lenimento di dolore quasi d’un sintoma pericoloso giovi e conduca alla convalescenza. Anzi dove il negozio di recuperare la sanità affatto è disperato indi almanco renda il morire più dolce e placido atteso che sia gran parte della felicità quella Euthanasia tanto d’Augusto Cesare desiderata.

Il passo in realtà è una traduzione-adattamento dal De dignitate et augmentis scientiarum libri IX, edito a Parigi nel 1624, di Francis Bacon al quale si deve l’introduzione del concetto di euthanasia in medicina.
In area anglosassone è iniziato quindi lo slittamento verso l’ambito specifico della medicina ed echi di questo si hanno anche, come abbiamo detto, in Italia. Nella “traduzione esatta dall'inglese” del Supplemento di Giorgio Lewis al dizionario universale delle arti e scienze di Efraimo Chambers – Ephraim Chambers pubblicò a Londra nel 1728 la Cyclopaedia or Universal Dictionary of Arts and Sciences – pubblicata a Venezia nel 1762 alla voce agonia – dal greco ἀγωνία propriamente ‘lotta’ – si legge all’incirca quanto abbiamo visto nel Belveder intellettuale. Ma in questo testo si aggiunge che Bacon “né pare disapprovi lo studiare la filosofia epicurea”; si cita poi l’epigramma Hinc Stygias ebrius hausit aquae riferito a Epicuro il quale in punto di morte, entrato in una tinozza di bronzo piena di acqua calda, chiese del vino per affrontare privo di coscienza il trapasso. E si continua: “Per simigliante effetto è stato messo in opera l’oppio con approvazione e plauso d’alcuni ma la maggior parte lo riprova e lo condanna…”.

Si comincia cioè a porre la questione di cosa sia lecito fare per garantire la “buona morte” ai moribondi. Ce lo suggerisce anche la coniazione di un’altra espressione, eutanasia palliativa, da parte di Christoph (o di suo padre Georg, non essendo certa l’attribuzione del testo) Detharding – siamo ancora in ambiente anglosassone – nella Disputatio inauguralis medica de mortis cura, etc. (Rostochii [Rostock], 1723).

Nel corso del Settecento quindi l’euthanasia exterior (o anche naturalis) ovvero la “buona morte” in senso fisico (distinta da quella intesa in senso spirituale) assume una “identità” particolare in ambito medico dove viene indicata come medicinalis o palliativa o medica. Con eutanasia ormai si intende una buona morte che non dipende più unicamente dal caso (o dalla volontà divina), ma che può essere assicurata dall’uso di sostanze in grado di attenuare le sofferenze dell’agonia.

Possiamo così riassumere, mantenendo come centro l’Italia, l’evoluzione semantica di eutanasia: nel ’500 si ha la prima testimonianza nel volgarizzamento delle Vite dei dodici Cesari che fa riferimento alla civiltà classica; la parola diviene un topos letterario e laico per indicare una morte serena e senza dolore; nel secolo successivo, immerso nella cultura controriformistica, il termine viene impiegato per indicare una “santa morte”, ovvero la buona morte spirituale. Così si trasmette nel ’700 in Francia, dove si specializza come termine della teologia; e così lo troviamo di ritorno in Italia accolto a inizio ’800 nel Tramàter.
D’altra parte già nel ’600, in ambiente anglosassone, il termine viene utilizzato in ambito medico per indicare l’uso di farmaci al fine di ridurre le sofferenze della morte e così arriva a noi nel corso del ’700.
Di questa seconda linea di sviluppo però non troviamo traccia né nel Tramàter, né nel più tardo Tommaseo-Bellini il quale, come abbiamo visto, riporta la voce come desueta riferendola all’uso di ambito classico e rinascimentale.

Nei lessici specialistici di medicina contemporanei però, sebbene senza alcun cenno all’uso di cure palliative, la voce è comunque presente: la troviamo per esempio come “morte placida, senz’agonia, senza dolore” nel Dizionario dei termini di medicina, chirurgia, veterinaria, farmacia, storia naturale, botanica, fisica, chimica, ec. di Begin, Boisseau, Jourdan, Montgarny, Richard, dottori in medicina, Sanson, dottore in chirurgia, Dupuy professore della scuola veterinaria di Alfort. “Ridotto ad uso degli italiani con molte aggiunte da Giovambatista Fantinetti […] ed Amedeo Leone […]” (Milano, presso gli editori degli annali universali delle scienze e dell’industria, 1828).
Qualcosa di decisamente più specifico si legge invece in una traduzione del Diphtheria: Its Nature and Treatment, Varieties and Local Expressions di Sir Morell Mackenzie (1879) citata nel “Morgagni: revista settimanale”, vol. XXII, anno 1880: “Alcuni autori han sostenuto che anche in quelli [in quei casi, ndr] del tutto disperati […] nei quali l’infermo sta per morire di dispnea, dovrebbe praticarsi la tracheotomia nello scopo di promuovere la eutanasia” (p. 620 nota 1). 

All’inizio del XX secolo anche la lessicografia italiana – quasi contemporaneamente a quella francese che lo registra in questo senso nel Nouveau Larousse illustré. Dictionnaire universel encyclopédique, 1897-1907 – riconosce il valore del termine in ambito medico.
Alfredo Panzini, nel suo Dizionario moderno: supplemento ai dizionari italiani del 1905 riporta la voce Euthanàsia, con accento alla latina, e così la definisce:

la buona, la placida morte mercé l’opera medica che con farmachi toglie la pena dell’agonia. Usasi talora, con ispeciale senso filosofico, per indicare la morte dello stoico e del savio.

La stessa definizione compare nelle successive edizioni fino alla V del 1927. Questa specializzazione del significato di eutanasia resta però del tutto sconosciuta ai dizionari contemporanei che pure riportano la voce. Nello Zingarelli 1917 eutanasia è ancora la “morte tranquilla e naturale” del Tommaseo-Bellini e così pure in altri dizionari coevi. Nello Zingarelli la definizione resterà invariata anche nelle edizioni del 1929/30 e del 1937/38.

Qualcosa di più complesso presenta il Nomenclatore scolastico o vocabolario delle idee (Milano, Fratelli Treves 1913) di Palmiro Premoli: s.v. morte sono riportate le parole biotanasìa (forma che non ci risulta attestata altrove in italiano, mentre sembra attualmente in uso in spagnolo) come “morte subitanea e violenta: suicidio”, distanasia “morte dolorosa e penosa” ed eutanasia “morte felice, tranquilla”. A eutanasia si contrappone come antonimo (cioè la voce con significato opposto), il termine cacotanasìa che però non viene però definito. La stessa voce cacotanasìa nella Nuova enciclopedia italiana (Unione tipografico-editrice torinese, 1877) è presente come termine della medicina e definita come “Abuso di medicamenti a malattia disperata, per cui si fa più penosa la morte”. Noi oggi diremmo “accanimento terapeutico”. Si può forse presumere che Premoli fosse a conoscenza di questo valore.

Torniamo al Panzini: il suo vocabolario col titolo Dizionario moderno delle parole che non si trovano negli altri dizionari o nei dizionari comuni viene nuovamente pubblicato nel 1931, nel 1935 e, con un’appendice Schiaffini e Migliorini, nel 1942 (rispettivamente IX, XIII e XXI anno dell’era fascista). In tutte queste edizioni in coda alla definizione di Euthanàsia (rimasta identica) si legge: Grave questione se la medicina può, in certi casi, valersi dell’eutanàsia!”

Non possiamo dimenticare che durante gli anni Trenta e Quaranta del Novecento il regime nazista utilizzò, oltre alla sterilizzazione per persone con problemi di deficit mentali (o considerate tali), l’uccisione nelle camere a gas installate negli ospedali psichiatrici per decine di migliaia di disabili istituzionalizzati attraverso programmi obbligatori di eutanasia (il famigerato programma Aktion T4) che prevedevano anche l’iniezione letale. Anche questo poteva essere considerato una “buona morte”.

Il dizionario del Panzini non viene più edito dopo il 1942, ma lo Zingarelli nel 1963 vede la sua IX edizione nella quale, per la prima volta, si va al di là dell’eutanasia a scopo palliativo del Panzini e si dice esplicitamente che il termine, come seconda accezione indica l’“anticipazione, con mezzi indolori, della morte di un ammalato inguaribile e tormentato dal male; condannata dalla Chiesa, propugnata da alcuni medici e biologi”.
Nella X edizione, la prima postuma, del 1970 si inverte l’ordine delle definizioni, a indicare che l’uso in ambito medico (rilevato anche dall’annotazione med.) è invalso, mentre la seconda accezione porta la crux; scompare anche il commento su condanna e propugnazione:

eutanasìa 1 (med.) Rapida conclusione, con qualsiasi mezzo atto a procurare la morte in modo non doloroso, di un processo patologico a prognosi infausta e accompagnato da sofferenze ritenute intollerabili. 2 † Morte tranquilla e naturale.

Nelle successive edizioni del 1983 e 1989 tutto rimane inalterato fino alla XII del 1994 in cui leggiamo:

eutanasìa 1. (med.) Morte non dolorosa provocata in caso di prognosi infausta e di sofferenze ritenute intollerabili. E. attiva per somministrazione di determinate sostanze | E. passiva per sospensione del trattamento medico. 2 † Morte tranquilla e naturale.

Si dà quindi conto delle diverse modalità in cui l’eutanasia può realizzarsi. Inoltre in questa edizione troviamo anche il lemma distanasia (già visto, ma con altro valore, in Premoli che sostituisce il cacotanasia registrato dalla Nuova enciclopedia italiana, Utet, 1877):

distanasia [da eutanasia con sostituzione del prefisso eu- con dis- ; cfr.gr. dysthànatos ‘che produce una dura morte’] Morte dolorosa, con riferimento all’uso di tecniche terapeutiche che mirano a prolungare la vita del paziente quanto più possibile, senza tener conto delle sofferenze cui va incontro.

Quanto sopra rimane invariato fino all’edizione del 2019 dello Zingarelli in cui si aggiunge soltanto il derivato eutanasico datato 1939 con il valore “di eutanasia atto e.| relativo all’eutanasia”.
Così troviamo in tutti i dizionari contemporanei. Ciò che non viene mai esplicitato è che l’eutanasia per essere ritenuta tale e non omicidio deve avere il consenso del paziente.

Ormai è chiaro che ci stiamo movendo nel campo della giurisprudenza, concludo quindi con la definizione di eutanasia nell’ambito del nostro diritto penale:

Eutanasia (d. pen.)
In senso letterale (dal greco eu = bene, e thanatos = morte) significa dolce morte.
Nell'ambito del concetto di (—) occorre operare una distinzione tra l'(—) collettivistica, realizzata per uno scopo di utilità pubblico-collettiva, e l'(—) individualistica (o pietosa), posta in essere per un sentimento di pietà nei confronti della vittima in ragione del particolare stato in cui la stessa versa.
L'(—) collettivistica (o eugenica o economica) tende ad eliminare gli individui malati o deformi allo scopo di migliorare la razza ed economizzare le risorse della società, destinandole ai soli soggetti socialmente utili.
L'(—) individualistica può essere passiva (o paraeutanasia), e cioè risolversi nella mera interruzione (o omissione) del trattamento terapeutico, o attiva, ossia consistere nel cagionare la morte del paziente mediante un comportamento attivo.
Esclusa l'ammissibilità dell'(—) collettivistica, si pone il problema della liceità penale dell'(—) individualistica:
— l'(—) individualistica passiva è lecita se ha carattere consensuale, e cioè se il paziente ha espresso la precisa e inequivoca volontà di non essere curato; in senso contrario bisogna concludere quando l'(—) passiva non sia consensuale, atteso che, in mancanza di una volontà contraria del paziente, permane a carico del medico l'obbligo giuridico di continuare il trattamento, anche se la malattia è incurabile;
— l'(—) individualistica attiva va considerata illecita sia nel caso in cui abbia carattere non consensuale, sia nel caso in cui abbia carattere consensuale, in quanto contrastante con il principio della tutela della vita.
Nel nostro ordinamento non esiste una norma ad hoc sull'(—), che può rientrare quindi nelle disposizioni relative all'omicidio (art. 575 c.p.), all'omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) o, in casi marginali, all'aiuto al suicidio (art. 580 c.p.).
In relazione all'omicidio del consenziente, spesso il consenso è prestato da persone che, per le particolari condizioni in cui versano, non sono in grado di decidere validamente, per cui la gran parte dei casi di (—) ricade nell'omicidio doloso comune. Talvolta ricorrono circostanze attenuanti (motivi di particolare valore morale e sociale, art. 621 c.p., generiche, art. 62bis c.p.), ma possono anche concorrere circostanze aggravanti (premeditazione, art. 577 n. 3 c.p., rapporti di parentela, art. 5772 c.p.).

Il linguista si ferma qui.